giovedì, Aprile 25, 2024
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Teatri senza rivoluzione di Gigi Bertoni

Teatranti e Comunisti in marcia verso questa fine di secolo

DedicaCAPITOLO I: alcune PREMESSE sui COMUNISTI NEL TEATRO, in QUESTA FINE di SECOLODiscutere ancoraDEFINIZIONE di TEATRO COMUNISTA: per favorire la NASCITA di UNA società più GIUSTA, più UGUALEIl RUOLO dell'INTELETTUALE e dell'ATTORECAPITOLO II: PERSONALMENTE, la SBORNIA rizosomatica, BENE! e le ORIGINI.I miei PRIMI ANNI da POETAI SIGNficattiil TEMALA struttura degli SPETTACOLI (METAteatro I)definizione DI ricercaRAPPORTO con l'ORGANIZZAZIONE teatraleUn BELLISSIMO mal DI TEStaIL crollo DELLA QUARTA parete: SPETTACOLI per parlare, NON oslo per RIFLETTERE SUL teatro (METAteatro II)ESIGENZA di AVERE risposte, non PARLARE al muro DEGLI APPLAUSIProduzione E RISPETTO per il PUBBLICOCAPITOLO III: ma DOVE vanno a finire LE NUVOLE?ANDREOTTI, craxi, BERLUSconi, che DIFFERENZA fa?LA tv al POTERE? no, LA tv al GOVERNO Post scriptaCONTORNO o con TESTO: le ATTIVITA' per LA citta''Un DRAMMATURGO nel teatro DUE MONDILa QUALITA' del LAVOROLETTERA PER I SOMMERSI E I SALVATI, Roma, marzo 1995
Un pensiero preliminare a tutti coloro, autorevolissimi e no, che hanno dedicato, e dedicano, il loro lavoro e la loro intelligenza a far sì che il teatro interagisca con la vita delle persone, suggerendo, spiegando, commuovendo, incantando. So bene che la fantasia è una grande arma di libertà e che, quindi, ogni volta che la usiamo aumenta la possibilità di essere liberi davvero.

Ma sono anche convinto che questo potrebbe bastare in una civiltà che già avesse vinto i mali sociali più clamorosi, come la povertà, la mortalità infantile, mali che nel duemila possono esistere solo perché gli uomini non vogliono eliminarli.

Non è mia intenzione fare in questo breve scritto la storia del teatro comunista, o dei comunisti nel teatro, o dei libertari, o anche solo di alcuni grandi maghi del teatro che hanno sentito la necessità di stare apertamente dalla parte della gente.

Non ne sarei capace, anche volendo. Vorrei però almeno ricordarli, e ricordarveli, tutti quanti insieme, mentre vi accingete alla lettura di questo libretto. Senza nominarli, così che ciascuno di voi possa includere od escludere a piacere. Ma ricordando che ci sono stati, e ci sono. 

Credo che sia sempre utile tentare una riflessione sul nostro ruolo in rapporto alla politica.

Noi, ovvero coloro che riflettono sulla comunicazione e poi parlano delle discipline della comunicazione; poi i creativi, musicisti, scrittori, che anche quando non producono riflessioni sul proprio fare, nel momento stesso in cui operano fanno critica della comunicazione, anche involontariamente.

Noi, insomma, che lavoriamo nella produzione di merce e quindi ci rivolgiamo al gusto, all’intelligenza, alla conoscenza delle persone, e che per far questo più di tutti dobbiamo affinare gli strumenti a nostra disposizione per vedere il reale, e contemporaneamente, io credo,dobbiamo anche mirare a far vedere oltre il reale la vera sostanza delle cose.

Mi pare che ora, più di ieri o anche solo con maggiore urgenza e lucidità di ieri si presenti ancora nella storia degli uomini la necessità, e l’occasione, per noi “intellettuali” di prendere la parola, anche con il nostro lavoro, per intervenire direttamente nella vita sociale.

Questo per due ragioni importanti: intanto perché, si dice, “sono finite le utopie” (!?), è finita la speranza della rivoluzione, di arrivare in breve al mondo GIUSTO; poi perché si profila, se disertiamo, la possibilità di una vittoria definitiva degli INGIUSTI.

Allora: intervenire, parlare, può essere forse un esercizio vano, come lo è già stato infinite volte. Ma quando succede, pur se raramente, che i discorsi prendono nel segno, posso garantire che è pura libidine, e ti si rinnova la possibilità di andare avanti, di farlo in modo lucido.

E sono contributi indispensabili. Chiunque operi, lavori all’interno di una disciplina, sa quanto possa essere importante, o possa mancare, la compagnia di una persona che ragiona sul lavoro e costringe a ragionare.

In questa epoca, in questi anni novanta, tinti di un tricolore stinto, non c’è alcun presupposto che possa far pensare a una possibile presa del potere da parte del proletariato.

Perché non c’è più proletariato, o forse non c’è più classe, certo non c’è coscienza dello sfruttamento, termine vetero-comunista e impronunciabile, mentre al contrario si è diffusa una struggente coscienza della necessità di far dei sacrifici per risollevare le sorti patrie. Per questo mi si chiede di rinunciare: perché l’economia nazionale si risollevi. E gli industriali possano tornare a profitti che “valgano il rischio”, e non siano costretti a licenziare, a mettere in cassa integrazione, non dobbiamo costringerli a farci del male…

E’ una battuta, mi sono lasciato andare. Le ragioni vere di una impossibilità di una rivoluzione comunista, una dittatura del proletariato, le lascio indagare a storici e politologi, ma comunque sono sotto gli occhi di tutti. E questo è quanto.

E’ difficile perciò parlare di teatro comunista, o anche immaginarlo, e forse anche di partito comunista che ha come obbiettivo la conquista del potere (o meglio: del governo). E’ possibile però parlare di partito comunista come partito con un programma di difesa dei più deboli, di allargamento della democrazia, di allargamento del controllo, di leggi più giuste, di assistenza agli indifesi, di tolleranza tra gli uomini – i popoli, le nazioni, le etnie, le religioni – e anche di un maggiore controllo dei mezzi di produzione, un maggiore controllo delle ragioni del mercato, una maggiore attenzione ai problemi dei bambini anche contro il mercato, una lotta vera contro lo spaccio e il consumo di eroina, contro il traffico delle armi, di vera solidarietà con il sud del mondo…

Se noi siamo uomini che condividiamo tutti questi imponenti obbiettivi, e facciamo teatro, allora forse attraverso il nostro essere “comunisti”, potremmo sperare di trasmettere attraverso il nostro teatro una riflessione su questi obbiettivi. E porci al servizio non del partito (teatro di regime: quando il partito sbaglia il teatro lo ossequia e giustifica) ma del raggiungimento degli stessi. Quindi un teatro tendenzialmente d’opposizione al potere (che è compromesso, coesistenza di interessi diversi e conflittuali, che è polizia e repressione del disordine) che in questa fase si pone certamente e senza indugio sul fronte a fianco delle genti comuniste, e fortemente libertarie. 

Anche a questo paragrafo mi ci accosto con grande cautela, non sentendomi attrezzato per formulare qualsiasi teoria: altri e ben più autorevoli hanno cercato una soluzione al rapporto tra intellettuali e partito, intellettuali e potere, non tento neppure. Personalmente, ritengo – per quel che può valere una semplice opinione – che non ci siano soluzioni preconfezionate, che un intellettuale non possa avere un partito ma solo una idea per la quale combattere, perfino con le armi. Mi spiego. Se la sinistra è un grande fiume, non ha senso che io mi renda organico alla corrente calda o fredda, che essendo organizzata deve qualche volta compiere scelte di mediazione, ma piuttosto che vigili perché questo grande fiume resti nel suo alveo, e si riferisca sempre ai valori fondanti, non tradisca le sue origini e vanga continuamente alimentato dalle sue sorgenti. Così forse posso superare in avanti le fasi della politica.

Allora, io, intellettuale, potrò trovarmi a volte più vicino alla riva destra, altre a quella sinistra, a seconda di dove mi sospingerà il vento delle mie idee, della mia riflessione.

