venerdì, Aprile 19, 2024
Faenza nella storia - I capitoli

Faenza nella Storia _ Cap. 4.1 Faenza durante la rivoluzione francese e la monarchia napoleonica (1796-1815)

Cap. 4.1 Faenza durante la rivoluzione francese e la monarchia napoleonica (1796-1815)

Come la nuova filosofia enciclopedica, e la proclamazione de’ diritti dell’uomo e del cittadino, e l’inneggiata onnipotenza della ragione contro il dogma e contro l’assolutismo fossero accolte nella mente e nello spirito dei Faentini più colti, stretti in una vita dominata dal gesuitismo, e pur talvolta insofferenti del gioioso morale e ribelli in cuore, Traspare da alcune dell’illustre letterato Dionigi Strocchi, nelle quali è aperto alcuno spiraglio alla luce ultramondana. Ma la grande maggioranza del popolo, mantenuta in salutare timore dai sacerdoti con tridui e preghiere, chiusa nell’ignoranza e nella superstizione, al giungere delle strepitose notizie di Francia nulla intendeva delle nuove idee, che erano invece accolte da alcuni de’ nobili e dei professionisti, quali il conte Achille Laderchi, il conte Francesco Zauli, il conte Francesco Conti, Vincenzo Bertoni, Giovanni Giangrandi, l’architetto Pistocchi, l conte Filippo Severoli (poi generale napoleonico), il notaio Antonio Placci, cancelliere del Comune, il segretario Bonazzoli, il sai. Domenico Brunetti, maestro di calligrafia. Alle cerimonie religiose aggiungeva il governo pontificio un’azione anche più viva e diretta contro il moto novatore, con opuscoli proclamanti le virtù della gerarchia e della disciplina ecclesiastica, mentre sotto sotto si sorvegliavano emigrati francesi, e pretti, e nobili sospetti di liberalismo, ed a Bologna era spenta ne’ supplizi la congiura dello Zamboni e del De Rolandis, ed in Roma la plebe sanfedista compieva la strage di Ugo Basville, il 13 gennaio del ’93.

1796

Ma ecco, nella primavera del 1796, la notizia della splendida corona di vittorie ottenute dal Bonaparte nel Piemonte e nella Lombardia, a spaventare la Curia romana. La sera del 18 giugno le milizie francesi entravano vittoriose in Bologna, cacciandone il cardinal legato ed instaurandovi un governo repubblicano; ed il 23 giugno Napoleone conchiudeva quivi con Antonio Gnudi, rappresentante del governo papale, un armistizio. Nel giorno stesso le poche milizie pontificie, agli ordini del colonnello Palotta, si ritiravano da Imola, e dopo un breve consiglio su la piazza maggiore di Faenza, sgombravano anche la nostra città. Il consiglio generale, in preda a grandi paura, invio a Bologna i liberali conte Francesco Zauli, conte Achille Laderchi, Giovanni Giaugrandi e Vincenzo Caldesi ad ossequiare il Bonaparte; ed essi imvoccarono da lui la liberazione dal dominio teocratico. Ma già Napoleone aveva inviato il generale Augerau ad impadronirsi d’ Imola e di Faenza; ed il 24 giugno, circa 900 Francesi si accamparono fuor della porta Imolese, a mezzo miglio dalla città; poi entrarono in Faenza e, lasciatevi poche milizie, di nuovo si ritrassero fino alla Cerchia (cfr. P. 60), e quivi presero stanza. Frattanto i consiglieri del Comune firmavano un solenne giuramento di fedeltà al generale Augereau, e tutti cittadini consegnavano le armi, mentre i liberali, detti comunemente giacobini, s’ abbandonavano alla gioia, rappresentandosi perfino la sera stessa al teatro l’ opera in musica del maestro Zingarelli “ Pirro re dell’ Epiro “.
Ma la gioia sfumò, quando i commissari francesi s’impadronirono dei denari della cassa del Comune, e spogliarono il Monte di Pietà the 31896 scudi (lire 170862,56), e imposero una contribuzione di 45740 scudi romani, pari a lire 244166,40: onde Anziani e consiglieri dovettero contrarre con Genova un prestito di scudi 50000. Inoltre di Francesi obbligarono i cittadini, co ‘l pretesto di scemare il peso alle classi povere, a consegnare ori ed argenti; e raccolsero per tal modo, con cortese violenza, 64699 scudi, 4000 scudi in danaro, 36800 scudi in verghe d’argento, sei candelabri argentei della cattedrale, scarpe, camice, tela, etc. etc. Compiuto il bottino, la più parte delle milizie si ritirò a Imola, e poi passo a Forlì, rimanendone poche in città alle prese co ‘l popolo sdegnato, che si diè anche ad inseguire alcuni nobili giacobini, i quali a stento poterono salvarsi nelle loro case. Più gravi tumulti riuscì ad impedire co ‘l suo intervento il vescovo Mancinforte; e intanto, ripassando da Faenza per andare a reprimere una sollevazione in Lungo, i Francesi ritennero come ostaggi, il 5 luglio, i canonici Pietro Severoli e Pietro Pasi, i parroci Bernardo Montanari e Luigi Conti, il dott. Andrea Rondinini (uno degli Anziani) e i consiglieri cav. Annibale Milzzetti, conte Battista Cantoni e Giovanni Giangrandi. Costoro furono restituiti di lì a tre giorni, dopo la presa di Lugo; indi, dato il sacco a Cotignola, i Francesi si ritirarono dalla Romagna, ritenendo soltanto Castelbolognese, come appartenente al territorio di Bologna, In attesa che l’armistizio si convertisse in pace. Ma da questa prima invasione, nonostante i suoi mali, derivò negli spiriti un senso più nuovo di vita e di leggi; si cominciò a combattere le prepotente intromissione de’ nobili e del clero nel governo, la ingiusta esclusione della borghesia dalle cariche e dalle pubbliche amministrazioni; e con insolita temerità si fecero raffronti tra i primi tempi del Cristianesimo e le condizioni presenti della Chiesa, cupida di ricchezze ed ambiziosa di onori. Insomma, dopo il giugno del ‘96, Faenza si trovò nettamente divisa in due partiti: quello de’ giacobini o patriotti (messi in mala vista, con evidente animosità partigiana, dai cronisti don Morini e Querzola), e quello de’ clericali, detti anche papaloni. Non è da escludere che tra i giacobini si fossero infiltrati alcuni di coloro, i quali in tutti i rivolgimenti politici cercarono di pescar nel torbido; ma certo si è che la gran maggioranza di essi era composta di nobili, di professionisti, di commercianti, perfino di qualche sacerdote: tutta brava ed onesta gente, che avea soltanto la gravissima colpa di aspirare a libertà.
Già avevano costoro ottenuta dall’Augereau la lieta speranza dell’annessione di Faenza a quella repubblica cispadana che Napoleone aveva formata, unendo Ferrara, Bologna, Modena e Reggio; ed ora nove pratiche e trattative cercavano essi di fare con i commissari francesi e con Bologna, siccome vedesi da una lettera, scritta da Roma da Dionigi Strocchi (vol. I, 52) all’amico Francesco Conti, nella quale l’illustre letterato, già in sospetto di giacobinismo, dimostrava ora pochissima fiducia ne’ Francesi. Onde più accurata si fece la vigilanza del rinovellato governo pontificio su i liberali; e circolarono manifesti eccitanti i cittadini alla difesa della religione; e il papa, rifiutando di sottomettersi (mediante un accordo che trasformasse l’armistizio di Bologna in pace) alle condizioni imposte da Napoleone, preparava la guerra santa e perseguitata i giacobini. Nei giorni 16-17 ottobre furono arrestati l’architetto Pistocchi, Vincenzo Bertoni, il conte Achille Lderchi, il notaio Antonio Placci, il segretario Bonazzoli, il cappellaio Ercole Mamini, tra gl’ insulti della plebe; ed il 19, sparsasi la voce dell’arrivo de’ Francesi a Castelbolognese, giunsero da Forlì 200 soldati di rinforzo, e il conte Ludovico Severoli ordinò a’ cittadini, racconti su la piazzetta della Molinella, di caricare le loro vecchie spingarde, una delle quali esplose, uccidendo uno di essi e ferendone altri dodici, tra cui il Severoli stesso.

