venerdì, Ottobre 11, 2024
Faenza nella storia - I capitoli

Faenza nella Storia _ Cap. 1.1. Dalle origini alla caduta dell’Impero d’Occidente (476 d.C.)

1.1. Leggende sull’origine della città. – Faenza sotto il dominio degli Etruschi, dei Galli, dei Romani, fino alla caduta dell’Impero d’Occidente (476 d. C.).

Intorno all’origine di Faenza varie sono le opinioni e molta l’oscurità. Il Tolosano, che morì nel 1226, e che è il più antico ed autorevole cronista faentino, dice che la città fu fondata circa il 20 a. C., al tempo d’Augusto, da un tal Flavio romano, il quale le inpose il nome di Flavia; e che di poi, per essere stata sempre favorevole a’ Romani, fu detta Faventia.Se non che Faenza e i Faentini trovansi ricordati con questi loro nomi presso scrittori che furono prima e dopo Augusto, quali Varrone, Tito Livio, Strabone, Tacito, Tolomeo, Pinio, Silio Italico ed altri, dé quali nessuno ne memora la fondazione: che dimostra essere Faenza d’origine antichissima.

1199 a. C (?)

Secondo lo Zuccoli, cronista del sec. XVII, Tessali ed Attici, usciti di Grecia alcune centinaia d’anni dopo il diluvio (del quale la tradizione poetica vuole si salvassero soltanto Dencalione e Pirra, rinnovatori del genere umano), e capitati per mare sulla spiaggia adriatica che poi fu romagnola, vi fondarono Navenna (poi Ravenna), sì come in luogo paludoso e appropiato alle navigazioni (e ciò sarebbe avvenuto, al dire del Valgimigli, I, p. 3, verso l’anno del mondo 2805, avanti l’era volgare 1199, avanti la fondazione di Roma 446); ma non bastando tale luogo acquoso a tanta moltitudine, gli Attici si spinsero verso terra, risalendo il fiume che poi fu detto Lamone od Amone, e fondarono Phaentia (dal greco ), o città splendente, per attirarvi con tale nome di civiltà i popoli delle campagne vicine. Gli Etruschi, poi, superato l’Appennino, obbligavano Attrici e Tessali ad abbandonare Faenza e Ravenna; e il nome Phaentia o per opera loro (ma la voce Phaentia è Etrusca ?), o per opera dé Romani, che subentrarono nel dominio della città ai Galli succeduti agli Etruschi, o per natural corruzione del vocabolo.

1856 a. C. (?)

A detta del Tonduzzi, invece, le cose andarono un po’ diversamente. Fetone (niente di meno!), nipote di Noè, dopo aver popolato l’Egitto insieme con Cam suo padre, sarebbe passato in Tessaglia e nell’Epiro, donde a capo di molte genti (Tessali e Pelasgi, che nella lor prima origine Strabone, lib. 7°, dice Egizi) sarebbe giunto, per l’Adriatico, allo sbocco del Po; e penetrato in terra ferma, e visto il terreno asciutto e coltivabile, avrebbe incominciato a fondarvi una città, detta in linguaggio greco Faoentia (splendido fra gli Dei), vocabolario poi accomodato dai Latini in Faventia: e ciò [1856 a. C. (?)] verso il 1103 av. Roma (1856 a. C.). Sopravvennero più tardi gli Etruschi, i quali ebbero contro i Tessali aiuto dagli Umbri: onde nella regione del Po, dall’Appennino al mare, s’ebbero molte colonie, parte d’Etruschi (e Faenza fu Etrusca), e parte di Umbri. Poi fra i due popoli naturalmente nacquero dissensioni e guerre, e gli Etruschi conquistarono agli Umbri, al dir di Plinio, trecenta oppida. I Tessali, già padroni di Faenza, si restrinsero al mare, e fondarono allora Navenna (Ravenna); indi, neppur ivi potendo sopportare le continue molestie degli Etruschi, consegnarono la città agli Umbri e tornarono in Grecia. Così rimasero Faenza degli Etruschi, Rimini e Ravenna degli Umbri. In tutto questo il Tonduzzi vede la spiegazione il senso riposto della favola di Fetonte che, arrogandosi di guidare il carro del sole, e perciò suscitando un terribile incendio, ne fu fulminato e precipitò nell’Eridano (Po); la qual favola sarebbe la forma poetica e mitologica di un’altra storia: che, ciò è, affidatosi all’arte del navigare (la nave di Noè fu detta carro del Sole da’ posteri, che adorarono Noè come il sole) ed alla astrologia, Fetonte promise a sé ed a’ suoi seguaci nuovi paesi e fortune, ed invece cadde nelle sventure descritte, morendo tra le paludi del Po.
Altri, come Giovanni Zaratino Castellini (nella Iconologia del Ripa) e il cronista ser Bernardino Azzurrini (1542-1620), che ne segue le norme, relegando tutto ciò, e con molta ragione, fra le leggende, e attribuiscon l’origine di Faenza agli Etruschi più antichi.