Può essere anche che in certi periodi io abdichi coscientemente al mio ruolo per abbracciarne un altro, per fare politica, e quindi mi misuri con altri metodi, con altre pratiche, e che il mio compito diventi non quello di “semplicemente provocare” le intelligenze, ma di predisporre atti pratici come mozioni o delibere, o ordini del giorno, o dirigere una commissione, o occupare una sala consiliare, a seconda, e cambieranno anche i miei punti di riferimento, i miei ragionamenti si adegueranno ai nuovi compiti.

Ora, come militante del teatro, semplicemente dovrò far sì che attraverso il mio teatro, e attraverso l’azione a trecentosessanta gradi che mi propongo, di produzione, ospitalità – che è costruire una rete di lavoro, solidarietà e resistenza, non uno scambio d’interessi come altre volte ho dovuto vedere -, pedagogia – che non è fare proseliti, ma offrire contributi, dare visibilità ad una alternativa di teatro e quindi di pensiero e di vita, perché non sia ricondotto tutto, per le giovani generazioni, al Teatro che passa in tv o al cinema, alle interviste sui rotocalchi, al carisma dei tv-attori… – passino con chiarezza le mie idee, la mia visione del mondo.

Per mezzo di una serie di segnali, comportamenti, scelte indirette. Per allargare, e non restringere l’area delle libertà personali, delle scelte possibili.

Come cercherò di dire lungo questo breve scritto nel modo più chiaro che mi è possibile.

Io ho 39 anni, e quindi sono cresciuto in – mi sono imbevuto di – un clima particolare. E come sovente accade, le letture sono rivelatrici: le riviste “popolari” Scena e Muzak, la sperimentazione e il divertimento di TamTam (la rivista di Adriano Spatola); ma anche altre, con la voglia e la speranza di arrivare oltre la semplice trasmissione, alla comunicazione passando attraverso l’uso cosciente del linguaggio, con lo sguardo rivolto a Dada e Surrealisti, a Futurismo e Costruttivismo, a Stratos e a Ejzenstejn – per dire tutto in due righe.

Così scrivevo io, tra Ginsberg e Roversi, con qualche fuga verso e oltre Balestrini. Roba buona? Non so, e non è importante qui, che lo fosse. L’importante è che questo lavoro, questo tempo di vita, ci sia stato.

Poi la possibilità, diventata presto necessità, di fare teatro col mio – ora, mio – gruppo. E quindi nuovi problemi, nuovi incontri, nuove conquiste di scrittura.

Ragionavo sul mio pubblico/il mio ambiente, ragionavo, è ovvio, con le mie esperienze di allievo, da posizioni strettamente personali. Così volevo dare un prodotto che, date per scontate “le conquiste del movimento operaio, le lotte, i valori pace eguaglianza ecc”, facesse fare dei passi in avanti, fosse utile all’intelligenza e al ragionamento anche di altri, come lo era per me nel frattempo.

Questo è stato certamente l’errore, un errore: ho imparato poi a non dare per scontato nulla. E soprattutto, quei valori non sono affatto scontati (sto parlando per esempio della violenza, dell’uso delle armi, i temi del nostro UBU RE). Ma poi, quel pubblico era quantitativamente risibile, non era un pubblico ma … un’équipe di lavoro… una parte esigua di quel “totale pubblico ipotetico” al quale andava raccontato tutto da capo, come avevano fatto Brecht, il Living, Majakovskij…

Bisognava capirlo. E da allora, da quel momento per me cambia tutto. Nasce la necessità – mentre rimane intatta la voglia di lavorare ancora sulle questioni strutturali dello spettacolo – di parlare di rapporti tra la gente, di uomini e persone, di fatti e cose, sempre è ovvio con tutta l’intelligenza possibile e col supporto del miglior lavoro professionale possibile. E di riaffermare la forza dei valori a voce alta, perché non basta mai, non è mai sufficiente.

Oggi c’è il silenzio e l’indifferenza, domani il fastidio o il luogo comune, poi addirittura la sconfitta e l’irrisione, la censura.

Ecco: parliamo ancora di comunismo, di eguaglianza, di forti che opprimono i deboli. Facciamolo evitando il cliché, dribblando il luogo comune, costruendogli attorno storie bellissime e creando spettacoli bellissimi (perché uno spettacolo o è bellissimo per lo spettatore o non esiste). Ma parliamo ancora della paura della guerra, della lotta per il potere. Cerchiamo parole che possano diventare parole d’ordine, e spieghiamo arcani che possano essere capiti e riusati “contro” da quella gente che è tutto il nostro pubblico.

Ci sono stati nel mio apprendistato, nella mia autoistruzione, lunghi anni di grande voracità, di approccio allo spettacolo cinematografico o teatrale, poi performativo, anni in cui ho sopportato davvero di tutto, e anche ho cercato di spiegarmi…

Intanto, di spiegare a me stesso perché facevo certe scelte e non altre, soprattutto di fronte all’evidenza del fatto che non sempre seguivo una linea retta: se è vero che spendevo i miei soldi nella ricerca di testi (libri), musiche (dischi), incontri che fossero sempre fertili, è anche vero che correvo a vedere qualsiasi cosa, e che dovevo risolvere alcuni quesiti fondamentali: perché Fofi parlava bene di Totò, e perché Pasolini lo aveva voluto in Uccellacci e Uccellini; se era di destra ridere alle battute di un comico qualunquista; o perché certi attori mi commuovevano pur lavorando nel teatro mortale, come distinguere e scegliere, e così via…

 

E intanto, cominciavano a nascere i primi interrogativi sul mio mestiere di scrittore per il teatro, questa io credo sia la prima ingenua definizione che mi sono cucito addosso. Non ancora un dramaturg, ma un costruttore di storie per uno spettacolo. Costretto a partire da una serie di negazioni, senza sapere dove e come andare, ma sapendo bene cosa non bisognava fare, dove non bisognava andare.

Fu molto convincente – a proposito, non aspettatevi di leggere le risposte esatte alle domande precedenti… – e conveniente studiare per qualche anno alcuni problemi a lato: erano gli anni di Rizoma, della critica alla “struttura ad albero”, soggetta alla gerarchia di potere radici tronco rami sempre più piccoli, confrontata con la struttura a rizoma, democratica, a blocchi non dipendenti. Carmelo Bene sottraeva potere escludendo Desdemona dall’Otello scespiriano, sottraendo gli “avversari” a Riccardo III, impedendo a Mercuzio una sicura morte, insomma, riscrivendo in caratteri contemporanei alcune immortali agonie. Questo mentre altri, anche politicamente più ortodossi, preferivano limitarsi a “rappresentare”, oppure inventavano esperienze per certi versi anche più interessanti – di quartiere, di fabbrica -, e magari l’insultavano, povero dandy molto teatrale, perché strausava le sue donne per i suoi calligrafici spettacoli. Ma di solito non si era molto al di là del realismo socialista, oppure si continuava a rivestire di teatro povero i propri spettacoli, e le vette assolute erano rare, molto rare.

Altra contraddizione, capire chi fosse nel giusto, quello che appariva più simile all’ortodossia, fedele ai canoni, o quello che invece apparentemente cercava altre strade lontano. E poi, comunque: scrivere uno spettacolo senza struttura, o rizomatico, avrebbe salvato l’anima mia? Avrebbe risolto “in avanti” il mio problema di fare politica in modo non scontato, non prevedibile, non facilmente neutralizzabile…? 

Privilegiare la scelta di un tema rispetto ad un altro, per uno spettacolo, per un romanzo, non è di per sé motivo sufficiente, e neppure può di per sé garantirci di condurre da qualche parte il nostro lavoro. E’ importante, tuttavia, che questa scelta venga fatta, che anche il tema del lavoro che va ad essere mostrato non sia lasciato al caso, o peggio a ragioni di convenienza. Detto questo, credo che oggi dobbiamo sforzarci di guardare ai rapporti non solo interpersonali, non solo ai problemi di crescita della persona, ma cercare anche di andare a toccare problemi strutturali, di organizzazione sociale, indagare nelle cause sociali dell’infelicità. Con le nostre parole, con la nostra lingua, lo stile nostro, e sempre perseguendo un uso del linguaggio contemporaneo, sfruttando la possibilità di offrire strumenti di elaborazione e possibili – ulteriori – risposte allo spettatore contemporaneo.