1797

L’ 11 gennaio del ‘97, poi, giunse notizia che 16000 Francesi co ‘l Bonaparte da Bologna si preparavano ad invadere nuovamente le Romagne; il 14 arrivò a Faenza il general Colli, e promettendo l’aiuto austriaco, esortò il popolo alla fedeltà. Ottenuta dal papa la facoltà di rafforzare e riorganizzare le milizie pontificie, egli ne fu nominato capo supremo; quand’ecco il primo febbraio un proclama minaccioso del Bonaparte annunziava, dal suo quartier generale di Bologna, la sua novella entrata negli stati pontifici. Venne allora dal Colli al comandante delle milizie pontificie in Faenza, barone Carlo Ancaiani da Spoleto, l’ordine di resistere; e quando un messo recò la notizia che i Francesi erano ormai in Imola, il piccolo esercito dell’Ancaiani si mosse. Constava esso di 3000 fanti, 150 cavalli, 10 cannoni, e gli si unirono contadini e faentini armati di lance e di vecchi archibugi, ed un piccolo corpo forlivese condotto dal conte Biancoli di Bagnacavallo. Vestiti in modo elegantemente ridicolo, e male in arnese di guerra, avevano tutti una grande paura, pur sotto l’apparenza dell’entusiasmo accresciuta dalla notizia che i Francesi erano molto superiore di numero e di forze; nè bastavano a francarli le parole animatrici di preti e frati che, con crocifissi in mano, promettevano loro l’aiuto divino. Nessun nobile vien ricordato dai cronisti tra gli ufficiali di così fatte milizie, da che tutti i nobili erano ormai fuggiti, eccetto pochi giacobini, all’prestarsi del nemico. Il piccolo esercito marciò, adunque, la sera del primo febbraio per la via che conduce a Bologna, e si fermò nel campo trincerato sulla destra del Senio, presso il ponte, disponendosi in linea di battaglia. All’alba del 2 febbraio si seppe che i Francesi, arrivati a Castelbolognese, proseguivano baldanzosi contro Faenza, sotto il comando supremo del generale Victor e divisi in tre colonne, quella d’avanguardia comandata dal generale Lannes, la seconda agli ordini del generale La Salcette, e la terza sotto il generale Fiorella, senza contare le legioni de’ Cisalpini e Cispadani, comandante dal generale Lahoz. Intimato al colonnello pontificio inutilmente lo sgombro della via dinnanzi ai soldati della repubblica francese, il Victor ordinò l’attacco, ed avvenne così il combattimento del Senio, detto anche battaglia di Faenza, n cui i pontifici, stretti in breve da un movimento accerchiante, furono sconfitti, e si dettero a fuga disperata, lasciando nelle mani del nemico munizioni, bagagli e cannoni. Da 400 a 500 di loro furono morti e feriti, e ventisei ufficiali di fanteria e d’artiglieria rimasero prigionieri, mentre il col. Ancaiani, col suo stato maggiore, e la cavalleria, comandata dal cap. Galassi, entravano in Faenza e facevano ben chiudere la porta Imolese per ritardare l’ingresso agl’inseguitori, continuando senz’altro la loro precipitosa ritirata verso Forli. All’arrivo de’ Francesi le campane suonavano a stormo; ma la porta Imolese fu aperta con due colpi di cannone, e il Lahoz co’ suoi diè la scalata alla porta Pia; nè valsero le fucilate che i Faentini spararono dalle finestre contro gli invasori, chè i Francesi, entrati dalla porta Imolese, e i Lombardi o Cisalpini, entrati da porta Pia, uccisero o fecero prigionieri i ribelli, sfondando le porte delle case. La vittoria fu, poi, conchiusa onorevolmente dagli atti di moderazione del Bonaparte verso la città, di cui le persone e le robe furono rispettate: Napoleone stesso, anzi, condottosi da Imola a Faenza, ammonì i preti e i frati, ricordando ad essi le leggi del vangelo, e liberò i prigionieri.
L’infelice esito della resistenza papale ebbe (com’è noto) corona co ‘l trattato di Tolentino (19 febbraio 1797), di cui l’articolo settimo stabiliva la rinunzia del papa alle legazioni di Bologna, di Ferrara e di Romagna, cedute e trasmesse alla repubblica francese; e trovò la sua satira nella pantomina del Salfi, rappresentata il 25 febbraio a Milano ,co ‘l titolo “ l’arrivo del Colli a Roma “, e nella commedia “ la presa di Faenza “, recitata la sera del 31 maggio 1798 al teatro di Torre Argentina in Roma.
Il giorno dopo l’entrata dei Francesi (15 piovoso, anno V repubblicano, 3 febbraio ’97), il gen. Rusca, comandante della Romagna, dalla sua residenza nel palazzo Pasolini-Zanelli pubblicata, per ordine del Bonaparte, i nomi dei membri della municipalità di Faenza, da sostituirsi agli Anziani ed ai consiglieri comunali. Furono dessi il conte Annibale Mazzolani, presidente, il conte Pietro Severoli (ex-canonico), il conte Filippo Severoli, suo fratello, Balasso Naldi. Giuseppe Bonazzoli, Giuseppe Toni, Antonio Rampi, Bernardino Sacchi e Giuseppe Foschini, segretario, i quali mostrarono, sebbene nobili o cittadini autorevoli anch’essi, di accogliere e più o meno favorire le nuove idee. Nel giorno stesso il generale di brigata La Salcette rassicurò con un proclama i cittadini, promettendo regolare e savia amministrazione, e invitando cinque de’ migliori fra gli abitanti delle municipalità di Brisighella, Fognano, Russi e Granarolo, a fare omaggio di giuramento alla Repubblica francese, e resa d’armi, sotto pena di grave castigo. Di lì a poco (12 febbraio) i Francesi, impadroniti si di Ancona e d’Urbino, liberavano dal forte di s. Leo que’ giacobini Faentini che vedemmo arrestati nell’ottobre del ’96.
Intanto il Bonaparte, recatosi a Forlì il 4 febbraio, costituiva di là in Ravenna un’Amministrazione Centrale composto del cav. Alessandro Guiccioli e dell’avv. Lorenzo Orioli, ravennati, dal conte Antonio Colombani, forlivese, del conte Giuseppe Masini di Cesena, di Daniele Felici, riminese, ai quali poco di poi furono aggiunti il faentino conte Achille Laderchi (dopo la sua liberazione da s. Leo), il conte Filippo Severoli, pure faentino, il conte Camillo Dall’Aste di Forlì, e il conte Gian Maria Belmonte di Rimini. Cotale amministrazione centrale esercitata l’autorità già prima avuta dal cardinale legato, doveva in seguito nominare le municipalità, e di ogni provvedimento politico ricevere l’approvazione dalla Giunta di difesa generale della repubblica cisalpina, nella qual giunta la Romagna aveva un suo rappresentante. La Centrale fu, dopo il 18 aprile, trasferita a Forlì, come a sede più comoda ed atta alle comunicazioni.
Le municipalità componevansi di nove membri e amministravano le rendite del Comune, provvedevano ai lavori pubblici, alla polizia locale, ai passaporti, certificati di civismo, alloggi militari etc.: ma tutte le deliberazioni dovevano essere approvate dalla Centrale. L’antico potestà o pretore, votato il nome in quello di giusdicente, era eletto dalle municipalità, alle cui riunioni assisteva, conservando la giurisdizione delle cause civili; e primo giusdicente di Faenza fu il giacobino conte Francesco Conti. Un comandante di piazza militare francese aveva, poi, la vigilanza morale della città, e vi manteneva il rispetto della repubblica; ma nobili e ricchi, il vescovo e il vicario, padroni e bottegai avevano emigrato, onde gravi danni al commercio, e silenzio e squallore nella città, così che replicati inviti delle gen. La Salcette (3, 6, 10 febbraio) imposero la ripresa de’ lavori e il ritorno de’ cittadini; e intanto i giacobini, inneggianti alle nuove idee, innalzavano il 5 febbraio sulla piazza maggiore di Faenza l’albero della libertà. Il “ grande atto “ (come lo appellava un manifesto della municipalità a’ cittadini), cui assistenterono le milizie repubblicane e pochi indigenti, fu magnificato da un discorso del cittadino Pietro Severoli, ristorante di retorica; ed in omaggio alla nuova uguaglianza e fratellanza repubblicana, la Centrale ordinò il 12 febbraio a’ cittadini tutti di portare la coccarda francese (bianca, rossa e bleu), a’ notai di svestire l’abito talare, a’ nobili di abolire gli stemmi gentilizi e le livree dei servi; inoltre furono tolti dai luoghi pubblici i busti, gli stemmi e i ricordi pontifici e cardinaleschi. A supplire, poi, all’enorme debito della comunità, la Centrale ordinò la soppressione dei conventi di s. Giovanni dei Carmelitani, de’ Cistercensi, Domenicani, Francescani (frati del paradiso), di s. Giovanni di Dio, de’ Trinitari (14 giugno), e il 4 agosto dell’anno di poi si chiusero anche i conventi de’ Camaldolesi, Serviti, Minori Conventuali. I beni ecclesiastici di cortese case religiose furono posti al pubblico incanto per 2616602 di lire; e il cronista Tomba che si riscossero in contanti scudi 1373 e restarono da esigersi scudi 96307 (lire 516205), in dodici rate annue: il resto rimase invenduto.
Una giunta civile e criminale (conte Francesco Conti, presidente, Gian Domenico Liverani, Francesco Milzetti) riconstituì la regolare amministrazione della giustizia: il 20 febbraio si riaprirono i tribunali, prescrivendosi che gli atti, le informazioni, le sentenze fossero compilati in lingua italiana; il 25 febbraio furono aboliti la tortura, la ruota, i tratti di corda, etc.; il 28 marzo fu soppresso il foro ecclesiastico; il 28 agosto il diritto di asilo; il 5 aprile si decretò che i giudici ricevessero lo stipendio dalla nazione e non potessero farsi pagare dai ricorrenti. Inoltre il nuovo governo accarezzò e lusingò la plebe, tentò di migliorare le sorti dei contadini, decretò la construzione di una nuova strada da passo di Felisio a Lugo, per dar lavoro agli operai, tolse il dazio su la carne, fece vendere a’ poveri una nuova qualità di pane a buon mercato, restituì i pegni del Monte di Pietà inferiori a 25 scudi, accordo libertà al commercio del grano, ordinò, infine, che tutte le osterie dovessero esser chiuse al primo suono della ritirata della sera. A mantenere, poi, la pubblica quiete fu composta il 12 febbraio della municipalità una commissione o giunta; e già l’8 febbraio un’altra giunta (conte Francesco Ginnasi, presidente, G. B. Giangrandi, conte Giacomo Laderchi, Bernardo Sacchi medico, Dionigi Zauli-Naldi, Luigi Romanelli) aveva ricevuto l’ordine di organizzare una Guardia civica o nazionale, composta di 100 cittadini, che dovevano portare l’uniforme con pennacchio tricolore al cappello, e fare il servizio di guardia in piazza, alle prigioni, alle porte della città, davanti all’albero della libertà, e vigilare la notte contro i malefici. In omaggio ai liberatori il vecchio orologio di piazza suonò le ore all’uso francese, e fu adottato anche il calendario repubblicano.
Feste, ritrovi, rappresentazioni teatrali s’instituirono per rallegrare gli animi de’ buoni cittadini, ed esempi di patriottismo e di generoso soccorso alla municipalità nobilitarono certamente l’entusiasmo giacobino; ma di conto alle buone riforme, le imposizioni dei conquistatori e la così detta irreligione del nuovo governo produssero un sordo serpeggiare di rancore e di odio, nella plebe tuttavia ignorante e superstiziosa. L’avere abbassato l’orgoglio e la potenza dei preti, l’avere imposto il giuramento di fedeltà alle leggi della repubblica, da un lato: l’avere obbligato la città a fornir cavalli ad arbitrio del generale comandante, l’avere imposte contribuzioni vessatorie di denaro e di oggetti preziosi, l’aver messo la mano perfino su la proprietà privata degli agricoltori, d’altro lato; tutto ciò, dicono, produsse nel popolo un malcontento fatto anche più grave dall’inevitabile incaricamento de’ viveri in cotali tempi di dispendio e di miseria; onde sempre più i papaloni soffiavano nel fuoco, spacciando novelle d’imminente caduta del potere repubblicano. Il Bonaparte, a rassicurare le speranze scosse de’ giacobini, ritornando da Tolentino il 22 febbraio, si fermò in Faenza alcune ore, nel palazzo Pasolini-Zanelli, donde prosegui per Bologna; e fece annunziare a suon di tromba la conclusione del trattato co ‘l papa, per il quale la Romagna era ceduta alla repubblica francese. E i patriotti per dimostrargli la loro riconoscenza pensarono di innalzare un marmoreo arco di trionfo fuori di porta Imolese, la cui esecuzione fu affidata all’architetto Antolini di Castelbolognese, preferito al faentino Pistocchi. Inoltre il 7 maggio la municipalità celebrò una festa, nella quale, per i istringere sempre più a sè il sentimento popolare, fece distribuire elemosine ai poveri, e dotare di dieci scudi ciascuna dieci Giovani tra le più bisognose e virtuose, mentre una lapide commemorativa, posta là dove doveva sorgere l’arco trionfale, rammentava in italiano e in latino la vittoria francese del Senio. Ai preti, “ razza di antropofagi “, scagliò invettive nel suo discorso magniloquente e gonfio il cittadino giusdicente Francesco Conti, tra le grida e gli applausi delle guardie civiche; ma alle voci di entusiasmo rispose nel Boro d’Urbecco la ribellione de’ papaloni, che al suono delle chitarre gridavano: viva il papa! morte ai Francesi!; onde dovette il governo procedere a catture e punizioni. E quasi fosse simbolo del malfermo dominio francese, il disgraziato arco di trionfo fuor della porta Imolese minacciò urina non appena fu compiuto, e fu demolito poi nella reazione del ’99.
Dopo la festa patriottica del 7 maggio, la municipalità di Faenza inviò a Milano due deputati, Pietro Severoli e Ludovico Laderchi (fratello d’Achille), a chiedere che la Romagna fosse unita alla repubblica cisalpina, e che Faenza fosse dichiarata capoluogo di dipartimento, avendo essa una popolazione più numerosa e industriosa di tutte le altre città della provincia. Ai due deputati si unirono in contesti buoni uffici Dionigi Strocchi e Vincenzo Monti, il quale ricordava di esser quasi faentino, per ottenere anche che Faenza avesse l’onore di un liceo dipartimentale, in cui (secondo gli intendimenti di Ennio Quirinio Visconti, amico dello Strocchi e richiesto di consigli) fosse impartita educazione civile, scientifica e letteraria, con l’insegnamento delle lingue classiche ed orientali, della geografia, della storia, delle scienze naturali, ecc. Tale liceo, le cui vendite avrebber dovuto essere constituite dalle entrate del seminario, dai sussidi destinati alle scuole pubbliche e pontificie, e dai trecento scudi annui che il Comune spendeva per mantenere cinque alunni in un collegio di nobili a Ravenna, fu fondato soltanto più tardi, come vedremo; ma il voto principale de’ giacobini di Faenza fu adempiuto, sì che il 14 brumaio (4 novembre) Pietro Severoli poteva darne con sua lettera il lieto annunzio. Luigi Oliva di Cremona e Vincenzo Monti vennero in Romagna come commissari organizzatori, è vi instituirono 12 dipartimenti separati: quello del Lamone, con sede a Faenza, e quello del Rubicone, con sede a Rimini, essendone segnato il confine dal corso del fiume Ronco, e poi da quello del Bevano. Il dipartimento del Lamone comprendeva 175000 abitanti, le città di Faenza, Ravenna, Imola, Forlì, i paesi di Brisighella, Castelbolognese, Solarolo, Cotignola, Meldola, Riolo, Castel del Rio, Casola, Predappio, Dozza, Tossignano, Bagnara, Massa Lombarda, Conselice, Fusignano, Alfonsine e s. Alberto; ebbe dodici rappresentanti al Corpo legislativo della repubblica cisalpina, eletti dal Bonaparte (nelle consiglio dei Seniori: Giuseppe Poggiolini d’Imola, Carlo Soglieri di Cotignola, conte Franc. Conti di Faenza, march. Alessandro Guccioli di Ravenna; nel consiglio degl’Iuniori: Franc. Alberghetti, conte Pietro Severoli, conte Achille Laderchi di Faenza, Giov. Bragaldi, Luigi Valeriani di Bagnacavallo, Giov. Gaggini di Forlì, Franc. Giovanardi di Lugo, Lorenzo Orioli di Ravenna: cfr. Arch. com. di Faenza, Bandi, notificazioni, etc., IV); e Faenza fu sede dell’amministrazione centrale, Composta di Francesco Ginnasi faentino, presidente, Giuseppe Zaccarelli di Forlì, Filippo Collina di Ravenna, Gian Battista Annichini di Bagnacavallo, Filippo Vestri di Lugo e Lorenzo Montanari, segretario. Il 21 brumaio (11 novembre) Napoleone Bonaparte nominò come sostituti, nel consiglio de’ Seniori Paolo Cassani di Cotignola, ed in quello degl’Iuniori Dionigi Strocchi.
Unita così alla Cisalpina, Faenza ne ebbe la constituzione, che era analoga a quella francese dell’anno III, Per la quale i cittadini di 26 anni compiuti formavano le assemblee primarie, che eleggevano i giudici di pace, i membri delle municipalità, e i membri delle assemblee elettorali. E questi ultimi (che dovevano essere uno ogni 300 elettori, avere 25 anni, possedere una rendita eguale a 150 giornate di lavoro) eleggevano d’allora in poi i membri del Corpo legislativo, i giudici di Cassazione, i giurati, gli amministratori dei dipartimenti, il presidente e i cancellieri de’ tribunali criminali, e i giudici de’ tribunali civili. Nel dipartimento del Lamone furono instituiti un tribunale dipartimentale a Faenza per le cause civili, e tre tribunali correzionali, uno a Faenza, un’altro a Ravenna e il terzo a Lungo. La nuova municipalità faentina, constituita per ordine del generale in capo, fu composta il 22 brumaio (12 novembre) de’ seguenti membri: Antonio Tassinari, conte Gaspare Ferniani, conte Francesco Zauli, Camillo Bertoni, conte Baldassarre Gessi, Bernardino Sacchi, Francesco Utili, conte Giacomo Laderchi; e si divise, come nelle altre città, in Consiglio ed Officio, essendo quest’ultimo composto di tre membri aventi potere esecutivo.
Già, prima che fosse accordata la constituzione, Napoleone con la legge del 6 termidoro, anno V (26 luglio 1797), aveva aboliti i fidecommessi, le primogeniture, e pareggiate le femmine a’ maschi nelle successioni, etc.; ora, poi, con suoi editti del settembre e dell’ottobre la municipalità rivolse le sue cure al commercio ed all’agricoltura (creando anche un comitato di sanità contro l’infierire delle’epizoozia del bestiame); all’istruzione pubblica (scuole di grammatica superiore e di retorica); alla instituzione di una galleria di quadri, tolti dalle chiese o dai conventi; alla fondazione di un circolo constituzionale, o accademia patriottica, per opera dei due deputati, Pietro Severoli e Dionigi Strocchi, ove s’insegnasse al popolo, fra suoni di bande e d’inni, la costituzione e la legislazione repubblicana.