395 a. C.

Comunque siasi, per certo che Faenza sia stata dagli Etruschi dominata a lungo. Poi nelle terre cisalpine s’eppero le incursioni dei Galli, dal 595 a. C. al 395: prima degli Anani, poi dé Boi, degli Egoni, dei Senoni; onde Faenza cadde dalla signoria etrusca in quella, probabilmente, de’ Galli Boi. Se non che, debellati questi ultimi nel 225 da L. Emilio a Tamolone, i [225 a. C.] Romani, si reser padroni di tutta la Galia Boica, e Faenza divenne (come ricavasi da Varrone, De lingua latina, lib. I) loro municipio: onde sembra si reggesse con leggi e statuti suoi propri.
Le antiche vicende della città, dal dominio romano al tempo del primo e più antico testimone de’ fatti da lui narrati (il Tolosano), sono oscure, incerte, commiste di favole, di tradizioni popolari, di congetture erronee od ardite: e noi ne faremo un rapido sommario, non senza avvertire fin d’ora che, anche là dove esplicitamente non neghiamo la nostra fede alle narrazioni degli storici, siamo non di rado ben lungi dal ritenerle per certe e sicure.

89 a. C.

Ebbe, adunque, Faenza l’onore d’essere ricordata da Silio Italico (Punica, lib. VIII) per la sua fedeltà a Roma durante le guerre contro Annibale; e vuolsi fosse anche malmenata da Astrubale, insieme con le altre città amiche al nome romano, quando costui mosse in aiuto del fratel suo. Poi il silenzio e l’oscurità la sommergono di nuovo fino alla guerra sociale o marsica; fino a quando, ciò è, anche la galia cispadana e transpadana potè conseguire l’onore della romana cittadinanza, e Faenza dovette perciò essa pure, nell’89 a. C., essere ascritta ad una tribù; che fu la Polia, come ricaverebbesi da due iscrizioni, riferite dal Valgimigli, delle quali la prima era sotto l’arco dell’antico ponte sul Lamone, ora demolito e di cui diremo in seguito.

82 a. C.