Anche questo, lo so bene, non è sufficiente.

Per esperienza personale, perché sono pur convinto di aver sempre illustrato percorsi o cercato risposte che immediatamente giravo al pubblico. Perché che altro abbiamo fatto fino ad oggi, noi del TDM, alla fine, se non mettere a disposizione il nostro lavoro perché la persona reagisca, esca, scelga, abbia elementi di confronto, stia assieme agli altri, non si lasci chiudere nell’angolo dell’autocompiacimento, autoconvincendosi che quello che abbiamo, e quello che siamo, grazie a Dio e alla Tv, è quanto di meglio ci possa essere in questo finire di millennio.

E’ vero, è falso, è sbagliato, è troppo poco? Forse non sono domande da porsi, siamo fuori tema, perché stiamo chiedendo al teatro di riuscire in un compito non proprio, perché non c’è altra risposta che nella politica, e nell’azione diretta in politica (analisi e non metafore) per modificare abitudini ed educazioni, anche quando si trasforma, esasperata, disperata, nella deriva del fucile. 

Io, intanto, non sentivo particolarmente il problema di riuscire a trovare attenzione nel pubblico faentino alla fine dei ’70, né immaginavo di poter interessare alcuno al mio lavoro. Questi spettacoli quindi molto liberi, dall’architettura molto complessa, fondavano i loro presupposti su alcune (false?) proposizioni: intanto, il mio era /doveva essere /un pubblico élite già avvezzo a vedere opere fondate su una scrittura complicata; poi, come già detto questo pubblico a cui pensavo mi somigliava talmente che non era necessario ribadirgli per esempio che la guerra è un’idiozia, che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è un’idiozia – insomma, ci siamo intesi…

Prima ho anche detto che “dare per scontato” fu un errore. E’ vero, lo penso. Ma nella logica di quegli anni, non era poi così tutto campato in aria: a me interessare arrivare là dove pochi, forse nessuno, era arrivato prima, là dove stavano sentimenti e territori che alcuni avevano descritto senza neppure conoscerli, senza averli praticati, come Artaud; oltre comunque la banalità della lettura del testo in piedi che era (è) lo spettacolo teatrale delle stagioni nei teatri di velluti e ori, sotto le luci, su un palco, oltre cioè il teatro: che m’importava se non si capiva, e cosa poi si sarebbe dovuto capire: non veicolavo significati, ma significanti, non raccontavo storie, ma un’epoca, un’età, una sola storia. Per farlo, rubavo qua e là le pagine più diverse, le ricucivo insieme, le incollavo, le strappavo, le accartocciavo e buttavo. Tutto questo per me aveva un senso grandissimo. Che m’importava che il pubblico all’uscita dicesse né più né meno di quanto lo sentivo dire davanti a scrittori di ben altra caratura, i laureati e ormai defunti Ibsen, Strindberg, perfino Pirandello: “Non ho capito, non ho capito. Sono venuto qui per ridere, per divertirmi, per distrarmi, e mi piazzate una… non ho capito. Dieci minuti fa ero ancora in ufficio, o attraversavo in auto il centro, o litigavo con mia moglie (una bambinona..!) ed ora pretendete che capisca questa Casa di Bambola?”

Era un pubblico di schivatori: il teatro è finzione, gli attori sono ipocriti, la scena è divertimento, quel che dice non mi tocca, io vivo una vita vera. 

Già, probabilmente è questo, la vita vera, la pittura di Paul Klee, la musica di Tcajkovskij, il teatro del Living, di Carmelo Bene, di Eugenio Barba. Ecco cosa si ricerca, la vita, e il teatro quando con essa si congiunge, quel punto, e si lavora per tutta la vita per cercare esattamente questo. (Allora ero molto romantico, e non mi ponevo affatto il quesito di come poter continuare a lavorare, e come proseguire la ricerca. Il problema è nato dopo risolto, dopo cioè che era già partita la storia con Angela, Alberto, Renato, e gli altri.)

La ricerca: già, la ricerca.

Ci struggiamo sul problema di come dare un pubblico al teatro di ricerca, di come farla sopravvivere. E’ un circolo vizioso.

Guardate come nelle altre discipline, la chimica per esempio, il fatto che la ricerca sia un momento fondante della disciplina stessa, imprescindibile, è assodato, e quella si finanzia. Molti mesi saranno perduti in nulla, altre conquiste diventeranno patrimonio comune. Ovvero di tutti i professionisti della disciplina, e di tutti gli utenti, anche ignari della vita quotidiana della sperimentazione.

Nessuno si pone il problema che l’utenza possa seguirla numerosa nel suo farsi, finanziandola con degli “equivalenti-biglietti”, o che tutti i professionisti ne possano condividere e apprezzare le direzioni di marcia. Non c’è pubblico di massa, se non in occasioni ad hoc che non risolvono i problemi di sopravvivenza dei ricercatori, per spettacoli per definizione costruiti con procedure d’avanguardia (nel senso scientifico…). Raramente compiuti, equilibrati, spesso non gradevoli, ma interessanti, accidenti, quanto per me che mi dibatto quotidianamente in questi problemi, quanto mi serve che teorici dibattano, e teatranti esperimentino. Senza questo non ci sarebbe alternativa, rinnovamento, vita.

Questo ritengo sia a sua volta imprescindibile: non si deve rissare su briciole di contributi, ma lottare perché sia finanziata legittimamente per le sue esigenze la ricerca nella nostra disciplina. Non mendicanti, ma ricercatori. E’ un vero e proprio salto di qualità mentale che dobbiamo richiedere, perché non ci sia più nessuna legge che discrimina sul riparto dei contributi statali, che impone graduatorie surreali, né la necessità di inventarsi appartenenze, crearsi padrini politici.

Lasciamo al teatro commerciale il piacere di azzuffarsi per dividersi la torta delle contribuzioni.

 

Non è roba per noi, non appartiene alla nostra cultura, è un bisogno indotto, quello di litigare come i capponi di Renzo Tramaglino. Dobbiamo evitare la trappola, cercare soluzioni diverse nel rapporto con una ricerca a cui va riconosciuto un ruolo e di conseguenza finanziata (questo sostengo!).

Noi, che non siamo i Ronconi, o Carmelo Bene, che fanno una ricerca privilegiata, da premio nobel, con grandi istituzioni alle spalle che li supportano. Beati loro, per carità. Non so se arriveremo a tanto, a trovare la celebrità vestita di mille monete d’oro: so che molti di quelli che oggi lavorano nell’agiatezza hanno cominciato facendo la fame e sono sopravvissuti, e hanno resistito. Bene, male, che importa: io quel diritto sostengo, a lavorare nella ricerca, non il diritto a farsi intervistare. Il diritto a continuare nella ricerca del teatro, non nella ricerca del successo.

 

In quegli anni vagabondavo sui significati tra gli spettacoli dei magazzini, crollo nervoso fu una scarica che ancora dura, la morte in diretta del cavallo [non vista! eppure…] fu come se io stesso avessi premuto il grilletto; sulle tracce in assenza di gravità della gaia scienza, cuori strappati e dilaniati dal sentimento, un freddo teatro che rifletteva, mi sembrava lucidamente, il ghiaccio dell’anima del mondo; e vagabondavo cercando un movimento vero ballando gli spettacoli di falso movimento, che ci avrebbero portato poi nei vicoli della Napoli dei sentimenti. E la Valdoca, Raffaello Sanzio, già capaci di una poetica, e Martinelli che come noi la stava cercando, scartando, scartando, provando. Provandoci. Non accontentandosi.

Intanto, come stelle comete traversavano i miei cieli il teatro dell’Odin, esplodeva come una pietra giunta a contatto con l’atmosfera il Tanztheater, e brillava fulgido lo spettacolo di Wilson, o disperato quello di Kantor. Poi alcuni episodi memorabili: il villaggio creato da Thierry Salmon, o il circo equestre di Zingaro; mentre con l’università già litigavo, mentre non mi riusciva di mettere in fila sulla carta il senso di tutti questi spettacoli, fondamentali, ciascuno a suo modo… studiare i padri, tradire i padri, capire per poter tradire, come loro avevano tradito. Tradire quei risultati eccellenti, saperlo… prima ancora di averli trovati… 

Quello che qui interessa notare è che l’Organizzazione riesce a gestire, in positivo e in negativo, la quasi totalità del denaro speso o spendibile perché la disciplina possa svilupparsi, produrre ricerca, produrre pubblico, produrre informazione e conoscenza (attività organizzative, editoriali, e lambisce università, case editrici, luoghi di spettacolo, periodici…).