1798

Clamorose e festose furono le sedute di questo circolo o accademia, diretto da un moderatore; ma i papaloni e i preti non ristettero dall’aizzare il popolo contro i [1798] giacobini, sì che il 2 febbraio (14 piovoso) del 1798, giorno stabilito per l’inaugurazione del circolo, avvennero tumulti e l’adunanza fu sciolta; ed i tumulti si rinnovarono il 17 piovoso (5 febbraio), sopra tutto per opera del prete Paolo Babini e del seminarista Carlo Villa: onde la municipalità provvide con l’aumentare il presidio militare e con l’arresto dei più fanatici. Ma il concorso del pubblico al circolo constituzionale andò poi sempre aumentando, per modo che si dovette trasferirne la residenza della chiesa di s. Stefano in quella de’ Celestini; e il 15 agosto si trasportò solennemente la statua della libertà alla nuova sede, scorta dai fasci consolari e bandiere, e dalle compagnie civiche di cacciatori e granatieri, mentre i patriotti cantavano inni repubblicani. La festa fu compiuta co ‘l bruciare in mezzo alla piazza, davanti all’albero della libertà, e tra le danze e le acclamazioni, il libro d’oro (contenente titoli nobiliari de’ cittadini), al quale appiccò fuoco lo stesso presidente della municipalità, conte Gaspare Ferniani. E succedevansi, intanto, feste in teatro e banchetti, ove cittadini nobili e ricchi sedevano accanto ai poveri in unione fraterna, spesso turbata da incidenti non grati; e le cittadine patriote, ad imitazione degli uomini, celebravano il 13 brumaio dell’anno VI (3 novembre 1797) un banchetto insieme con le sorelle povere, al quale fu partecipe Vincenzo Monti, che pronunzio un breve discorso. Durante una di cotali feste, Avvenuta il 5 marzo del ’98 co ‘l consueto pranzo patriottico e co ‘l solito ballo intorno all’albero della libertà, la plebe, eccitata, tumultuò dinnanzi al palazzo vescovile, chiedendo con alte grida che il vescovo Mancinforte ne uscisse a prender parte alla gioia comune; ma poi che il vescovo trovavasi a Bagnacavallo per affari del suo ministero, il popolo trasse seco settantadue seminaristi, e questi presero tanto gusto nel ballare e cantare per le piazze e per le vie, che non vollero più farsi preti. D’altro canto opere e commedie, rappresentate al teatro con molta frequenza, avevano l’ufficio di democratizzare il popolo. Il quale, sebbene po’ stordito da tanti inni, da tanti clamori e da tanti spettacoli, soffriva e si lamentava del rincaro crescente dei viveri e del grano, fatto scarso per la negletta agricoltura in que’ tempi d’invasione militare, ne’ poteva più oltre sopportare l’obbligo delle contribuzioni in fieno, paglia e alloggio alle milizie francesi che passavano per la città (ordine del gen. Berthier il sei piovoso, o 25 gennaio ’98), e le prepotenze de’ soldati, e gli aggravi delle requisizioni. Il malcontento cresceva, non solo per il disagio economico, ma anche per i decreti che proibivano le accarezzate forme esterne della religione (trasporti funebri religiosi, pompa e pubblicità delle viatico agl’infermi, suono delle campane nelle feste religiose etc.), e per l’irriverenza alle immagini sacre: onde i lamenti si mutarono presto in disordini ed insulti, ed avvennero catture e condanne di preti perturbatori dell’ordine pubblico. A rimediare a mali così fatti, il Corpo legislativo delibero, il 27 febbraio ‘98, che si procedesse militarmente contro i suscitatori di disordini; e s’instituirono perciò commissioni d’alta polizia, delle quali una sede in Faenza. Se non che, tra gli stessi patriotti sorse nella nostra città grave cagione di malcontento, quando il 31 agosto l’ambasciatore Trouvé modificò la constituzione della Cisalpina per modo che i due dipartimenti del Lamone e del Rubicone vennero riuniti nel solo dipartimento del Rubicone, con capoluogo Forlì. Faenza perdette, infatti, molta della sua importanza politica, e nessuno de’ suoi cittadini fu tra i membri della nuova Centrale, che in Forlì fu composta il 29 fruttidoro (15 settembre) per decreto del Direttorio esecutivo.
L’ardore de’ giacobini faentini diminuisce ora, dinanzi allo spirito di reazione del popolo ed alle crescenti pretese de’ Francesi liberatori. L’azione dei municipalisti si restringe a cercare il pagamento forzato delle contribuzioni, sempre più gravi, essendo il debito della Cisalpina con la repubblica madre cresciuto oltre ogni dire per le spese di guerra: onde Faenza dovette pagare al Direttorio esecutivo un prestito di lire 129190, e l’imposta prediale salì a dismisura. Per compensare i creditori della nazione furono ricominciate le vendite dei beni nazionali (tolti alle comunità religiose); ma la legge 8 vendemmiale, anno VII (29 settembre ’98), impose a’ compratori di pagare entro quattro anni la terza parte del prezzo d’acquisto, e consegnare per il resto una somma equivalente di crediti contro la nazione. I crediti ipotecari che gravavano cotesti beni nazionali già fino dal tempo che erano posseduti dalle corporazioni religiose, furono ammessi come danaro contante nell’acquisto di essi beni per la quarta parte del loro importo, mentre un’altro quarto era pagato dal governo a’ creditori ed il resto registrato nella sezione dei crediti diversi contro la nazione; e nei crediti ipotecari scaduti, un terzo del prezzo della terra fu considerato come danaro contante e i due terzi come crediti diversi contro la nazione. Per tal guisa, come osserva il cronista Tomba, troppo facile fu ogni genere di vendita e di compera, e “ si barattarono le case e le possessioni in lenzuoli, coperte, e pagliericci “, e troppo libera fu la scelta degli acquisti all’ardire di monti.
Ma tali provvedimenti a ben poco giovarono, e il governo fu costretto ad aumentare le gravezze: un nuovo prestito fu imposto con la legge 3 brumaio (24 ottobre) al Comune di Faenza, di L. 26671,36; e nuovi dazi di consumo alle porte della città su ogni genere di prodotti agricoli furono decretati, accrescendosi perfino il prezzo del grano; infine, essendosi la municipalità già impadronita del Canal Naviglio Zanelli, ed avendo essa appellato al Direttorio esecutivo contro il ricorso che l’erede Zanelli avea fatto alla Centrale, il Direttorio stesso con suo editto del 5 pratile (24 maggio) dichiarò che il canale apparteneva per diritto alla repubblica, ne spogliò la municipalità, e ne prese possesso in nome della nazione, fino a che, subite e vinte volta a volta le prepotenze de’ municipalisti e de’ Francesi, il governo papale prima, ritornato padrone, e la repubblica italiana poi (4 agosto 1804) reintegrarono ne’ suoi diritti di proprietà l’erede Zanelli.
E frattanto lo sbollire dell’entusiasmo e il diminuire della fiducia nei Francesi si appalesavano chiaramente nella quasi nessuna rispondenza agl’inviti di reclutamento nella coorte Emilia. Già fino dal 20 maggio del ‘97 la municipalità aveva inviato là “ prode gioventù faentina “ad accorrere in servigio della patria, ma si arruolarono soltanto pochi oziosi, vagabondi e furfantelli, de’ quali ebbe pure a contentarsi il comandante della coorte Alessandro Belmonti; e quando nel gennaio del ‘98 la Centrale chiamò con un proclama i giovani ad inscriversi nella guardia dei 300 granatieri che doveva essere formata per ordine del Direttorio, fu così scarso, anzi risibile, il risultato, che, dopo ripetuti inviti, soltanto cinque Faentini risposero all’appello. Vano fu pure il proclama della Centrale (17 piovoso, 5 febbraio ’98) instigate la gioventù a partecipare alla spedizione del Bonaparte in [1799] Egitto.