Scoppiarono indi subito le guerre civili: in quella tra Mario e Silla sembra che i Faentini seguissero le parti di Mario, e nel territorio di Faenza, anzi, presso le vigne (le quali è avviso esistessero allora tra Faenza ed Imola) avvenne nell’82 una sanguinosa sconfitta de’ Mariani; in quella tra Cesare e Pompeo, i Faentini la tennero per quest’ultimo, così che, non fidandosene Cesare nel condursi a Rimini, deviando passò per Ravenna, indi al Rubicone. E di famiglia romana e faentina sarebbe uno de’ più fidi capitani di Pompeo, un cotal L. Staberio (come da un’inscrizione riferita dal Tonduzzi); e vogliono perfino alcuni esser costui quel sudicio e ridicolissimo avaro Staberio, di cui fa menzione Orazio nella satira terza del lib. II. Parimente romana e faentina considerato gli zelanti cronisti la famiglia Terenzia, donde discese quel Marco Terenzio Varrone che, nato a Rieti nel 116 a. C., fu l’uomo più erudito de’ suoi tempi, e scrittore di antichità romane fecondissimo; il che vorrebbero dedurre da un passo del. I, De re rustica, dello stesso Varrone (da cui appare una relazione di patria tra l’autore e un Lucio Marcio) posto a confronto con la seguente iscrizione sepolcrale che già era su la fronte della soppressa chiesa di s. Abramo, ed oggi di nel civico museo.
Nella quale inscrizione si ricordano, adunque, un Q. Marcio ed un P. Varrone discendente dalla famiglia Terenzia,che, per aver usato spesso il cognome Varrone, diè quindi origine ad altra famiglia distinta, la Varronia; e poiché – concludono il Tonduzzi e il Valgimigli – la famiglia Marcia, dall’avere suoi beni e suo sepolcro in Faenza, è riputata faentina, così la Terenzia ancora e la Varronia, attesa la comunanza della tomba con quella, sono a giudicarsi concittadine di essa.

42 a. C.

Vorrebbero inoltre gli scrittori di cose faentine, forse troppo solleciti nel congetturare quanto pur lontanamente possa dar lustro alla città, che a Faenza o nelle sue vicinanze avesse luogo, morto Cesare da’ congiurati, uno di quei convegni tra Marc’ Antonio, Lepido ed Ottavio, de’ quali fu effetto il secondo Triumvirato dell’anno 42 a. C.: e ciò argomentano dall’epigrafe che anche oggidì leggesi scolpita in un pilastro che sorreggeva una crocetta di marmo presso la soppressa chiesa di s. Severo, in contrada detta volgarmente la Fiera:

JACOBUS ET RAPHAEL FI
LII IOANNIS BAP. PICTO
RIS RESTAURAY.
M.D.XLI NONIS SEPT.
HIC. Q. TRIUMVIRATUS
STATUTUS FUIT.

Giacomo e Raffaele qui ricordati sono figli, a punto, del celebre pittore faentino Giovanni Battista Bertucci -seniore, del quale a suo tempo diremo; ed appariscono adunque restauratori d’un’altra lapide precedente; il che concorderebbe con quanto asserisce il cronista Fagnoli (a detta del Valgimigli, p. 27) nelle sue Memorie storiche manoscritte di Faenza: che, ciò è, la crocetta e la lapide fossero sostituite ad altro antico sasso, ivi eretto a perenne monumento del fato, e forse ivi trasportato dal luogo ove l’abboccamento fra i tre capitani seguì ; sul qual sasso adunque leggevasi: “ Hic triumviratus reip. Constituendae fuit locus “. Se non che, la crocetta di marmo su l’antico sasso non altro era sicuramente, in origine, se non una delle vecchie croci, erette sopra una colonna, e situate presso le quattro porte della cinta romana, e chiuse entro piccole cappelle: croci e colonne rispettate poi dai Manfredi quando nel sec. XV allargarono le mura. Quando a Faenza come in altri luoghi, si perdè la memoria dell’età e delle ragioni per cui questi piccoli monumenti erano stati eretti, ne’ primi secoli cristiani, alle porte delle città, a’ trivii, presso i templi pagani, la fantasia popolare creò sul conto loro delle strane leggende: e così potrebbe essere nata quella del convegno fra i triumviri, consacrata poi nell’inscrizione ricordata dal Fagnoli, e riconfermata in quella fatta scolpire nel 1541 dai fratelli Bertucci.
Quando Ottavio entrò solo nell’impero romano, e s’appellò Augusto, instituì due stazioni marittime, l’una a Miseno nella Campania, a presidio del mar Tirreno, l’altra a Ravenna (in luogo detto Candiano e poi Classe, da classis, flotta) a presidio dell’Adriatico: ma a quel tempo il territorio faentino si estendeva fino al mare; onde i pini che ivi furono introdotti e propagati per uso di costruir navi, erano considerati di Faenza, come si ha dal ricordo fattone da Silio Italico, nel lib. III :

undique sollers
arva coronautem Faventia pinum “.