Si può decidere di starne ai margini “più lontani”, di starci in piedi, di combattere piccole o grandi battaglie. Ma questa è l’Organizzazione della Tua Disciplina, e con questa sopravvivono quasi tutti i soggetti che ne fanno parte. E mi pare che non si possa far finta di non conoscerla, di non vederla, che non esista.

Da notare a margine un problema, per così dire, generazionale: fino a un certo punto è possibile affrontarla in condizioni A (studente, a carico della famiglia…), quindi con una possibilità di indipendenza maggiore. Ma poi siamo costretti a scendere in B (dilettantismo, ovvero con un lavoro altro che supporti il lavoro artistico; professionismo, ovvero dal lavoro artistico devono arrivare i proventi necessari per mangiare, vestirsi, comprare libri), e se per avere denaro occorre scambiare qualcosa – la merce che produciamo – a seconda della scelta che abbiamo (potuto, dovuto, siamo stati capaci di, altro) fatto si gradua il nostro oggettivo livello d’indipendenza dalla Organizzazione.

Non siamo stati capaci di inventare dei modelli alternativi (ma io sono convinto che non ne esistano altri, già molti sono quelli in campo); né creare circuiti alternativi (sarebbe davvero un miracolo: riuscire a far lavorare assieme organizzatori, gestori, artisti, in numero sufficiente e tutti all’interno di un circuito diverso che nel tempo e con le necessarie professionalità potesse inventarsi delle sale e un pubblico sufficiente); resta poi il lavoro individuale, anche rigoroso, e davvero importante, che va oltre la testimonianza fino ad assumere rilievo politico. E restano, io credo, le scelte di molti, non solo gruppi ma attori, intellettuali, registi che quotidianamente pur non sovvertendo, contribuiscono a creare visioni altre, a far intravedere realtà diverse, insomma non si fanno omologare e rendono visibili strade alternative anche se non radicalmente estranee al mercato. Ma occorre che questo patrimonio non vada disperso o gettato, e per far questo occorre almeno mettere in circolo queste esperienze dal punto di vista dell’informazione: perché sapere che altrove qualcuno fa scelte simili alle mie rende più forti le mie, aiuta a capire meglio le forze e i valori in campo, e a combattere la cultura omologante. 

Degli anni dei treni ho ricordi bellissimi, di sonnolenze, di notti in stazioni, di giri a vuoto in cerca dei teatri, di cene a base di schifezze, facce anonime ma riconoscibili. Ogni volta ripartire, ogni volta guardare avanti, verso altri appuntamenti. Io che non giro solitamente col gruppo, ormai partenze e arrivi ne conto pochini.

Allora, invece…

E se gli anni del nomadismo teatrale sono stati anni ubriachi, be’, sono state sbornie senza i conseguenti mal di testa postumi. Anni di studio “matto e disperatissimo”, che oggi non ho più la forza e il coraggio di ripetere, ma che non rinnego, anzi in qualche misura rimpiango. Avevo la mente annebbiata, il cervello non vedeva cose ovvie, ci mettevo mesi per fare un passo? Ebbene, erano tutte tappe necessarie, errori benvenuti, una curiosità che portava la conoscenza. 

E’ evidente, almeno ora mi appare evidente che in quella fase il destinatario degli spettacoli era il teatro stesso. Si ragionava sulle parti, a scapito del tutto. Si metteva in atto una critica alla struttura della disciplina, ogni sua parte veniva sezionata, insomma, si compiva una indagine da laboratorio, per un livello altro di comunicazione: perché fare teatro, come, quali obbiettivi; quale teatro fare piuttosto che: quale spettacolo fare.

 

Ho detto in un’altra parte di questo scritto, di quanto sia stata importante la coscienza della presenza fisica del pubblico, di questa gente che era seduta davanti, e di quanto fosse necessario darle rispetto.

Oggi, con questo sguardo a ritroso, io parlerei addirittura di una cesura forte, di un primo periodo che si chiude, e di un secondo che invece incomincia col crollo fisico di quella quarta parete che fino ad allora ci aveva tenuti separati.

Mentre prima il pubblico guardava da fuori quanto avveniva all’interno dello spazio dello spettacolo, quelle operazioni che ho tentato di sintetizzare nel paragrafo precedente, ora cambia addirittura la posizione del corpo degli attori: diventa frontale. Cambia l’emissione della voce: articola parole e frasi di senso compiuto, si rivolge al – verso il buio di fronte. Cambia la struttura: da blocchi autosufficienti, montati tra loro in relazione, a storia raccontata.

Non è un arretramento, ci tengo moltissimo a dirlo, ma un avanzamento. Lasciare certe sponde perché “pronti” ad affrontare il largo, che è pericolo, rischio.

Cominciò con UBU, questa avventura, e fu contemporanea per drammaturgo, regista e attori. Fu una sosta di due anni circa. Una metamorfosi progressiva, forse già c’erano segnali che abbiamo saputo interpretare con nettezza solo molto tempo dopo.

Ma fu UBU, guarda caso, che immaginammo come una “recita” di una compagnia scalcagnata, anzi: quel che ne restava, solo due attori, che non solo dovevano moltiplicarsi nelle varie parti (Angela), ma che spesso erompevano dalla stanchezza dello spettacolo per proclamare i loro “principi fondanti”, la loro visione del mondo e del teatro.

Poi LA PICCOLA CASA DEI GRILLI, nel 92, dove i monologhi delle due sorelle (ancora Angela due volte) andavano a costruire un percorso di memorie e di rabbia “politica” diretto al bersaglio\cuore del pubblico: la scena era racchiusa in una metà di cerchio, e l’altra metà era il pubblico.

E questa cintura si chiude fisicamente, addirittura, nel CERCHIO DI GESSO del 1994, spettacolo che tenta la sintesi del nostro fare teatro: attori tra la gente, come negli spettacoli di strada, attori musicisti, richiesta di un diretto, emotivo, coinvolgimento.

Ma cos’è il pubblico che noi immaginiamo, se non noi stessi moltiplicati, seduti in platea. Per questo forse mettiamo nel lavoro questo enorme rispetto, grande rispetto: noi teatranti nella confezione della merce, nella durezza della preparazione, nella ricerca del gesto esatto, della parola esatta, sempre. 

Stanislavskij metteva in guardia i suoi attori dalla considerazione di sé, e dal pubblico. C’è sempre un idiota disposto a batterti le mani, a dire che sei bravo.

Ecco, tanta parte di pubblico è quello distratto, svagato, desideroso di divertimento. Il pubblico tante volte messo alla berlina degli abbonati (e pensare che Copeau nel suo Vieux Colombier presentava con orgoglio la campagna abbonamenti…) impellicciati e in bella mostra. Già tanto bistrattati che non vale neanche la pena di tornarci su.

Ma tra essi, nascosti, ci sono anche i nostri spettatori, quelli non ancora impermeabili alle occasioni che la vita può offrire al cervello, quelli che affrontano un libro come se da quella lettura dipendessero davvero i propri anni futuri, e che vengono non per mostrare ma per vedere.

Per chi facciamo teatro, per le istituzioni che ci comprano gli spettacoli? per i critici perché poi possano parlarne nei giornali? per una signorina che vogliamo portarci a letto?

Per lo spettatore curioso. Che poi può essere un dirigente di un comune, un critico di giornale, o una persona da conquistare. E molte altre cose, naturalmente. Ma che essenzialmente, esclusivamente è pubblico curioso, disposto a rivoltare sé, a mettersi in gioco, a ricominciare.

Ecco quanto io chiedo. Ed ecco perché sono disposto a dare tutto. 

La merce che produciamo sono i nostri spettacoli, i laboratori, i libri e tutto ciò che vendiamo (da zero lire in su), e gli eventi che organizziamo. Questo ci mette in rapporto con il mercato individuale (lo spettatore che acquista il biglietto o il libro), il mercato collettivo (gli enti nazionali e locali che fanno scelte che ci riguardano), e l’Organizzazione.