1799

Quando, nel seguente anno 1799, si procedette in Faenza all’estrazione di sessantaquattro coscritti, per ordine della Centrale di Forlì (25 ventoso, 15 marzo), il popolo tomultuò, e la coscrizione non ebbe poi alcun effetto, perché la maggior parte degli estratti era di già coraggiosamente fuggita. La qual fuga i cronisti del tempo (Tomba, Querzola etc.) scusano per la naturale mancanza, in quella gente povera ed ignorante, d’idealità nazionale e di devozione ad un governo considerato oppressore.
Intanto, mentre il Bonaparte era in Egitto, la seconda coalizione europea contro di lui (Austria, Inghilterra, Turchia, Russia, reame delle Due Sicilie) otteneva grandi successi in Italia. Nell’aprile gli Austriaci erano entrati in Milano, e poi in Modena e Reggio, mentre circa 600 Francesi, Cisalpini e Polacchi ritiravansi parte in Faenza, e parte in Bologna. Tacque allora ogni allegria dei giacobini, e ridestossi più forte l’audacia de’ papaloni, sopra tutto quando dai confini della Toscana una banda d’insorgenti clericali e facinorosi minacciò la città. È ben vero che contro costoro mosse Giacomo Laderchi con una scelta compagnia di guardie nazionali, con felice esito; è ben vero che i patriotti, guidati dal comandante la guardia nazionale in persona, marchese Guido Corelli, marciarono anche nel territorio di Lugo, dove vagavano gl’insorti del basso ferrarese, e presero Bastia su ‘l Po di Primario; ma è pur vero che il primo maggio, per timore degli Austro-Russi, dovettero ritirarsi, e rientrando in Faenza trovarono abbattuti dal popolino gli stemmi e le bandiere repubblicane, tosto per opera a loro rialzati.
In quegli anni erasi formato in Italia un nuovo partito politico, detto dei Raggi, nemico ai Francesi ed ai Tedeschi, mirava a liberare l’Italia dagli uni e dagli altri, per constituirla a vita propria e indipendente: ed a Capo di questo partito erano i generali cisalpini Lahoz, Pino, Teuillet e Birago di Cremona; centro delle segrete adunanze, Bologna. Riuscirono costoro a vincere e convertire degli oppositori tenaci, come Cesare Paribelli, che fu mandato ad accordarsi co’ novatori di Napoli e di Romagna. Era questo, come ognun vede, un primo tentativo di vera indipendenza italiana, che pur troppo fallì per l’immaturità degli spiriti e de’ tempi. Eppure il Lahoz, profittando della triste condizione della Francia, impegnata nella guerra contro la coalizione europea, giunse a’ primi di maggio del ‘99 in Faenza con 500 soldati, dichiarò in istato di assedio il dipartimento del Rubicone, trasferì la Centrale da Forlì a Cesena, impose una contribuzione di 7000 scudi, fece arrestare i conti Paolo Battaglini e Taddeo Rondinini, che gli si erano ribellati, e per acquistarsi il favor della plebe ribasso il prezzo del sale. Poi co’ ‘l Pino si diresse verso le Marche, eccitando gli animi contro lo straniero; ma il suo colpo di mano non lo fu seguito se non da pochi, anche perché si rivelò in lui una prepotenza uguale a quella de’ Francesi: onde il gen. Hullin ordinò il 5 maggio a’ due ribelli di sottomettersi, li dichiarò degradati, e rimise tosto in Faenza gli ufficiali civili e giudiziarii che il Laboz aveva cacciati. I due ribelli si rinchiusero nel forte di s. Leo; ma il Pino passò poi a’ servigi del gen. Mounier, comandante delle marche, e il Lahoz, invece, per vendicarsi de’ Francesi, si pose a capo degl’insorti clericali delle marche, ed unitosi agli Austro-Russi, morì all’assedio di Ancona il 10 ottobre ‘99: tristissima fine, questa, di un movimento nazionale che scambiò la libertà con lo spirito d’avventura e con l’ira vendicatrice.
Gli Austro-Russi, frattanto, trionfavano; e la sera del 14 maggio una banda d’insorti osò perfino penetrare nel Borgo d’Urbecco accolta da’ papalini co ‘l grido di: viva il papa! viva l’imperatore morte a’ Francesi! Tosto fu atterrato l’albero della libertà nel borgo; ma i giacobini di Faenza corsero alla difesa delle mura della città, ricacciando gl’invasori nelle campagne circonvicine, e piantando un albero nuovo. Se non che, a Lugo, a Forlì, a Cotignola, a s. Alberto scoppiarono gravi insurrezioni; ed in Faenza stessa la maggioranza del popolo, ormai antigiacobina, attendeva con desiderio la nuova invasione straniera, che spazzasse via l’insolenza e la retorica della milantata fede repubblicana.
Gli Austriaci entrarono il 28 maggio in Ravenna; il dì dopo Francesi, Cisalpini e patriotti partirono da Faenza per rifugiarsi a Bologna, mentre la città rimaneva nell’arbitrio dei papaloni esultanti, ed esposta agli assalti delle bande controrivoluzionarie, dette comunemente degl’insorgenti, o anche dei briganti. La plebaglia, incoraggiata dal passaggio di 100 soldati tedeschi diretti a lungo, saccheggiò il 30 maggio le case de’ patriotti, bastonò non pochi di essi per le vie, altri ne catturò e cacciò in carcere, con l’animo di consegnargli poi agli Austriaci, e ciò è il conte Francesco Zauli, il conte Balasso Naldi, il medico Ulderico Francester, il chirurgo Antonio Raffa, l’incisore Giuseppe Zauli, l’architetto Giuseppe Pistocchi, Vincenzo Bartolazzi, Giovanni Bertoni, il maestro di calligrafia don Brunetti, Domenico Alpi, un Mamini, un Giacinto Bertoni, un Zulmarino. Ma per mettere fine all’anarchia i papisti si affrettarono, nel di appresso, ad eleggere dodici reggitori della città, che formarono l’Aulica Deputazione, e furono i conti Antonio e Ludovico Severoli, Battista Cantoni, Ottaviano Ferniani, Paolo Battaglini, Stefano Gucci, il cav. Sebastiano Tampieri, Pietro Gasparetti, Antonio Emiliani, Zaccaria Lama, Giovanni Tassinari. A capo di una milizia urbana, composta d’insorgenti, Fu messo il cav. Annibale Milzetti.
Se non che la gioia dei retrivi fu d’un tratto turbata dall’arrivo del gen. Hullin, che entro di sorpresa in città il 3 giugno, alla testa di Francesi e di Cisalpini, e si diè a vendicare le offese de’ papaloni, uccidendo e ferendo molti di costoro pomposamente fregiati della coccarda gialla, occupando la città come paese nemico, prendendo in ostaggio alcuni parroci e il conte Cesare Naldi, imponendo, infine, alla municipalità un tributo di quasi 4000 scudi. Tolse egli, inoltre, dal Monte di Pietà altrettanto danaro; ma il 7 giugno, all’annunzio che gli Austriaci si avvicinavano, se ne partì co’ suoi, seguito dai patrioti. Illuminazioni, fuochi artificiali, spari, musiche, allegro suono di campane salutarono l’arrivo in Faenza (9 giugno) da Ravenna di 300 Austriaci e di 1500 insorgenti, l’entrata degli Austriaci in Bologna il 30 giugno, le notizie della presa di Mantova e di Firenze, e quelle della presa di Roma e della vittoria del Suworoff a Portone nel genovesato: e i tridui, le processioni, i Te Deum nelle chiese confortavano negli spiriti questa ignobile gioia per le vittorie dell’aquila austriaca, mentre passavano di tratto in tratto per Faenza i prigionieri franco-cisalpini delle vinte guarigioni di s. Leo e di Ancona, accolti dalla vil plebe con urli e contumelie e fischiate. E intanto si demoliva l’arco trionfale eretto in onore di Napoleone Bonaparte fuor della porta Imolese; e ristabilito così il governo papale, un proclama del Suworoff invitava i popoli ad unirsi “ sotto lo stendardo combattente per Dio e per la fede “, e minacciava di fucilazione e di sterminio tutti coloro che non obbedissero prontamente. Ma il fanatismo, l’insolenza, la prepotenza, i delitti degl’insorgenti, che baldanzosamente scorrazzavano ora nella città e nelle campagne, bastonando, rubando, saccheggiando, dettero assai più da pensare al governo che non i giacobini fuggiti, o nascosti, o dispersi; onde l’Aulica Deputazione e la R. I. Reggenza, che gli Austriaci avevano costruito in Ravenna (e di essa faceva parte il conte Pietro Gasparetti, faentino), dovettero pubblicare proclami che frenassero cotali eccessi, provenissero gli insulti gratuiti e le vigliacche aggressioni.
Riacquistato il potere, i papaloni abolirono tutti gli atti del governo giacobino; riconstituirono il Consiglio generale, le magistrature, gli uffici, i tribunali esistenti prima dell’invasione francese del ‘96; ristabilirono gli antichi privilegi ecclesiastici e nobiliari; fecero la revisione delle vendite de’ beni nazionali, restituendo al clero quelli non venduti, ed imponendo una tassa del cinque per cento su ‘l prezzo dei beni venduti, per pagare le pensioni a’ membri delle corporazioni religiose; finalmente il 23 giugno, con passo ancor più decisivo, ordinarono di restituire alle mense vescovili, al seminario, al capitolo, ai parroci tutti, i beni venduti o non venduti. Furono, inoltre, rimessi in vigore i dazi e le gabelle esistenti prima dell’invasione francese, e riconstituita l’annona frumentaria od Abbondanza (cfr. pag. 260), alla quale i proprietari dovettero vendere a credito parte del loro grano. Per cattivarsi la plebe, poi, la R. I. Reggenza ribassò il prezzo del sale: e per i poveri fu dal Comune messo in vendita del pane a prezzo inferiore del suo costo: ma il provvedimento fu inutile, perché i poveri compravano il pane e ne facevano traffico, “ dissipando così, come dice il cronista Tomba, senza buono frutto le sostanze de’ possidenti, e comromettendo il pubblico patrimonio “.
A tutto ciò si aggiunsero le inevitabili persecuzioni del governo contro i giacobini. Nella notte che precedette il primo novembre, per ordine del commissario imperiale Pellegrini (che si trovava allora in Ferrara), il bargello Casanova catturò i faentini Marc’Antonio Trerè, legale, Pasquale Masini, computista, e Giovanni Fagnoli; e doveva essere arrestato anche il conte Francesco Conti che, avvertito in tempo, si salvò con la fuga.