Da quell’imperatore furono, inoltre, inviate nella Spagna numerose colonie di popoli italici, come si argomenta da Plinio (lib. III, cap. 1°); e poiché Barcellona acquistò allora i cognomi Iulia Augusta Faventia, vuolsi che Iulia ed Augusta le derivassero dal monarca, e Faventia dal fatto di aver ricettato una colonia di Faentini: donde spiegarsi il perché del cognome Faventinus da qualcuno degli abitanti di tale città spagnola procacciatosi. E difatti alcuno si disse Faventinus perché discendente di famiglia che, sebbene ormai barcellonese era faentina d’origine e trapiantata in Barcellona; ed altri conservò quel cognome per essere direttamente egli stesso ivi venuto da Faenza, insieme con altri coloni di questa città.

14 d. C.

Ad Augusto successe, com’è risaputo, Tiberio Claudio Nerone (a. 14 d. C.), del quale argomentano gli scrittori nostri appartenesse a famiglia romana e faentina. Difatti – essi dicono – la gente Claudia si divise in parecchie famiglie, la Marcella, la Nerona assunse il prenome Tiberio; e perché a cagione dell’identità di prenomi e cognomi agl’individui di una sola famiglia, essi non valevano a discernersi più chiaramente l’uno dall’altro, così taluni solevano adottare un nuovo cognome, omettendo quello della famiglia: il che vedesi praticato nell’inscrizione seguente (che conservarsi nel civico museo) da due fratelli della famiglia Nerona, che al cognome Nerone sostituiscono l’uno quello di Saturnino, l’altro quello di Flaveno, sebbene quest’ultimo avesse cambiato il prenome Tiberio in Caio, forse per causa d’adozione.
E parrebbe che la famiglia Nerona fosse ricca di poderi nel territorio faentino, se fosse da ritener probabile la ipotesi del Tonduzzi, secondo la quale dal prenome d’essa famiglia tolse l’appellativo di Tiberiacum la più vasta di tali possessioni, che dipoi, a cagion d’un bagno medicinale a’ cavalli, che ivi si scoperse, fu detta Bagnacavallo, a circa dieci miglia da Faenza; mentre, sempre secondo il Tonduzzi, altra minore tenuta, a tre miglia circa, fu detta Tiberiolum; da cui diramandosi tre strade, si appella anche al presente il trivio dell’imperatore.

69 d. C.

Successi, poi, a Tiberio gl’imperatori Caligola, Claudio I, Nerone propriamente detto, e Galba, un cotal Claudio faentino, che col grado di centurione militava sotto le insegne di Galba, deposto per onta da tal carica, in essa fu richiamato dal novello monarca Ottone; al quale essendo stato sostituito Aulo Vitellio per acclamazione delle legioni germaniche, ma indi pe’ suoi vizi e crudeltà avendosi costui procacciato l’odio comune, le legioni orientali gridarono imperatore Flavio Vespignano, in favor del quale s’ammutinò, come già l’armata navale ravennate, così quella di Miseno, nel 69 d. C. a ciò precipuamente indotta dal predetto faentino centurione Claudio, come si ha dal cap. 57 del lib. III delle Istorie di Tacito.
A questo tempo, ossia alla metà in circa del primo secolo d. C., apparterrebbe, secondo gli storici faentini vissuti dal sec. XVII al XIX, il passaggio della città dal culto pagano al cristiano, ed il principio della chiesa episcopale faentina, per opera di s. Apollinare, protovescovo di Ravenna: il quale, cacciato da’ sacerdoti idolatri, avrebbe recato a Faenza, nel 58 d. C., secondo il Valgimigli, nel 51 o nel 60 secondo altri, il primo seme evangelico, organizzandovi, co ‘l provvederla di un vescovo, la prima comunità cristiana. I recentissimi studi del dott. Francesco Lanzoni dimostrano, invece, che il protovescovo di Ravenna, s. Apollinare, è da protrarsi al III secolo o, al più, alla seconda metà del ii secolo d. C., e che perciò, se mai, soltanto allora avrebbe egli potuto predicare il Cristianesimo a Faenza. Ma che s. Apollinare sia stato il primo annunziatore del vangelo nella città, non è certo; nè può affermarsi ch’egli abbia fondato l’episcopato faentino, del quale le prime notizie storiche risalgono al principio del secolo quarto, come vedremo.