Dopo quella che vorrei chiamare “la qualità del lavoro” (paragrafo previsto ma ancora da scrivere…), le condizioni di produzione sono l’aspetto più importante nella nostra quotidianità.

E queste riguardano sia la produzione della merce – e cioè la sala o i patti produttivi -, sia i problemi che troviamo nel momento in cui la merce è pronta e viene messa in vendita. “Come” o “a chi” vendiamo, attraverso quali canali, opuscoli pubblicitari o suggerimenti di persone che conoscono il lavoro, ogni contatto ha una storia non generalizzabile perché ogni mercato (ragazzi, strada, ricerca) ha le sue leggi.

Per certo, è necessario avere ben chiari alcuni principali valori di riferimento, solo così è possibile vendere conservando il rispetto per il pubblico, o, se volete, avere rapporti chiari con l’ente pubblico. Tutte cose estremamente importanti.

Così come è estremamente importante costruire dei progetti a partire a sé, senza lasciarsi comandare dal capriccio alla moda, e soprattutto senza lasciare cadaveri sul nostro cammino. Questo è certamente un metodo utile per costruire un percorso. Così come, soprattutto quando si diventa “organizzatori”, e si ospita, e ci si relazione con un pubblico del progetto, diventa metodo anche costruire dei percorsi entro il quale chiunque voglia possa incamminarsi.

Cose ovvie, in fondo, ma che si scontrano talmente di frequente coi problemi “pratici”, che non sono poi così diffusamente praticate come si potrebbe pensare. Per questo può forse valer la pena spenderci qualche parola e qualche riflessione.

 

Ad esempio, non si può non considerare che un gruppo di artisti, nel teatro come in altre discipline, quando decide di “campare del proprio lavoro”, e lavora collettivamente, si ritrova ad essere, che lo voglia o no, una piccola azienda, che deve fatturare (a seconda del numero dei soci, degli attori, ecc,) cento, duecento, o più ancora, milioni in un anno. Per queste aziende, costrette in un ambiente difficile perché senza regole, ogni spettacolo venduto è un mattone nel muro della resistenza, della continuità, della possibilità di fare questo lavoro.

Sotto queste forche caudine, come chiedere a loro di accettare solo alcune delle poche, insufficienti proposte che già arrivano?

Spesso può essere d’aiuto anche solo una buona sistemazione logistica, o la vendita della propria capacità organizzativa e di elaborazione sulla città, in questo modo aprendo un buon rapporto con gli enti territoriali. Questo porta come conseguenza anche il fatto che viene sfruttata al meglio la presenza sul territorio di gruppi di produzione che interagiscono con degli interlocutori diretti (allievi, spettatori, amatori, ecc.), e il territorio stesso moltiplica la sua capacità propositiva, e fornisce risposte a bisogni primari, come l’aggregazione, la soddisfazione, la qualità della vita, l’identificazione, il rito.

 

Ma questo, a noi non è successo, anzi ci fanno sentire come ospiti impiccioni, un po’ presuntuosi, e mendicanti (torna questa parola…).

Le condizioni di produzione, dicevo.

Troppo spesso siamo costretti ad accettare mediazioni coercitive, ritardi burocratici che mutano le carte in tavola: meno spazi, meno soldi, meno tutto, e già si sta lavorando da tempo, e già gli impegni sono presi da tempo. Troppo spesso abbiamo accettato condizioni imposte da veri e propri “usurai” della cultura.

Ma va rifiutato quel livello zero che equivale ad accettare quale che sia la condizione posta, poiché ne verrebbero a soffrire immediatamente (irrimediabilmente) il lavoro sul contesto, il lavoro dentro, e non ultimo anche il rispetto verso noi stessi. 

E’ del tutto evidente, giunti a questo punto di questo scritto, che l’Organizzazione ha sviluppato negli anni una certa struttura, certe regole – come detto per la maggior parte e per tutte le più importanti – non scritte, degli equilibri che per essere sovvertiti avrebbero bisogno di alcune fondamentali ribaltamenti, come per la questione dei “mendicanti” o della ricerca, o nella gestione del mercato, insomma, un po’ ovunque.

E’ chiaro anche che tutto questo è funzionale al potere politico, strutturato a sua immagine, soggetto ai cambiamenti d’umore. Dal locale al nazionale, con queste lune è sempre meglio non avere posizioni troppo hard.

Non vedo neppure un peggioramento della situazione negli ultimi due decenni, quelli che conosco, perché che a governare ci sia Andreotti, Craxi, o Berlusconi, da questo punto di vista cambia poco.

Quello che invece è cambiato radicalmente, quello che mi ha spinto a iniziare queste riflessioni, a scriverle, è il contesto politico nel quale ci troviamo ad operare.

Qui davvero è in corso una rivoluzione cruenta: la criminalizzazione dell’antifascismo, i costi della crisi tutti sulle solite spalle, i condoni, le battaglie per politicizzare la questione istituzionale, così da sradicarla e risolverla con armi “improprie”.

Questo è lo scenario nel quale la P2 arriva al governo, organizza un livello superiore europeo a sostegno degli INGIUSTI perché deve essere pronta a gestire eventuali, improvvise, impreviste sconfitte che possono nascere dalla lotta di una classe, di una parte di popolo che non desiste, che rilancia, che combatte.

In tutto questo, se questo è vero, come posso io lavorare senza tenerne conto, senza che questo entri pesantemente nel mio lavoro. Che Amleto può esserci oggi che non sia dilaniato da un unico dilemma: essere o non essere uomini, che significato ha, nel quadro di grandi stravolgimenti che possono solo essere accettati o combattuti. Un equilibrio s’è rotto, e non saranno due leggi a cambiare uno stato, ma uno stato cambiato farà nuove e più terribili leggi. 

Nei nostri documenti, sul giornale del gruppo, noi Teatro Due Mondi abbiamo fatto in questi anni un largo (ma attento, spero) uso del concetto di resistenza. E ne abbiamo esteso i significati a più, e diversi, contesti. La resistenza (permanenza) in un territorio proprio ma egemonizzato da altri; la resistenza (prosecuzione) nel fare un mestiere senza le garanzie minime di mercato che garantissero la sopravvivenza; la resistenza (opposizione) a un sistema di valori e di modalità che non riconoscevamo nostro.

Insomma: se resistere economicamente è un problema “pratico” di ogni giorno, abbiamo sempre inteso una resistenza più ampia, contro l’omologazione culturale e politica, i metodi, le strutture produttive più forti, i colonialismi culturali ed economici.

Nello stesso tempo, sapevamo bene che era necessario essere realisti, e fare i conti con i diversi contesti:

a. necessità del confronto con la realtà del lavoro di organizzazione sul territorio, che impone una capacità di gestire l’evento organizzato in città perché l’Ente Locale dopo anni di gestione diretta – spesso scriteriata – se ne ritrae ancora scriteriatamente [con la consapevolezza poi che questo è uno dei canali effettivi del finanziamento pubblico];

b. con la realtà del mercato, per definire con esattezza le ragioni dell’assenza di un circuito per la ricerca che da solo possa dare risposte economiche adeguate e rendere superflua la sovvenzione pubblica;

c. con gli anni della televisione al potere, col suo pubblico, sulle abitudini che vengono indotte, e quindi sul come cambia la vita della gente.

A partire da una nostra convinzione che è un punto fermo di riferimento: la resistenza la si fa con un certosino lavoro che tiene vivo il riferimento alle origini e alla natura dell’esperienza teatrale e culturale della ricerca, ne tiene viva la fiamma e ne permette la sopravvivenza; con una attenzione alla realtà della gente; con la costruzione comunque di una “casa di lavoro”, punto di riferimento anche fisico.

Faccio parte di un gruppo che ha scelto, come molti altri, di lavorare (intervenire) nella realtà che lo ospita. Sia perché questo rapporto con il pubblico (i cittadini) è vitale per la nostra stessa esperienza; sia perché è parte della nostra educazione culturale questo cercare di trasmettere ad altri “conoscenza e gioia”.