1800

Pochi giorni dopo la R. I. Reggenza ordinava il processo “ in via sommaria ed economica “; e così costoro furono tra i sessantotto patrioti romagnoli imputati di giacobinismo e di marcata democrazia repubblicana, dei quali trenta furono condannati con sentenza del 17 febbraio 1800, due con sentenza del 4 aprile, undici con sentenza del 9 giugno (cfr. MASSAROLI, pp. ‘3-5), e gli altri assolti.
Furono accusati, oltre ai tre detenuti predetti, anche i seguenti faentini: i conti Francesco Zauli, Dionigi Naldi, Francesco Ginnasi, Giacomo Laderchi, Pietro Severoli, Balasso Naldi, Girolamo Severoli, Francesco Conti, Nicola Naldi, Camillo Battaglini, il marchese Guido Corelli, Antonio Cattoli, Giulio Maradi, il dot. Ignazio Grazioli, Vincenzo, Camillo e Giuseppe Bertoni, Giuseppe Bonazzoli, Vincenzo Cldesi, cav. Giuseppe Pistocchi, Luigi, Antonio, Giovanni e Ignazio Tassinari, Andrea e Giovanni Giangrandi, Giovanni Righi, Antonio Placci, Gioacchino Ugolini, Francesco Alpi, Giuseppe Capolini, Giuseppe Foschini, Battista Gherardi, Domenico Mauzoni, don Giovanni Ancarani, don Attanasio Pani, don Cristoforo Calgherini, Pietro Costa, Tommaso e Bartolomeo Albanesi, Antonio e Paolo Emiliani, Carlo Babini, Virgilio Baccarini, Antonio Lorenzo Missiroli, Sebastiano Baccarini, Ludovico Raffi, Luigi Maccolini, Antonio Liverani, Francesco Fiorentini, Gaspere Ferlini Antonio Novelli, Antonio Conti, Antonio Cinti, Angelo Canevari, Giuseppe Fantoni, Tommaso Baccarini, Pietro Balestrucci, Pietro Marangoni, Giuseppe Toni, Battista Bolis, Giuseppe Gardi, Giacinto Pazzi, Luigi Ugolini, Luigi Francesconi, un Maccaferri, un Bertucci, un Mattarelli, un Bardani. Ma la maggior parte di tutti costoro si salvò con la fuga, e sembra che fosse prosciolta, Subendo il processo in contumacia. Certo si è, invece, che tra essi fu catturato e condannato, con sentenza del 17 febbraio, alla galera per cinque anni il Pazzi Giacinto; dei tre suddetti arrestati nella notte precedente al primo novembre, il Fagnoli fu assolto, il Masini fu condannato a cinque anni di fortezza, il Trerè a due anni della stessa pena. Furono inoltre arrestati, ma non sappiamo in quale giorno, faentini Domenico Pianori che, sempre con sentenza del 17 febbraio, fu rilasciato come abbastanza punito, e Paolo Portolani, falegname, imputato di proposizioni ereticali, oltre che di giacobinismo, il quale, con sentenza del 9 giugno, si ebbe ben dieci anni di galera. Il Pazzi, trasferito dal forte d’Imola a Venezia e poi a Zara, fu liberato, dopo le vittorie napoleoniche, a’ primi di luglio 1801; il Trerè trasportato anch’egli a Venezia, poi in Dalmazia ed in Ungheria, quivi ammalò, poi fu ricondotto a Venezia, e finalmente liberato l’11 aprile 1801; gl’infelici Masini e Portolani, condotti da prima essi pure a Venezia, socombettero miseramente, l’uno a 23 anni nelle galere di Sebenico, mito di schifosi insetti, di sudiciume e di orrore, l’altro a 30 anni tra i forzati di Straper, nell’Ungheria. Sono essi, adunque, i due primi martiri faentini della libertà, giovani vittime degne di gloriosa memoria (cfr. MASSAROLI pp. 8-17).
A compimento della reazione fu ristabilita la censura ecclesiastica (decreto episcopale del primo aprile) e civile (proclama della R. I. Reggenza, del 2 aprile) su la stampa, mentre alle manifestazioni d’allegrezza avvenute il 16 marzo per l’elezione del novello pontefice Pio VII (Chiaramonti), aggiungevansi nuove feste, e cerimonie religiose, e spettacoli teatrali.
Ma la tempesta si avvicinava. Napoleone Bonaparte, reduce improvviso dall’Egitto, Fatto il colpo di stato del 18-19 brumaio del ’99, co ‘l quale diveniva arbitro della repubblica francese, aveva valicato le Alpi con un grosso esercito: e quel po’ di consolazione che apporto ai retrivi la notizia della capitolazione di Genova agli Austriaci, fu tosto turbata dalla strepitosa novella della vittoria di Marengo (14 giugno 1800). Il 28 giugno 10000 Francesi occupavano nuovamente Bologna; il 3 luglio una convenzione co ‘l gen. Mounier ridette la libertà a’ condannati politici, e il permesso agli emigrati di rientrare in patria: onde il conte Francesco Conti, tornato a Faenza, potete adoperare la grande autorevolezza sua in servizio della città, lacerata dalle lotte degl’insorgenti e de’ giacobini, e cooperare validamente al mantenimento del buon ordine, dirigendo e raffrenando egli stesso l’opera degli sbirri. Scrisse, inoltre, il Conti una lettera al gen. Miollis, Comandante le milizie di qua dal Po, con la quale descriveva lo stato infelice della città; e tale lettera recarono al Miollis i cittadini Dionigi Strocchi, Francesco Naldi e Clemente Caldesi, ottenendo da lui la promessa che una colonna francese avrebbe ristabilito in Romagna il governo repubblicano entro tre giorni. Così avvenne che il 12 luglio 3000 Francesi, guidati dal generale Monnier, entrarono in Faenza, riconducendovi molti giacobini fuoriusciti, nel tempo istesso che gli avanzi della guarnigione ungara ne uscivano dalla porta del Ponte, fuggendo verso Forli.
“L’armata francese spezza per la seconda volta le vostre catene — annunziata il Monnier nel suo proclama del 24 messidoro, anno VIII (13 luglio 1800); e la vittoria ci riconduce fra voi, il vostro destino cambiò a Marengo “; e dopo tanti orrori e disordini, le speranze de’ liberali risorgevano a un tratto, e la moderazione che questa volta i Francesi sembravano mostrare avvalorava le speranze di pace e di tranquillità ne’ cittadini, ormai stanchi de’ tumulti. Da Genova, da Bologna, perfino dalla Francia tornavano in Faenza i giacobini fuggiaschi; e intanto Francesco Conti, Nominato commissario del potere esecutivo dal Monnier, eleggeva i membri della municipalità (Giovanni Fagnoli, Baldassare Gessi, Alessandro Foschini, Francesco Zauli, Camillo Bertoni), mentre il Monnier stesso constituiva il 27 messidoro (15 luglio) la nuova Amministrazione Centrale in Forlì, della quale fece parte il predetto Camillo Bertoni. A dimostrare la novella tolleranza del giacobinismo verso la religione, la municipalità annunziò il 30 messidoro (18 luglio) che il dì dopo sarebbe stato cantato un Te Deum nella cattedrale, in ringraziamento del ristabilito governo repubblicano, e dal canto suo il vescovo Manciforte esortava gli ecclesiastici alla quiete; se non che, questo spirito di conciliazione non animava ugualmente i giacobini più esaltati, da un lato (i quali bastonavano ora allegramente i papaloni per rifarsi delle sofferenze partite), e gl’insorgenti, dall’altro lato (i quali ancora infestavano le campagne): onde fu constituita il 30 messidoro una guardia civica, fu proibito il porto d’armi e di bastoni, furono annullati i permessi di caccia. Intanto abolivansi tutte le leggi, i proclami e gli avvisi pubblicati durante l’occupazione austriaca, ed imponevasi in tutto il dipartimento su gli aderenti a parte austriaca e papale una tassa dell’importo complessivo di lire 131070; e dalla cifra assai elevata che a Faenza toccò (lire 32050) in confronto delle altre città (compresi anche Ravenna e Forlì, che avevano una popolazione maggiore), risulta chiaramente che purtroppo i papaloni erano assai più numerosi in Faenza che non altrove. Pagarono, infatti, oltre 2000 lire Antonio Emiliani, l’arcidiacono Severoli, il conte Annibale Mazzolani; oltre 1000 lire i conti Antonio e Ludovico Severoli, Zaccaria Lama, Ottaviano Ferniani; 1000 lire il cav. Annibale Milzetti, i fratelli Grossi, i fratelli Boschi, Gioacchino Tomba, etc.; da 800 a 200 lire il conte Battista Cantoni, Domenico Missiroli, Giovanni Rondinini, il conte Cesare Naldi etc. Su i membri della disciolta Deputazione Aulica austro-papale, poi, gravarono le spese per la ricon costruzione dell’arco trionfale for della porta Imolese, che era stato per loro ordine demolito; ma gettate le nuove fondamenta, ed alzato l’arco per un metro circa, la construzione ne fu poi abbandonata, e chi volle di quel materiale liberamente se lo prese, per modo che a poco a poco venne essa pareggiata al suolo.
E frequenti passaggi di soldatesche, le necessità degli alloggi militari, le inevitabili spese per la constituzione del nuovo governo, indussero la municipalità ad imporre gravezze non solo su i ricchi, ma anche su i poveri; e il nuovo malcontento del popolo crebbe anche per la scarsità del grano. Pur tuttavia la paura degl’insorgenti, che scorrazzavano e derubavano nelle campagne, minacciando perfino talvolta la città, faceva sì che questa fosse in preda all’agitazione, quando correva voce che i Francesi dovessero ritirarsi; onde Francesco Naldi fu inviato dalla municipalità ad implorare dall’aiutante del gen. Waninsti che rimanesse nella città almeno un battaglione di soldati, fino a raggiungere delle milizie cisalpine. Le quali, finalmente, in numero di 800 armati, si stanziarono in Faenza, e riuscirono a stabilire alla meglio un po’ d’ordine nella città, e un po’ di tranquillità nelle campagne.
Intanto, fra piccoli incidenti e piccoli provvedimenti, come quello di creare un corpo di 150 granatieri patriottici, 30 guardie e 200 cittadini, organizzati come la guardia degli antichi Cento Pacifici), un nuovo pericolo s’avanzava: quello degli Austriaci, che il 10 ottobre avevano occupato le vicinanze di Comacchio; onde la guarnigione cisalpina abbandonò il dì dopo Ravenna. In preda alle discordie ed alla paura, con gl’insorgenti alle porte, la città nostra era dunque in pessime condizioni: “ siamo senza denari, senza grano e oppressi dalle tasse….; sfila tutta la truppa, e noi resteremo di nuovo senza Francesi. Gli aristocratici saranno allegri. Vedremo come andrà a finire “ — sospirava un giacobino ardente, Giacomo Laderchi, scrivendo al padre suo Ludovico; nè migliorarono le sorti quando Leopoldo Tangerini, eletto commissario straordinario nel dipartimento del Rubicone, sciolse in Forlì il 20 novembre l’Amministrazione Centrale, assumendo egli direttamente il governo. Gli Austriaci, infatti, si avvicinavano vittoriosi, e dinnanzi a loro ritiravansi le guarnigioni francesi di Forlì, di Faenza e d’Imola. Il Tangerini passando in fuga per la nostra città, vi nominò commissario in un suo luogo Francesco Conti (il patriotta onesto e provato, cui si ricorreva ne’ momenti del pericolo): ed il Conti, a sostituire la municipalità che si era dimessa, ne nominò abilmente un’altra di color papalino, nella speranza che essa potesse tenere a freno gl’insorgenti facinorosi.
Il giorno 9 decembre Ungari ed Austriaci vi occuparono Faenza e vi atterrarono l’albero della libertà, bruciandolo su la piazza per riscaldarsi durante la notte; altri ne giunsero alla spicciolata nei giorni seguenti, e forti e sicuri catturarono alcuni giacobini (Michele Nannini, Virgilio Baccarini, un parrucchiere soprannominato Sarcio, un Baroni, il segretario del municipio Boonazzoli); indi, ristabilitasi in Ravenna la R. I. Reggenza, constituirono nella nostra città l’antica magistratura degli Anziani, con a capo il conte Giovanni Pasolini, solo ad accettare la difficile responsabilità della carica. Ed ora, con mutato spirito, una novella guardia urbana vigila alle porte e su le mura, temendo un’improvviso ritorno dei Francesi, mentre i soliti insorgenti s’abbandonano ai consueti disordini e malefici.
Ma la nuova occupazione austriaca dovea, per buona fortuna, essere effimera; le milizie repubblicane marciavano nuovamente alla riconquista della Romagna, tra l’esultanza de’ patriotti; e dei fuoriusciti giacobini di Faenza era piccolo baluardo la vicina Castelbolognese, dove una sera fu perfino bruciata una bandiera papale, rapita nottetempo dalla loggia del palazzo municipale faentino.