110-130 d. C.

Parimente errano gli storici affermando che nel 110 circa d. C. nacque a Faenza, o almeno da famiglia faentina, Domizia Lucilla, sposa di L. Elio Vero e madre dell’imperatore Lucio Vero; la quale, mortole il marito nel 138, avrebbe ricevuto il battesimo da papa Pio col nome di Emiliana, e dopo eretta in Roma la chiesa detta titulus Aemilianae, sarebbe stata decollata da Marco Aurelio “ secretamente, in casa propria, come di sangue imperiale, senza saputa del popolo “. L’esistenza di questa s. Emiliana, imperatrice e martire faentina, a da riporsi, dice bene il Lanzoni, nel mondo delle favole: chè Domizia Lucilla non fu sposa di L. Elio Vero, si bene (come da prove inconcusse) di Anni Vero; né fu la madre di Lucio Vero, si Marco Aurelio; e morì prima del 161, e fu pagana fino alla fine. Nè i documenti antichi, né le inscrizioni fin’ora scoperte, ci hanno palesasato il nome della madre di Lucio Vero: sappiamo solo ch’essa appartiene alla famiglia Avidia, faentina; che il padre di lei era un Caius Avidius Nigrinus; che ebbe due sorelle, Avidia Plautia e Ceionia Platuia ; che sposò Lucio Ceionio Commodo, il quale divenne Lucio Elio, cesare, e partorì in Roma, il 15 dec. 130 d. C., Lucio Ceionio Commodo, che divenne Lucio Vero, imperatore. Pare ch’ella morisse prima del marito, ossia prima del 138.

217-260 d. C. 

Nè a questo punto si fermano le infelici congetture degli storici. Il Tonduzzi, ad esempio, per aver letto nel Liber Pontificalis (il quale non merita fiducia quanto alle patrie, famiglie, leggi de’ primi pontefici) che Callisto papa (217-222 d. C.) fu romano di nascita, ma figlio d’un Domizio, lo disse senz’altro di famiglia faentina, perché falsamente credeva che la madre di Lucio Vero fosse Domizia Lucilla, e appartenesse alla famiglia Domizia, la quale fu, del resto, di tutt’altro luogo che di Faenza. Neppure può ammettersi, ormai, quel che concordemente gli scrittori, dal Tonduzzi al Magnani, allo Strocchi, al Valgimigli; al Montanari, affermarono intorno ai primi albori del vescovado: che, ciò è, verso il 260 d. C. venisse nel territorio di Faenza s. Savino, nato a Sulmona; e Selva Libba, fosse nel 280 circa eletto vescovo di Faenza, donde, dopo un dieci anni, si sarebbe recato ad amministrare la diocesi di Assisi, subendo ivi il martirio durante la persecuzione di Massimiliano. Nessun documento né alcuno storico antico, infatti, alludono menomamente a ciò, e nemmeno la leggenda di Fusignano, che è forse del sec. XIV-XV, secondo cui s. Savino avrebbe condotto, prima d’essere vescovo d’Assisi, vita eremitica nella Selva Libba (diocesi di Faenza). Il primo a parlare di Savino qual vescovo di Faenza fu l’ Unghelli (Italia Sacra, 2.° edizione, I, 1254), Trasformando in tradizione antichissima una semplice ipotesi; e il Magnani, sempre intento a cercare col lumicino tutto che potesse aggiunger gloria alla chiesa di Faenza, né accettò subito le conclusioni, traendosi dietro Andrea Strocchi, e il Valgimigli, ed altri.

290-312 d. C.