Questo comporta immediatamente una necessità di richieste agli interlocutori amministrativi (quindi politici) del territorio; e una necessità di organizzazione interna al fine di porre in essere le esperienze pubbliche che vogliamo attuare (a nostra immagine, l’una e le altre).

E determina poi una doverosa “ingerenza” nel dibattito e nella definizione di una strategia culturale pubblica, della quale diventiamo parte, che significa dibattito sugli orientamenti, sulle scelte, sulla spesa, sulle modalità (convenzioni, contributi,…).

La nostra esperienza ci ha convinti che un momento qualificante si ha quando il rapporto con l’Ente Locale si materializza in una sede adeguata di lavoro, e in un portafoglio di contributi che sostenga almeno alcune iniziative basilari, rivolte alla città. Perché sempre una attività continuativa ha bisogno di un luogo dove si producono le cose in successione, sedimentano, il pubblico sa che ci sono e dove trovarle, e la memoria si stratifica (documenti conservati, spazio che si trasforma in conseguenza delle esperienze).

Ma anche per ragioni meramente organizzative, poiché questa attività assume un rilievo che supera la dimensione della città, e si deve inserire nei calendari nazionali ed internazionali, deve poter scegliere e insieme garantire per periodi che di gran lunga superano i “pochi mesi” richiesti dagli enti pubblici per finanziare dei progetti annuali.

Questa riflessione va soprattutto a chiunque organizzi attività in città: se quanto detto è vero, ne consegue che la questione viene trasferita da un piano di trattativa sul finanziamento di alcune attività (strategia perdente nel medio periodo) su altri piani: le convenzioni devono essere pluriennali, e garantire anche i gruppi e non solo l’Ente Locale; le spese vanno previste a partire dai luoghi e non dalle attività, e su due livelli paralleli, d’investimento – anche con il coinvolgimento dell’associazione – e di spesa per le attività – con libertà per l’Ente di scegliere tra poca o tanta attività pubblica in uno spazio caratterizzato, dato alla città, di produzione e crescita culturale.

Deve essere finalmente chiaro che, se in una città esiste un gruppo che opera su alcune discipline, che dà una disponibilità operativa, ed è in grado di organizzare eventi di rilievo, a questo punto spetta all’ Amministrazione decidere se “utilizzarlo” o meno, se metterlo o meno nelle condizioni di operare. Quello che va finanziato non è (non è più) un progetto singolo, ma piuttosto il progetto di lavoro complessivo, in termini essenzialmente di spazi/condizioni per operare/, e contributi e investimenti in denaro pubblico. L’amministrazione non è costretta a farlo. Può decidere di risparmiare sull’inutile spesa culturale. Per chi fa queste scelte non c’è dramma. Non c’è dramma mai se non c’è coscienza del valore perso.

Al riguardo, dovremmo fare un bel salto indietro, e dibattere se sia utile (e perché) spendere e investire sulla cultura. Per rispetto verso chi legge queste righe, e anche per chi le scrive, mi asterrò dal riproporre anche in questa sede argomenti e ragioni che ciascuno di noi ha mille volte sostenuto in privato e in pubblico.

Solo su una cosa non posso non ripetermi: la possibilità di poter toccare l’utilità del lavoro culturale in una città è esclusivamente dipendente dalla presenza di sedi fisiche operative. Senza di queste, nulla resta se non la crescita personale o collettiva di alcuni, che non è visibile e non riguarda la collettività. 

Tento qui una riflessione su quella che alcuni hanno definito una “anomalia” del Teatro Due Mondi, e cioè: la presenza all’interno del gruppo di un drammaturgo che non è anche attore o regista, ma soltanto scrittore.

Che è poi una riflessione sul lavoro, o ancora meglio, su come questo si svolga in sé e in relazione a quello degli altri.

Poniamo quindi in partenza alcuni “paletti”. Preliminarmente, bisogna tener conto del fatto che tra i tre diversi ruoli, attore, regista e drammaturgo, c’è per noi una netta distinzione, sia per quello che riguarda l’intervento “creativo”, sia per le relative responsabilità. Ad ognuno è chiesto di rispettare questa ripartizione, che prevede naturalmente anche momenti di confronto e scambio. E questi momenti sono veri e non formali, profondi e quindi anche efficaci dal punto di vista del lavoro, proprio perché ciascuno ha piena fiducia nell’onestà dell’altro, e quindi si confronta “a cuore aperto”, senza nulla nascondere.

[Questo rapporto di stima reciproca non è ovviamente cosa che si crei in un giorno o un anno. Per questa ragione l’allievo che entra nel gruppo deve – da subito – far emergere la disponibilità ad accettarlo come “principio fondamentale”. Lavorando come se così fosse, un giorno si accorgerà che così è.]

Proprio in virtù di questa profonda autonomia, di questa presenza in ruolo, ciascuno sa che non può mai fermare la propria ricerca personale, ma deve nel tempo continuare i propri studi per allargare e migliorare le proprie competenze, al fine di riportarne poi gli esiti nel gruppo.

Per quello che mi riguarda, il mio percorso di scrittore ha subìto certamente delle deviazioni, degli arresti, o delle accelerazioni, probabilmente mentre lo stesso accadeva alla mia vita. Ma mi pare che proprio grazie al fatto che il rapporto col gruppo era, ed è, fondato su basi di estrema concretezza; e che questi scarti erano frutto di lavoro o discussioni che potevano risalire anche a molto tempo prima e solo in seguito erano state digerite; bene, per questo poteva non risultare ostico per gli altri.

Ciascuno sa, e deve sapere, che nel lavoro collettivo va anche a rinunciare. Ma (ovvero, proprio perché) uno spettacolo di teatro è senza dubbio opera collettiva – affermazione che vi prego di accettare così, senza quei necessari distinguo che qui per brevità devo tralasciare -, e l’opera si realizza solo se le varie responsabilità lavorano ad un progetto comune, e a quello sono disposte a sacrificare parte del proprio “orgoglio”. Naturalmente non tutto, altrimenti non sarebbe opera collettiva, e non ci piacerebbe farla.

Tutto questo non è soltanto rinuncia e delusione: non è raro che dalla rinuncia a un buon testo, dal confronto con regista e attore, e quindi dalla necessità di una nuova scrittura non nasca un pezzo anche “migliore”… Senza contare che, se proprio non si riesce a trovar pace per la “rinuncia”, si può conservare quanto è stato scartato per un diverso o differito utilizzo.

Questo discorso – spero chiaro – è centrale per capire cosa significa per me “lavorare assieme” ad altri, e cercare riscontri negli altri. Ed è credo centrale anche per chi voglia conoscere il gruppo, per vederne il lavoro, o per entrarci. Un tempo, quando eravamo molto più giovani, eravamo anche un gruppo solidale di amici. Poi la vita ci ha chiesto di (o indotto, costretto a) abbandonare convinzioni, e ha messo a dura prova le nostre certezze.

Così, se all’interno del gruppo si è anche amici, allora è meglio, voglio dire: si vive meglio. Tuttavia, ben sappiamo che ciascuno deve far i conti col carattere, le esigenze di vita, le storie insomma di tutti gli altri, e dobbiamo essere soprattutto capaci di fare il nostro lavoro al meglio, in ogni momento, rispettando le regole e gli obiettivi che ci siamo dati.

E ora veniamo al “metodo” del nostro lavorare.

Per prima cosa, definiamo le idee-cardine attorno a cui costruire lo spettacolo. Lo facciamo a partire da un testo, o un film, o una discussione, o un’esperienza. Poco importa lo stimolo iniziale, è solo un pretesto. Quello che importa è che queste idee ci appaiano forti abbastanza per giustificare il nostro lavoro di mesi e l’appuntamento che diamo al pubblico.

Su questo io inizio per parte mia una raccolta di materiali testuali, mentre il regista e gli attori – in tempi anche successivi – cominciano una loro ricerca, così che comincia ad affiorare e a cercare terreno per poter maturare, il tema dello spettacolo (esempio di idee/temi che abbiamo utilizzato: il viaggio come iniziazione, la morte come fine ma anche possibile inizio, la violenza come necessità dei deboli).