1801

Cisalpini e liberali da un lato, guardie ungheresi e insorgenti dall’altro, si davano il gusto di attacchi e scaramucce da burla, fino a che il 26 gennaio 1801 rientrarono in Faenza i Francesi, seguiti dai patriottici e da non pochi abitanti di Castelbolognese. Ripiantato l’albero della libertà, fatti prigionieri i magistrati municipali (che furono tosto rilasciati) e non pochi papaloni, riconstituitasi una municipalità giacobina, ritornò qual commissario straordinario nel dipartimento del Rubicone il Tangerini, il quale impose nuovi prestiti forzati: Faenza fu obbligata a pagare scudi 46560, pari a lire 249561, 60 di tassa prediale; vide ristabiliti i dazi alle porte, accresciuto il prezzo della farina e del pane, salito il censo a quarantacinque danari per ogni scudo di rendita; onde il costante aumento delle imposte rinnovava il malcontento e la ribellione, sebbene quel simulacro di governo repubblicano mostrasse nuovo rispetto per la religione, e sacrificasse d’ora in poi la democratica apparenza pur nei proclami, dove non sono più le parole libertà ed eguaglianza, ma semplicemente, dopo i famosi comizi di Lione, il nome di Repubblica Italiana, nel quale fu mutato quello di Cisalpina.

1802

Il cambiamento fu non soltanto formale, sì anche sostanziale. La constituzione della repubblica [1802] italiana, che i comizi di Lione approvarono il 26 gennaio 1802, fu, come la francese dell’anno VIII, il trionfo della plutocrazia, dappoiché, laddove riconosceva nominalmente la sovranità del popolo, stabiliva che tale sovranità dovesse esercitarsi soltanto dai tre colleghi elettorali dei possidenti (300 membri), dei dotti (200) e dei commercianti (200); e questi 700 elettori, nominati per la prima volta dal Bonaparte, eleggevano la Consulta di Stato (8 membri), il Corpo legislativo (76 membri), che doveva approvare o rigettare senza discussione le leggi proposte dal governo, il Consiglio legislativo (10 membri), che deliberava su i progetti di legge, la Censura (21 membri), che giudicava su le accuse di violata constituzione. Ma tutta la iniziativa delle leggi spettava al presidente napoleone Bonaparte ed ai ministri di lui, i quali esercitavano il potere esecutivo. A Faenza entrarono nel collegio elettorale de’ possidenti Francesco Milzetti (papalone), Ludovico Severoli (altro papalone), e Dionigi Strocchi: in quello de’ dotti Francesco Conti e Pasquale Righi, parroco di s. Michele; in quello de’ commercianti Giovanni Bertoni; Dionigi Strocchi, che già aveva preso parte come deputato (co’ parroci Montanari e Righi, e con l’avv. G. B. Scardovi) a’ Comizi di Lione, fu nominato membro del Corpo legislativo.
Furono inoltre, ristabiliti i Consigli comunali, che erano composti di quaranta cittadini ne’ comuni di prima classe, o sia superiori a 10000 abitanti, e di trenta in quelli di seconda classe: e la metà di tali membri doveva essere scelta necessariamente nella classe dei possidenti, Mentre l’altra metà doveva contenere persone che esercitassero il commercio o l’industria, o qualche scienza o arte meccanica. I Consigli comunali eleggevano tra i propri membri la municipalità, deliberavano su le imposte e su le spese, etc., e presentavano una duplice lista di candidati, da cui il governo sceglieva i membri dei cosi detti Consigli generali del dipartimento. Questi, ai quali spettava la revisione de’ conti dell’Amministrazione Centrale di ciascun dipartimento e l’approvazione delle spese, componevansi di otto o sei cittadini (a seconda della maggiore o minore popolazione), Di cui la metà dovea necessariamente appartenere al collegio de’ possidenti, e l’altra metà agli altri due collegi; e da una duplice lista presentata da tali Consigli dipartimentali il governo sceglieva, finalmente, membri dell’Amministrazione Centrale del dipartimento stesso.
In sostanza, adunque, pure sotto la veste di libertà e sotto il nome di repubblica, i poteri si raccoglievano nel presidente, arbitro ormai di tutto il meccanismo dello stato. A vice presidente della repubblica italiana fu scelto, come omnium sa, Francesco Melzi, e questi nominò novello commissario del potere esecutivo nel dipartimento nostro Tommaso Galleppini di Forlì, che assunse il potere il 24 marzo 1802; ma ben presto a cotali commissari furono sostituiti i prefetti, primo dei quali nel nostro dipartimento fu il conte Bartolomeo Masi di Ferrara. Fu rimessa, inoltre, in onore l’èra cristiana abbandonandosi il calendario della rivoluzione; ed al simbolo della libertà sostituivasi quello della giustizia, mentre si pubblicava la pace di Amieus tra Francia, Spagna, Inghilterra e repubblica batava (Olanda), firmatasi il 25 marzo. In quell’anno stesso, e precisamente ai 21 di giugno, si cominciò ad illuminare con lampade le vie della città, con soddisfazione de’ cittadini, che volentieri ne sostennero la spesa; a compensare, poi, coloro che sovvennero lo stato con azioni e prestiti forzati, statuivasi un’altra vendita di beni nazionali con decreto del 3 settembre, da pagarsi in contanti per un quinto e in crediti per quattro quinti.

1803

Frattanto adunavasi in Forlì il Consiglio generale del dipartimento, e l’Amministrazione Centrale risultava composta del conte Antonio Colombani di Forlì, Vincenzo Fattiboni di Cesena, Giovanni Fagnoli di Faenza, ava. Guido Fabri di Ravenna, conte Gaetano Battaglini di Rimini, i quali [1803] entrarono in carica il 25 gennaio 1803; e fu decisa a spese del dipartimento la instituzione di un liceo in Faenza, ove tenne poi cattedra d’eloquenza lo Strocchi, di matematica il Fagnoli, di fisica Bernardino Sacchi, di filosofia Ildebrando Alberghi, di diritto Filippo Brunetti, d’ornato e figura Giuseppe Zauli, tutti faentini; e chimica v’insegnò il lombardo Antonio Perego, e botanica il toscano Filippo Galizioli, ed anatomia ed ostetricia il forlivese Domenico Pantoli.
Co ‘l trattato dal 16 settembre 1803 fra la s, Sede e la repubblica italiana (che integrava il concordato tra il Papato e la Francia del 1801) furono ristabiliti i seminari, data al clero l’esecuzione dal servizio militare ed una dotazione a compenso de’ beni perduti, tolta alle municipalità l’amministrazioni degl’instituti di beneficenza: con che il Bonaparte faceva intendere di valersi della religione e della Chiesa, come di uno di quegli elementi che potevano favorire non solo la conservazione della sua dittatura, ma anche la ricostituzione di un trono, al quale egli ardentemente ambiva.

1804

Avvenne, dunque, che neanche in Faenza (dove, del resto, le condizioni economiche del Comune erano tutt’altro che liete, siccome appare dal bilancio de’ crediti e de’ debiti verso la [1804] nazione, compilatosi nel 1804) fu accolta con giubbilo la notizia del senato consulto del 18 maggio (28 fiorile), co ‘l quale Napoleone era eletto imperatore dei Francesi.