Ugualmente cadono e il martirio di molti cristiani a Faenza nel 290, e la erezione da parte de Faentini, nel 312, d’una colonna di marmo co’l monogramma di Cristo, avanti la porta romana, a celebrare la vittoria di Costantino su Massenzio; su la qual colonna erano scolpite le parole della celebre visione EN TOYTO NIKA, e più sotto: Imp. Caesari Flavio Valerio Costantino maximo in crucix signo victori. E per vero nel 290 i cristiani, come narra Eusebio, erano ancor tollerati, e la persecuzione Dioclezianea cominciò in Italia solo nel 303; e quanto alla colonna ed alla inscrizione (di cui le parole ci furono conservate dal Tonduzzi, essendo essa andata in frantumi nel 1613), esse son giudicate dai critici moderni una vera e propria falsificazione, sia per le condizioni dell’ “ ambiente “ storico emiliano nel 312, sia per lo stile dell’epigrafe, assolutamente alieno da quello del sec. IV.

313 d. C.

Il primo vescovo di Faenza del quale si abbia sicura notizia 313 è un Costanzo, intervenuto nel 313 ad un concilio vescovile in Roma, sotto papa Melchiade, adunatosi contro gli scismatici d’ Africa detti Donatisti, da Donato lor capo. La giurisdizione di Costanzo s’estendeva, forse, quanto il territorio della città, e dipendeva direttamente da Roma, non avendo avuto l’Italia fin verso la metà del sec. IV circoscrizioni ecclesiastiche. Dove, poi, fosse nel 313 la sede vescovile non si sa; forse era fuori dalle mura romane, presso la chiesa di s. Maria foris portam (detta oggidì s. Maria vecchia),dove il Tolosano afferma essere stata essa sede verso la metà del sec. VIII. Prima del 313 non esistono traccie, dice il Lanzoni, né documentarie né monumentali, di cristianesimo a Faenza; ma l’ evangelio vi è senza dubbio anteriore; difatti, se la comunità cristiana faentina era gerarchicamente costituita nel 313, doveva essere numerosa, né è possibile che essa si sia formata rapidamente ne’ primi anni del IV secolo.

379-465 d. C.

Al vescovo Costanzo successero un Costanzo II (ricordato nel 379, e la cui antenticità sostiene con non disprezzabili ragioni lo Strocchi, contro coloro che lo vorrebbero vescovo, invece, di Voghenza), un Egidio (di cui si ha menzione nel 454, e che perciò non appartenne alla compagnia di s. Orsola e delle vergini che subiron con essa il martirio a Colonia, come vorrebbe il buon Magnani, perché esso martirio seguì nel 383), e un Giusto, che fiorì nel 465. Poi fino al 649 non si ha più traccia alcuna di vescovi faentini; il che è da attribuire all’oscurità di quel periodo di invasioni barbariche e di guerre. A proposito delle quali, vogliono alcuni che Faenza sia stata distrutta da Attila nel 452 quando costui, sceso dalla Pannonia, rovinate e saccheggiate Aquileia, Concordia, Este, Padova, Vicenza, Verona, Bergamo, Pavia, Milano, prese la via di Ravenna, ove sarebbe entrato per la breccia apertagli da’ cittadini in segno di sommissione; altri, invece, credono non mettesse punto Attila il piede si oltre, da che, giunto alla confluenza del Mincio co ‘l Po, quivi e non altrove fu incontrato da papa Leone, e da lui indotto a ritirarsi.

476 d. C.

Non è punto provato, poi, quel che la tradizione narrò: che, ciò è, il vescovo Giusto cadesse vittima [476] del furore barbarico quando Odoacre, fattosi nel 476 signore d’ Italia, mosse dalla vinta Pavia a Reggio, a Modena, alle altre città della Flaminia, tra cui Faenza; e tanto meno è provato quello che, per cervellotica congettura, pensò il Magnani, il quale suppose Faenza distrutta novellamente dai barbari di Odoacre, ed annoverò senz’altro Giusto tra i martiri faentini!

 

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