Nello stesso tempo – e questa è probabilmente una prima differenza sostanziale tra chi scrive avendo in mente una storia da raccontare, magari a tavolino, e chi, come me, parte da un progetto, un’idea, senza avere assolutamente in testa un’architettura definita – è la definizione di alcuni dati che vengono dal gruppo, molto pratici. Uno dei più importanti è sapere quanti sono e quali sono gli attori che parteciperanno allo spettacolo. Quanti, per sapere verso che tipo di lavoro si andrà, e quali possibilità spettacolari potranno essere utilizzate. Quali, per sapere quale tipo di scrittura, e di parola, usare. Io so ad esempio che con Angela posso costruire dei testi anche complessi e difficili, come scelta dei suoni e dei termini, perché‚ so che lei non cade nella trappola della declamazione, e me li decontestualizza sempre, e gli dà nuovi significati, e li salva dalla retorica e dalla melensaggine.

Ma occorre sapere, o capire, fino a che punto ci si può spingere.

Inizia così il lavoro di sala sui testi o sui frammenti (materiale che può essere voluminoso o scarso, di recupero o originale), che va ad aggiungersi a quanto già trovato e elaborato dagli attori autonomamente. E tutto questo corpus viene poi sgrossato e organizzato in una prima stesura drammatica: l’inizio, lo svolgimento, gli episodi, il finale; vengono verificate le motivazioni dell’opera e di ciascun personaggio; e così via (accontentatevi di quanto detto, non si possono esplicitare tutti gli ingredienti: qualcuno deve restare segreto…)

In questa fase ci si concentra su alcuni aspetti per poter sviluppare il nostro lavoro tradizionale; per sviluppare le parti di maggiore significato (anche verbale-vocale); e senza porsi eccessivamente il problema di una agevole lettura complessiva del lavoro. Senza dimenticare che ogni metodo altro non offre che una griglia di riferimento, e che deve essere lasciato ampio spazio alle idee che nascono dal lavoro, agli stimoli e alle sollecitazioni che giungono dagli incontri quotidiani, da successive letture, senza limitazioni ferree. Quando un problema nasce deve aver tempo e modo per rivelarsi appieno, non va soffocato col rischio che rispunti più avanti, più forte…

Questo primo abbozzo viene poi sottoposto ad attenta analisi (o almeno mi pare di farlo). Sia per quello che riguarda la costruzione dello spettacolo (attenzione al significato e alla forma che sta prendendo) col regista, sia ogni sua parte con ciascun attore o collaboratore. Così vengono sottratte le parti che non vanno, o non si integrano col resto – anche se buone -, o che non paiono portare a nulla. E si correggono quelle “emendabili”.

Parti quindi anche amate, sudate, sofferte, partorite con difficoltà vengono sacrificate allo spettacolo.

Nello stesso tempo altre parti crescono, o vengono riscritte, o altre nuove appaiono. Regista e attori lavorano in grande libertà… anche sui testi, dove possono tagliare (e dove io non sono d’accordo scendo in campo a difesa) o suggerire nuove soluzioni.

Alla fine di questa fase c’è molto materiale pronto. Vanno riverificate la struttura, la dialettica interna, i nuovi equilibri (mentre del ritmo complessivo si deve occupare il regista), e poi la congruità, la presenza di parti non compiute. La chiarezza delle motivazioni, e poi, a seconda di quel che si vuole ottenere, l’impostazione dei testi, la loro collocazione, i richiami, le chiavi di lettura, e così via.

Ora si può approntare la stesura definitiva.

Questo copione, che una volta terminato diventa quello dello spettacolo, è pronto qualche tempo prima del debutto. Poi è destinato a cambiare ancora. E non solo perché si prosegue negli aggiustamenti, ma cambia perché‚ ad esempio, gli attori prima lo affrontano dialetticamente, ci litigano, e in seguito se ne impossessano, lo vestono, lo giocano e quando ne sono padroni esaltano certi passaggi, e altri attraversano con leggerezza. In genere è il regista che segue passo passo questa evoluzione. E a questo punto intervengo solo se me lo chiedono, oppure se, rivedendo una replica a distanza di tempo, mi pare opportuno dare qualche suggerimento.

Il mio è un lavoro di sostegno, finalizzato ad integrarsi col lavoro di altri. E penso che sia giusto così, ho sempre pensato che dovesse essere così. Col tempo ho solo imparato a farlo meglio (credo). A rinunciare a parti anche molto sentite. Ma io scrivo non per gli occhi di un lettore, ma per le orecchie – e se possibile per il cervello – di un ascoltatore. E il corpo dell’attore è lo strumento indispensabile perché mi si possa sentire. Allora io dovrò cercare di capire come utilizzare al meglio questo strumento straordinario.

Poi, se mi vien voglia di tentare un approccio diverso, allora vado in tipografia e stampo un libro. Lì, solo col lettore, la musica è diversa. Ma questa è un’altra storia.

Che magari raccontiamo un’altra volta. 

La qualità del lavoro è, molto semplicemente, una delle cose in cui crediamo. E ci crediamo talmente che è ormai diventata un valore. Questo valore abbiamo creduto di riconoscere nel lavoro dei nostri maestri, nelle testimonianza, e cercando di praticarla abbiamo capito che dà sostanza, spessore al nostro fare, lo giustifica, lo sostiene. E’ uno dei punti fermi a cui torniamo quando veniamo assaliti dal dubbio, dall’apatia, dallo scoraggiamento. E’ la condizione di partenza, l’essenziale e imprescindibile condizione di partenza. E’ quello che solo può giustificare le estenuanti e solitarie, apparentemente inutili, ore di lavoro in sala. Perché l’attore è il controllo del corpo, della voce, dello sguardo; è la straordinarietà dell’azione.

E scrivere ugualmente è controllo, scelta cosciente, ricerca di colore, ascolto, è confronto con la scrittura stessa…

Nessuno ci garantisce sull’esito, è ovvio. Tanta qualità nel lavoro non necessariamente produce uno spettacolo bellissimo, voglio dire: non è neanche questo sufficiente di per sé.

La qualità del lavoro si estende a diversi piani, e se quello di sala, o di lavoro sullo spettacolo è prevalentemente personale, quello di lavoro sul contesto è invece pubblico, e -vorrei dire-, si può tentare di definirlo in due principi: NON SI LAVORA SU PROGETTI NON NOSTRI; e NON SI INVITA CHI NON HA LA NOSTRA FIDUCIA.

Su questi due principi noi possiamo avere il massimo controllo, “questo dipende da noi”.

Io credo di leggere proprio nell’impossibilità di tener fede a questi principi, e di poterli governare compiutamente, la rinuncia nostra, lucida, ad occuparci di gestioni di strutture o progetti particolarmente impegnativi come può essere un Teatro Comunale, nella stagione del quale non possono non trovar posto spettacoli che rispondono a una legittima domanda del pubblico, ma che ci costringerebbero ad ospitare “artisti” che non hanno la nostra fiducia.

Quello che vogliamo poter creare per la nostra città è esattamente quello che abbiamo descritto nel progetto della Casa del Teatro (vd. TEATAR 1/94).

E per finire, qualità del lavoro, rispetto per il pubblico, è anche rispondere a quasi tutte le (peraltro insufficianti, come detto) chiamate che ci giungono. Ma con alcune eccezioni. Se tutto il pubblico ha diritto di incontrarci, se dovunque può nascondersi uno spettatore curioso, anche tra i tavoli di un festival dell’Amicizia, credo che non sia possibile rispondere alle chiamate di organizzatori che facciano manifestamente mostra di ispirare la loro attività a ideologie che noi dichiariamo di combattere. 

[appunti per un intervento a quattro mani]

Prima di iniziare queste note, credo che sia utile una premessa, per ricordare ciò che non dirò, ciò di cui non parlerò qui: la nostra “resistenza”, e la questione della qualità del lavoro. Sono temi questi che in sede di convegno potrà affrontare Alberto, e che avete trovato già sviluppate in altre parti di questo libretto.

E tuttavia non potevo tralasciare di richiamarli perché sono i due punti che sorreggono tutto il ragionamento che segue, condizioni senza le quali sarebbe incomprensibile, incoerente, sarebbe chiacchiera.

Detto questo, ecco di seguito alcuni spunti di riflessione indotti dal documento di convocazione del convegno.