1805

La repubblica italiana si trasformò ben presto logicamente in regno d’Italia, Di cui fu proclamato re Napoleone [1805] stesso il 15 marzo 1805, ed il 7 aprile di quell’anno abbattevasi in Faenza l’albero della libertà e si abbassavano gli stemmi repubblicani. Dopo la solenne incoronazione di Milano (26 maggio), Giovanni Fagnoli, professore di matematica nel liceo, fu nominato il 2 giugno membro del nuovo Corpo legislativo in Italia; il 23 luglio, poi, il marchese Lorenzo Romagnoli di Cesena veniva scelto a prefetto del dipartimento del Rubicone, con quattro consiglieri (il conte Giuseppe Pasolini e Camillo Bertoni per Faenza, il conte Paolo Mangelli di Forlì e Giuseppe Carli di Cesena); statuironsi inoltre le sottoprefetture, e fu nominato sottoprefetto di Faenza Carlo Galvani, che già vi stava co’l titolo di delegato. Le amministrazioni dipartimentali o centrali furono abolite, e le municipalità di prima classe si composero di un podestà, o capo del Comune, e di sei savi, nominato dal Consiglio comunale: quelli durava in carica tre anni, e questi si rinnovavano per un terzo ogni anno. Il Consiglio comunale era di 40 membri; il dipartimento nostro componevasi di Faenza, Forlì, Cesena, Ravenna e Rimini. Le nostre popolazioni anelavano ad una vista dell’imperatore, che s’era condotto fino a Bologna, e per questo, anzi, fuor della porta Imolese venne costrutto un arco di trionfo in legno, con posticce statue di gesso e capecchio, mentre consimili preparativi facevansi in Forlì ed in Ravenna. Ma il Bonaparte deluse le aspettative, recandosi invece a Torino; sì che i Faentini dovettero contentarsi di una festa religiosa, e dell’eccheggiare dell’inno ambrosiano nella cattedrale e nelle parrocchie del territorio, il 16 agosto, in onore di s. Napoleone.
Sotto gli auspici, frattanto, del viceré d’Italia Eugenio Beauharnais, figliastro del Bonaparte, si riorganizzava in tutto il regno italico la guardia nazionale, divisa in compagnie di 100 soldati comandati dal un capitano, in battaglioni di 10 compagnie, comandati dal capo-battaglione, ed in legioni di 3 battaglioni, comandate da un capo-legione. In Faenza la guardia nazionale o civica, più volte riordinatasi, era stata a lungo comandata nel 1800 e nel 1801 dal giacobino Giacomo Laderchi; e sebbene nel trambusto di que’ giorni tumultuosi essa fosse uno strano miscuglio di patriotti e d’insorgenti, pure in qualche momento si mostrò a bastanza disciplinata, e prestò notevoli servigi. Nella riconstituzione presente ebbe essa a capo in Faenza il cav. Dionigi Zauli, E comandante della legione dipartimentale fu il marchese Guido Corelli; ma a poco a poco la guardia nazionale decadde, ne’ il presidente della repubblica, prima, ne’ il re d’Italia, poi, si curarono troppo di rialzarne le sorti, per modo che essa divenne un rifugio di oziosi, sgradito ed incomodo a’ cittadini.

1806

Il 20 febbraio del 1805 era morto il vescovo Mancinforte, lasciando fama di bontà e di pazienza in tempi difficili; e gli era successo, nominato dal governo del regno italico, il 15 aprile del 1806, Il canonico e teologo della metropolitana milanese Stefano Bonsignori, che fu confermato da Pio VII nel concistoro delle 18 settembre, ma non poté recarsi in Faenza prima del 10 marzo 1808. Aveva il Bonaparte, durante tali anni, sconfitta la terza coalizione europea, conchiuso il trattato di Presburgo, incorporata la Venezia, il Friuli e la Dalmazia nel regno italico, assegnato il regno di Napoli al fratello Giuseppe, l’Olanda al fratello Luigi; di più aveva constituita la confederazione del Regno, abbattendo il millenario Sacro Romano Impero, e contro la quarta coalizione avea riportate le vittorie di Auerstädt e di Iena, entrando trionfatore in Berlino (27 ottobre 1806).

1807

Quivi aveva proclamato il blocco continentale contro l’Inghilterra, proseguendo di poi nelle sue vittorie contro i Russi, fino alla pace di Tilsitt (7 luglio 1807). L’eco di così meravigliose gesta si ripercosse in Faenza con l’incaricamento dei generi coloniali a causa del blocco, con l’imposizione di nuove tasse e di nuovi prestiti allo Stato, come contribuzione alle spese di guerra (dazi, registro, imposte commerciali, privative dei sali e tabacchi, polvere da fuoco, carta bollata): onde il Comune, ridotto in tristissime condizioni, dovette vendere beni e magazzini e fondachi e stabili, e perfino le fosse della città e i torricciuoli delle mura. Il 21 dicembre 1807, poi, l’amministrazione degl’instituti pii, tolta (come abbiam visto) alla municipalità nel 1803, e data al ministro del culto, fu commessa ad un unica Congregazione di carità, presieduta dal conte Ludovico Laderchi, il quale fin dal 30 novembre di quell’anno era stato eletto potestà del Comune. In quel medesimo anno furono chiamati al Consiglio generale del dipartimento Dionigi Strocchi, Giovanni Fagnoli e Dionigi Zauli-[1808] Naldi.

1808

Lo Strocchi, poi, nel seguente anno 1808 ebbe anche l’ufficio di sottoprefetto della nostra città.
Su ‘l finire del luglio di tale anno passò da Faenza, diretto ad Ancona, e si fermò poche ore nel palazzo del conte Filippo Severoli (divenuto generale di divisione), il vicerè Eugenio; ed il potestà Laderchi gli presentò due suppliche: l’una chiedeva una guarnigione militare (concessa poi per decreto); l’altra il restauro della strada faentina e la sua prosecuzione fino ai confini toscani, affinché, profittando del Canal Naviglio Zanelli, fosse aperta la via al commercio dal porto di Livorno all’Adriatico.

1809-1810

Per tal modo pensava il Laderchi di provvedere allo spaccio de’ generi rimasti invenduti a causa del blocco continentale, ed al lavoro di molti operai: ma questa seconda impresa non fu possibile, essendo sviata dai pensieri della nuova guerra, mossa contro Napoleone, dopo le vittorie di lui nella Spagna e nel Portogallo, dalla quinta coalizione europea del 1809; la quale, sconfitta decisamente a Wagram, dovette acconciarsi alla pace di Schünbrunn (14 ottobre 1810). Napoleone, imbaldanzito e trascinato ognior più dalla sete d’imperio e di gloria, osò incorporare perfino Roma all’impero francese, imprigionando il riluttante pontefice, ed inaugurando una novella politica antieclesiastica, che gli fu indubbiamente fatale.

1811

Incameramenti di beni religiosi, ed esodo di frati, e sfratti di monache avvennero anche in Faenza (ma le suore di s. Magiorio, pagando al demanio un annuo fitto, conservarono abitazione secolare nel loro convento), mentre il viceré con decreto del 4 marzo 1811 donava al dipartimento l’ex-monastero di s. Chiara, ad uso di collegio per le fanciulle. Nel marzo del quale anno, avvenivano pubbliche feste per la nascita del re di Roma, e si faceva, abolitesi le sepolture nelle chiese, secondo le nuove leggi, la benedizione di un camposanto, scelto e constituito fuor della porta Ravenna.

1812

Nel 1812, infine, s’instituì il pubblico registro della popolazione della città e sobborghi, dal quale risultò che gli abitanti del comune ascendevano a 26249, dei quali 12975 maschi e 13274 femmine.
L’astro napoleonico si oscura, come ognun sa, in tale anno, con la sciagurata spedizione di Russia e con la ribellione della Spagna; ed il contraccolpo dell’immensa, micidiale guerra si ripercuote anche in Faenza, dove la municipalità fu costretta ad offrire uomini e cavalli, e bovi e granaglie e legumi e vino etc.; e nuove contribuzioni di migliaia e migliaia di scudi essa dovette fare al R. [1813] Tesoro e alla Cassa dipartimentale nel 1813, mentre, declinata la fortuna del Bonaparte, l’Europa si discuteva a vendicare le offese del despota, e le armi austriache invadevano nuovamente l’Italia settentrionale, per impedire la temuta unione del viceré Eugenio co ‘l re di Napoli Gioacchino Murat. Calati per la via dell’adriatico a Comacchio, gli Austriaci passarono in breve a Ravenna e poi a Forlì, dove entrarono, dopo un violento attacco contro le poche milizie italiche, il 26 dicembre del ’13; e gl’Italici, co ‘l prefetto del dipartimento Alessandro Frusconi, e guidati dal col. Armandi, ripararono a Bologna, passando per Faenza. Quivi il potestà Laderchi, più che gli Austriaci, temeva le minacciose bande degl’insorgenti e papaloni, pronte a rinnovare le loro gesta brigantesche; e perciò raccolse dinnanzi alla municipalità i sopracciò del paese, consigliandoli a non ribellarsi ai Tedeschi, ma a respingere invece i facinorosi. Se non che, quando gli Austriaci furono a Forlì, corse voce di segrete riunioni clericali nel borgo d’Urbecco, foriere di ribellione, e la sera del 26 decembre lo stesso commissario di polizia, nel ritornare in città con pochi uomini dalla parte del borgo, fu salutato da un nembo di archibugiate, che uccisero alcuni de’ suoi. La mattina dopo, 40 usseri entrarono in Faenza, accolti dalla municipalità con regali di tabacco e liquori; ed il loro comandante, confortando i magistrati a rimanere in ufficio e a raddoppiare di vigilanza contro i briganti, inviò un soldato de’ suoi alla porta del Ponte, ad inquorare con la sua presenza le guardie civiche che la custodivano. Ma i facinorosi, e fra questi un Vincenzo Savorani, barbiere, con bei modi si fecero amico il tedesco, e lo portarono in una taverna; poi assalirono il corpo di guardia civico, e ne sorse un tumulto, fatto anche più grave per il sopraggiungere d’un’altra banda di ribelli: onde alcuni cittadini furono uccisi, altri feriti, molti percorsi e fugati. Il palazzo pubblico fu abbandonato dai savi (municipalisti) tranne che dalla potestà Ladechi, dal conte Giuseppe Pasolini-Zanelli e da qualche impiegato; dinnanzi ai quali, i facinorosi tumultuosamente esposero querele e pretese, in nome della buona causa. Al che il potestà rispose con dignitose parole; e visto che il danaro avrebbe prodotto effetto migliore dei discorsi, distribuì una somma a costoro; ed essi, soddisfatti del dono e delle promesse, si offrirono di custodire il palazzo e i magistrati da ogni possibile offesa! Così asserviti i pubblici poteri, sovvertito ogni principio d’autorità, seppellivasi nel sangue a Faenza, il 27 dicembre del 1813, il regno di Napoleone.
A frenare, poi, più facilmente gli eccessi di quei ribelli, il potestà pensò di organizzare trenta in forma militare, con i loro gradi e con le paghe mensili, sotto la direzione di un capo a loro gradito, che fu Antonio Ferrucci. Ma giunse finalmente, agli ordini del cap. Salatz, un corpo austro-britannico, che seppe alla meglio contenere i briganti e comporre alcune controversie (ma dovette concedere, pro bono pacis, che si bruciassero nel cortile del palazzo Pasolini le liste ed i registri delle passate descrizioni militari); ed intanto in Ravenna il comandante supremo degl’invasori, gen. Nugent, instituiva una commissione superiore amministrativa, detta poi Reggenza italiana indipendente, ed in Forlì era stabilito un Consiglio di amministrazione dipartimentale, che dovea trasmettere gli ordini della Reggenza ai Comuni, e vegliare su la loro esecuzione.

1814

Non minori delle francesi furono le imposizioni austriache, e Faenza dall’8 gennaio al 10 febbraio 1814 dovette fornire viveri ed oggetti per la somma di più che 7000 scudi; se non che, per diminuire gli effetti morali di tali gravezze, la Reggenza aboliva dazio consumo alle porte della città, sostituendovi un balzello su ‘l macinato. E già stava il col. Gavenda, Comandante dell’avanguardia austriaca, per punire gli assassini del 27 dicembre, de’ quali era stata compilata la nota, quando nuove vicende distrassero gli animi e le menti.
Gioachino Murat, cedendo alle lusinghe dell’Inghilterra e dell’Austria, s’era stretto d’alleanza con esse e muoveva dalle Marche, con due colonne separate, l’una per la via di Toscana, l’altra per quella di Romagna, contro il viceré Eugenio; e così il primo febbraio 12000 Napolitani giungevano a Faenza, e il 7 febbraio il re di Napoli e il Nugent si dividevano la signoria de’ luoghi, toccando al Murat la Romagna, tranne Russi, Cervia, Ravenna, Cesenatico, Comacchio, Alfonsine, che restarono al generale austriaco: così la reggenza italiana indipendente cadde appena sorta, e le successe in Ravenna un governatore per il Nugent ed in Forlì un prefetto per il Murat (Ludovico Belmonti di Rimini). Divenuti per tal modo due i governi, non per questo tornò la tranquillità; chè nella notte 19-20 febbraio nuovi tumulti furono cagionati dalla famosa banda, capitanata da Antonio Ferrucci, la quale fu poi dispersa nel marzo dalle milizie napoletane. Dopo ciò, mentre eleggevasi a novello potestà Dionigi Zauli-Naldi (che colse, poi, la prima occasione per rinunziare alla difficile carica), il col. Cattaneo riordinava la guardia nazionale, raccogliendo una compagnia di arditi e scelti giovani, risoluti a respingere i fuoriusciti e a non a sopportare prepotenze nuove; ma anche questa compagnia ebbe la breve esistenza di un mese.
Il 15 aprile del ‘14 giungeva in Faenza, diretto a Forlì, e vi si tratteneva poche ore, ospite in casa Gessi, il papa Pio VII (liberato dal Bonaparte con decreto del 23 gennaio); e vi era ricevuto, con gran pompa di clero e con la scorta della guardia nazionale, dai faentini, entusiasti così da staccare i cavalli della carrozza papale, e trascinarla essi medesimi fino al duomo dove, sotto un ricco baldacchino, il pontefice accolse gli omaggi, e dètte la benedizione. Giunto, poi, a Cesena, il papa vi pubblico il 4 maggio un editto nel quale dichiarava di prender possesso di parte de’ suoi stati e ordinava la riorganizzazione del governo; e pochi giorni dopo (10 maggio) mons. Rivarola, Prelato genovese, che aveva preceduto il pontefice in qualità di delegato straordinario, con un altro editto aboliva i codici napoleonici e le riforme francesi, per modo che si tornò all’inquisizione, alla censura, alla polizia papale, in somma al Medio Evo.
Intanto le milizie del Nugent e quelle del Murat s’azzuffavano tra Parma e Piacenza con gl’Italici del gen. Grenier (ed il gen. Filippo Severoli, faentino, ferito ad una gamba, dovette abbandonare la sua divisione, la quale dinnanzi al rafforzarsi de’ Napolitani riparava a Piacenza); quand’ecco l’armistizio di Schiarino-Rizzino (16 aprile) tra il vicerè Eugenio e l’imperatore d’ Austria poneva fine alla guerra e al regno italico. Con rapido mutamento il Murat ritiravasi nel Napoletano, passando il 29 aprile per Faenza, la Romagna ricadeva sotto il governo provvisorio tedesco, con l’alta giurisdizione del gen. Ekhardt, governatore residente in Bologna. Questi, con editto del 22 luglio, annullava uffici e tribunali instituiti alla venuta degli Austro-britanni: il nome di prefettura mutavasi in quello di delegazione; prefetti e viceprefetti doveansi appellare, d’allora in poi, delegati e vicedelegati; ed in Forlì ebbe ufficio di delegato il faentino Camillo Bertoni. Una commissione governativa in Bologna teneva luogo di autorità superiore su gli uffici amministrativi dei tre dipartimenti del Reno, BassoPo e Rubicone. Ed il 4 ottobre si festeggiò in Faenza l’onomastico dell’imperatore d’Austria, con illuminazioni, funzioni religiose, elargizioni e dotti, e con un pranzo agli ufficiali austriaci, nel quale si brindò al potente sovrano, ed alla rigenerazione politica del dipartimento per opera di lui.

1815

All’entrare del 1815 una strepitosa notizia sbalordì l’Europa: Napoleone Bonaparte era fuggito dall’Elba, e il primo marzo co’ suoi fedeli aveva rimesso piede su ‘l suolo francese, marciando direttamente su Parigi. Gioacchino Murat, temendo ormai e del Bonaparte e della coalizione europea, pensò allora di farsi campione dell’indipendenza italiana, e trovare in essa quella base che si sentiva venir meno sotto i piedi. Dichiarata guerra all’Austria s’avanzò, adunque, con circa 40000 uomini verso l’alta Italia, e da Rimini il 30 marzo pubblicò il celebre proclama che eccitava gl’Italiani ad unirsi con lui per la conquista della libertà. Quando a Faenza si seppe della sua marcia, i liberali ripresero animo, ed il marchese Guido Corelli e Domenico Zama, Accendendo molti giovani al sogno della patria indipendenza, Posero in atto l’ardito pensiero di gettarsi primi dalla parte del Murat, e andarono ad Ancona per intendersi con lui. Ma il re di Napoli, diffidente, sembra non volesse accordare al Corelli nè le chieste cariche, nè i desiderati compensi. Fatto è che i Tedeschi parvero fuggire dinnanzi al turbine che si avanzava, Ritirandosi verso Bologna, ed i Napoletani entrarono in Faenza. Quivi (mentre Giuseppe Foschini e Ferdinando Pasolini raccoglievano danari per la “ santa causa “, e una deputazione cittadina, di cui fece parte Giacomo Laderchi, recava congratulazioni ed omaggi al Murat), il potestà chiamata il 3 aprile i cittadini ad arruolarsi nella guardia nazionale, di cui fu eletto colonnello il conte Giuseppe Rondinini. Gli eccitatori del movimento patriottico chiesero all’eloquenza del viceprefetto cav. Dionigi Strocchi un proclama, ed all’estro poetico del conte Giovanni Gucci un inno. Chiamando alle armi la gioventù lo Strocchi conchiudeva: “ confidate nella giustizia della causa, confidate nella virtù del Magnanimo, a cui fin d’ora è promesso il glorioso e sacrosanto nome di liberatore e fondatore della nazione italiana “; e tre giorni di poi, o sia il 6 aprile, teneva un ardito discorso alla guardia civica (cfr. BELTRANI, 43), mentre cantavasi ovunque linno del Gucci, messo in musica da Alberico Alberghi:

“ Or che un altro condottiero
segna a te l’ora opportuna,
sorgi, italica fortuna,
alla gloria, alla virtù! “

Ma i proclami non sortirono l’effetto voluto, chè appena 500 uomini in tutto corsero sotto le insegne di Gioacchino Murat, Il quale intanto nominata prefetto del dipartimento il potestà di Faenza Francesco Ginnasi, sostituendogli a capo del Comune il Rondini. Respinse, poi, il re di Napoli su ‘l Panaro, il 4 aprile, un corpo di Austriaci; ma questi, avuti rinforzi, ripresero l’offensiva e lo costrinsero a ritirarsi. Il 15 aprile il Murat entrata in Faenza, ospite nel palazzo Mazzolani, ancor fiducioso di riordinare i suoi e di condurre a buon fine la guerra; ma le speranze e gli ardori furono vani, e tramutaronsi tosto in generale spavento, quando, ingrossati gli Austriaci e caduta rapidamente la fortuna del Murat, questi fu respinto fino a Tolentino, dove il 3 maggio fu sconfitto. Da Faenza quelli che più avevano avuto mano in quella faccenda murattiana fuggirono in luogo sicuro, e tra gli altri lo Strocchi, che riparò nella repubblica di s. Marino. Ma quivi una bella notte fu egli arrestato da un manipolo di Tedeschi, e poi condotto a Bologna, dove fu sostenuto prigione per cento giorni, e liberato quando, conchiuso il congresso di Vienna (9 giugno), lo stato romano ritornò sotto la signoria del pontefice. Fuggirono anche, e si nascosero, il Laderchi, che il Murat aveva destinato alla prefettura della pineta ravennate, e Francesco Ginnasi, prefetto del dipartimento, al quale successero in Forlì, co ‘l titolo di delegato, prima Camillo Bertoni e poi il marchese Luigi paolucci de’ Calboli.
Ritiratasi verso Forlì la retroguardia napoletana dinnanzi all’avanguardia austriaca comandata dal gen. Neipperg, dopo piccola zuffa, il Neipperg seppe in Faenza mantenere l’ordine, mentre teneva l’ufficio di podestà per pochi giorni il conte Tommaso Gessi, cui succedette Nicola Pasolini. Il Gessi, il quale nei trambusti precedenti avea sembrato tenerla un po’ per tutti, per i liberali, per gli austro-papali, per l’indipendenza italiana, si mostrò ora nobilmente risoluto, lacerando la lista dei Murattiniani, compilata da’ retrivi a scopo di vendetta; ma il nuovo governo austriaco, rappresentato dal gen. Stefanini, capo delle tre legazioni (Ferrara, Forlì e Bologna), volle ugualmente far sentire il suo peso intollerabile, imponendo contribuzioni di migliaia di lire ai più facoltosi cittadini.
La nuova invasione del Murat avea consigliato Pio VII a ritirarsi in Piemonte; or la sconfitta di costui determinò il secondo ingresso del papa in Roma, donde un editto, firmato dal nuovo segretario di stato, card. Consalvi, annunziata il 5 luglio la restituzione della Romagna al pontefice. Il giorno 16, infatti, Pio VII riprendeva, in esecuzione del trattato di Vienna, il dominio temporale delle tre legazioni, delle quali ricevettero in Bologna dal gen. Stefanini la consegna i prelati Pacca, legato di Romagna, firmata in Forlì il 18 luglio uno proclama che prometteva miglioramenti e riforme, e minacciava i perturbatori della pace pubblica. Ciò produsse allegrezza in Faenza, dove s’incoronò di fiori e di spiche lo stemma del papa, e tra le feste, le illuminazioni, le funzioni religiose (20-21 luglio) si portarono in trionfo le simboliche chiavi di s. Pietro, sur un carro sostenuto da angioli. Troppi salmi e troppa gloria: la città era sfinita, stanca, in tristissime condizioni finanziarie; per i soli austriaci dal 27 decembre del ’13 al 18 luglio del ‘15 le spese erano salite a scudi 33541, e la scorreria napolitana avea costato scudi 14019; ed ora ripiombavasi sotto la più turbe delle servitù. Il 20 luglio 1815 i soldati del papa rientrarono trionfalmente in Faenza, donde erano usciti il 2 febbraio 1797.

 

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