1. I gruppi, aziende involontarie

Un gruppo di teatro è una azienda involontaria, e risponde come tale a uguali e ben precise logiche. Ad esempio, deve dimensionarsi sul suo giro d’affari ovvero, in altre parole, deve prevedere di poter fatturare diciamo circa 40 milioni per componente, poi coprire le spese di normale gestione di una sede di lavoro (sala magazzino telefono segreteria organizzativa), poi la produzione e le trasferte, poi – infine, nei nostri desideri – l’attività “parallela”. Oltre a queste, una sorta di spese fisse, molte altre si aggiungono nella normale attività quotidiana.

Se questo è vero, come credo, allora occorre riformare da subito, poiché non si può abolirli, i meccanismi relativi ai contributi e alle sovvenzioni: parlo dei contributi pagati per attori, tecnici; e delle sovvenzioni che un gruppo riceve, a qualsiasi livello. [Su perché sia giusto il finanziamento della ricerca rimando a quanto detto nel Capitolo Secondo, paragrafo Definizione di Ricerca]

2. Le sovvenzioni

Per quanto riguarda le sovvenzioni bisogna prima di tutto cercare di guarire da quella specie di malattia che ci fa essere prima contrari e ribelli verso il sistema, poi litigiosi e voraci quando nel sistema riusciamo a entrare. E bisogna risolvere quella schizofrenia che ci vede spesso seduti ad entrambi i lati di uno stesso tavolo, ora nella parte degli erogatori e ora in quella dei questuanti, parte che elargisce e parte che incassa.

Bisogna smetterla con le strategie per blandire i membri di commissione, per accattivarsene i favori; o con le guerre per inserire qualcuno – o trombare – per aumentare il proprio potere contrattuale, il proprio credito, per potersi garantire da un’esclusione, o per conquistare un paio di milioni in più, una fetta più grossa di torta.

Basta, non se ne può più, e per almeno due buone ragioni: intanto, perché non è sopportabile che siamo noi a creare strutture marce, incapaci di correttezza, neppure a Bologna si riesce ad evitarlo!

Poi, per una questione di qualità della nostra vita: noi vogliamo che i nostri amici possano sentirsi tali per affinità e non perché ci sono utili, per comunanza e non per convenienza. Badate: non siamo mica convinti di vivere in un mondo fatto esclusivamente da bastardi e ipocriti, sappiamo bene che molti agiscono in piena coscienza, in autonomia, in buona fede, convinti di lavorare per un giusto fine, non strumentalmente, cercando di adattarsi alla situazione, cercando “la riduzione del danno”. E proprio per questo vogliamo liberarli da questo peso, di doverci garantire qualche milione di sopravvivenza “due anni dopo” o “salvo buon fine”- come ci ricordano Taviani e Ruffini.

Allora, facciamo una proposta: (a) creiamo commissioni che lavorino su criteri chiari e a livello nazionale; (b) creiamo delle fasce di sovvenzione, e attribuiamo (includendo ed escludendo) ogni gruppo che faccia domanda a una di queste – tre quattro, quante volete – fasce; (c) con delle deliberazioni che valgano ben più d’un anno e con un iter di verifiche serie (una volta che il mio gruppo è riconosciuto “di ricerca”, non vedo perché – se lo è con merito – dovrebbe perdere l’anno dopo questo status. Lo perde se la compagnia non supera gli accertamenti seri, approfonditi, che occorre prevedere, o se muore, o se opta per il più ricco mercato commerciale, al quale lascio volentieri più denaro e insieme con questo anche tutto il piacere di sgozzarsi anno per anno, di costruire alleanze strategiche, di conquistare terreno a danno dei colleghi. Non è ammissibile invece che lo perda per far posto ad un gruppo solamente “più protetto”…)

3. Un coordinamento tra gli enti

I contributi sono statali, regionali, provinciali, comunali, privati, e oggettivamente costituiscono un sistema che va riordinato complessivamente, semplificato nei criteri e nella struttura (per questo abbiamo immaginato le fasce), e insieme visto nella complessità, tenendo conto del quadro generale.

Teniamo a mente che questi soldi sono molto, se non tutto, per un sistema che non può autofinanziarsi, che non ha mercato sufficiente. Ma dobbiamo riconoscere uguale valore – anche economico – al Progetto. E riconoscere, e far riconoscere, trovare i modi per rendere possibile la costruzione di un progetto di lavoro serio nel proprio territorio: perché per fare ospitalità, dimostrazioni di lavoro, incontri, dibattiti, e tutto quanto Taviani e Ruffini elencano nel documento di convocazione, non basta la buona volontà – come ci insegna la nostra esperienza: ci vogliono soldi, e soprattutto ci vuole un luogo fisico, con determinate caratteristiche, che non tutti hanno, che noi non abbiamo.

E poiché pensiamo davvero che queste due questioni debbano poter essere esaminate assieme, considerate assieme, siamo ben disponibili a comprendere il costo della realizzazione di un luogo di lavoro nel totale del contributo per fascia di appartenenza, al posto dei soldi, invece dei soldi.

Ecco abbozzato un sistema di base, che a partire dal progetto di lavoro (riconosciuto da un luogo teorico che è la commissione, quindi divenuto professione con l’inserimento in una fascia, quindi rispettoso di scadenze professionali che se non rispettate possono anche far perdere o diminuire i diritti) consente di arrivare in concreto a far affidamento su una cifra x costante nel tempo, erogata in tempi certi e rapidi perché prevedibile nel bilancio degli enti, articolata in interventi tra i vari livelli e sulle varie branche: necessità di sede, o rifacimento di sede, più contributo; ovvero solo contributo, e così via. Questo sistema di base – o, diciamo così, di unità di progetto – si correla poi con gli altri sistemi della disciplina: appunto festival, editoria, università…

In questo sistema, l’ente locale che si trova per sua ventura ad ospitare un gruppo come il nostro, non ha più la “facoltà” di decidere se e quando dargli una sede, non ha la possibilità di vantare un bravo assessore, capace di trovarla, o l’alibi del cattivo assessore incapace di trovarla, la discrezionalità di avere un progetto che preveda o non preveda; ma ha l’OBBLIGO di dare un luogo di lavoro e produzione.

Bello vero?

4. I contributi che paghiamo

Su un’economia di sopravvivenza qual è quella dei gruppi di teatro, è criminale applicare lo stesso regime contributivo valido anche per le economie opulente, per i professionisti, i commercianti, e simili.

Dobbiamo invece pensare alla possibilità che quelli che ottengono il riconoscimento di compagnia professionale – e quindi entrano nel giro delle compagnie finanziate – siano poi inseriti in un sistema contributivo protetto.

Questo vuol dire da un lato decuplicare il valore delle sovvenzioni a parità di somma erogata; dall’altro fare un passo verso il riconoscimento del valore collettivo della cultura, mettendo a carico di tutti il costo della pensione per gli artisti. Un costo ridicolo, se considerato in valore assoluto, se pensiamo al numero delle persone che ragionevolmente potrebbero averne diritto.

5. Sgravi fiscali 

Qualcuno suggerisce la possibilità di premiare i privati o le aziende che decidano di sovvenzionare le compagnie con uno sgravio fiscale, sul modello – credo – di quanto succede nell’America del Nord o in Italia per le grandi mostre, i grandi restauri.

Non sono contrario in linea di principio, potrebbe valer la pena di tentare se davvero potessero arrivare benefici ad un settore in grave difficoltà. Ma credo che questo sistema premierebbe certo teatro, ma sarebbe comunque di modesta entità per il teatro parallelo.

E se si pensa che possa allettare le aziende il solo tornaconto fiscale, vorrei mettere in guardia dal facile ottimismo. Nello sport qualche anno fa è nato un giro curioso: molte aziende sponsorizzavano squadre grandi e piccole, e così scaricavano costi. Ma poiché il soggetto “società sportiva” più è piccola e più è, per la sua stessa natura, oggetto di scarse attenzioni da parte dell’accertatore fiscale, le ditte davano 1 ma chedevano fatture a 5, che poi le società dovevano a loro volta in qualche modo scaricare nei loro bilanci: rimborsi spese fasulli a atleti e allenatori, ecc. Insomma, da un’intuizione interessante è nato un altro, piccolo, scandaletto italiano. Non è di questo che abbiamo bisogno.

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