sabato, Luglio 27, 2024
Faenza nella storia - I capitoli

Faenza nella Storia _ Cap. 3.2 Il diretto governo papale fino al trattato di Chateau Cambrésis (1510-1559)

Cap 3.2. Il diretto governo papale fino al trattato di Chataau-Cambrésis (1510-1559)

Col nuovo governo spadroneggiarono dapprima in Faenza, naturalmente, i Compagnazzi, e sopra tutti Pietro Cenni degl’Indovini, detto comunemente Pirazzino, che era molto amico del legato, e che fu dal papacreato cavaliere dagli speroni d’oro. Riferisce il cronista Zuccoli che cotesto Pirazzino giunse a tanto di audacia da ordinare che il 30 maggio, giorno della processione del Corpus Domini, fossero sorprese e tagliate a pezzi alcune famiglie del partito avverso e da lui odiate, quali i Viarani, gli Zuccoli, i Cavina, i Torelli, etc. Ma non potè poi tradurre in atto il malvagio pensiero, perchè giunto troppo presto in piazza per la radunanza delle persone che aspettava, se ne andò al nuovo mulino dato a lui dei beni dei Manfredi, e mentre ne osservava le macchine, gli fallì un piede per la rottura d’un asse, e cadde nell’acqua fangosa, e miseramente affogò. Fu assai rimpianto dal cardinal legato, ma la sua degnissima fine sollevò la città da un’oppressione obbrobriosa.
In quel medesimo anno (decembre) moriva a Treviso il celebre capitano Dionigi Naldi che, passato dal soldo del Valentino ai servigi della repubblica veneta, ebbe da questa la tomba nella chiesa di s. Giovanni e Paolo, presso quella dell’illustra condottiero Nicola Orsini, conte di Pitigliano. Di lui ricorda le gesta anche una lapide nella chiesa dei Minori Osservanti di Brisighella, sua patria.
Aveva frattanto papa Giulio II prosciolto nel febbraio i Veneziani dall’interdetto, or che era stato da lui raccolto il frutto della lega stretta a Cambrai; e s’era volto, invece, contro i Francesi, i “barbari” che intendeva cacciare d’Italia, propiziandosi il re di Spagna, con l’investitura di Napoli, ed Enrico VIII d’Inghilterra, e muovendo contro il duca di Ferrara, proprio vassallo, il quale conservavasi tuttora nell’alleanza francese. In breve le armi pontificie, guidate dal duca d’Urbino, invasero i domini emiliani e romagnoli dell’Estense; Ferrara fu salva per il pronto accorrere dei Francesi; corse pericolo, anzi, Giulio II medesimo di perder Bologna (dove sulla fine del settembre 1510 si era recato, passando per Faenza).

1511

Tornati i Francesi nei loro quartieri d’inverno, di nuovo si rivolse Giulio contro gli Este, e di sacerdote divenuto fiero soldato, attaccò e prese la Mirandola, nel gennaio 1511. L’avvicinarsi, poi del fortissimo esercito francese verso Bologna, obbligò il pontefice a ritirarsi in Ravenna, donde il 22 maggio con suo breve concesse ai Faentini ciò che era stato loro ardente e vano voto finora, ossia il possesso dei beni, castelli e mulini manfrediani, indegnamente tolti da Compagnazzi, eccetto Solarolo. Ma anche ques’ultimo, che con gli annessi mulini e terreni il card. Alidosi s’era appropriato, fu di lì a pochi giorni restituito al Comune di Faenza, del quale il papa accolse anche la domanda su l’estrazione del sale, revocando la concessione fatta agli abitanti della Val d’Amone, dannosa alla città. Gli spodestati Compagnazzi tentarono poi d’impadronirsi con la forza de’ già maturi raccolti dei poderi di Madrara, ma furono tenuti a freno da un Carlino Naldi, che a capo di milizie ne condusse prigioni parecchi, tra cui Carlo Mengazzi.
L’esercito francese, intanto, produceva in Bologna un’insurrezione, sì che il legato Alidosi ne fu scacciato, e vi furono rimessi in signoria i Bentivoglio. Del che fu effetto la precipitosa ritirata del duca d’Urbino, il quale, ardendo di collera per questo scorno, e accusando di tradimento l’Alidosi, incontrato quest’ultimo il 24 maggio in Ravenna, mentre si recava dal papa, lo uccise a colpi di pugnale. Giulio II, addoloratissimo e sdegnato, se ne tornò a Roma, dopo avere eletto legato di Romagna il card. Pietro Isvales, arcivescovo di Reggio Calabria. Tanto più, poi, il papa accostatosi a Venezia, vagheggiò una confederazione generale contro la Francia e strinse il 5 ottobre 1511 la lega santa con Venezia e con la Spagna, alla quale aderirono più tardi anche l’Inghilterra e l’imperatore Massimiliano; dopo di che nominò suo legato ad complendum nella provincia di Romagna il card. Giovanni de’ medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, affidandogli il compito di ricuperare Bologna, Ferrara ed altri luoghi della s. Sede. Il nuovo legato si diè a fare preparativi guerreschi, conducendosi da Rimini a Faenza e poi ad Imola, e preparando l’assalto alle terre dell’Estense in Romagna, le quali tutte si arresero al capitano spagnolo Pietro Navarro.

1512

S’iniziò e si svolse così quella grandiosa guerra, che dal novello assedio dei pontificii a Bologna e dalla caduta di Brescia nelle mani dei Veneziani, condusse fino all’epica battaglia di Ravenna (11 aprile 1512), nella quale l’esercito della lega santa fu terribilmente sconfitto (e tra i prigionieri fuvvi lo stesso legato pontificio Giovanni de’ Medici); ma i vincitori Francesi ebbero la somma sventura di perdere il loro geniale e giovane condottiero supremo, Gastone di Foix. Al dire del Muratori (Annali d’Italia), per il terrore delle armi francesi si arresero ad esse senz’altro Faenza, Cervia, Cesena, Rimini e Forlì; secondo il Guicciardini (Storia d’Italia, IV, 242), cedettero Imola, Forlì, Cesena e Rimini, le quali, per isfuggire al sacco (cui era sottoposta la misera Ravenna), si sarebbero composte co’l vincitore, pagando tosto una buona somma di danaro (Tonduzzi, p. 600); e sebbene non si abbiano per ora autorevoli prove che Faenza facesse altrettanto, tutto ad ogni modo c’induce a crederlo. In tale occasione i Faentini, colti da grande timore, elessero a loro protettore i quattro santi Savino, Emiliano, Pier Damiano e Terenzio, obbligandosi a celebrarne le feste; del che è ricordo in una marmorea iscrizione sulla porta della sacristia, nella cattedrale.
Ma la morte del Foix rese vana la grande vittoria di Ravenna; il nuovo generale francese La Palice fu costretto a ripiegare sulla Lombardia, minacciata ora dai Veneziani e dagli Svizzeri, onde il papa riebbe le città romagnole ben presto e la stessa Bologna, abbandonata dai Bentivoglio. Quivi ritornò il cardinale legato Giovanni de’ Medici, liberato dalla prigionia; ed il congresso di Mantova riordinò, come tutti sanno, le sorti d’Italia, a voglia dei confederati della lega santa.

1513

Dopo di ciò il fiero Giulio II, che era riuscito a far del papato il centro di gravità dell’Italia, moriva il 20 febbraio 1513, e succedevagli il card. Giovanni de’ Medici a soli 37 anni, col nome di Leone X. Faenza chiese ed ottenne dal novello papa la rafferma delle concessioni fatte da Giulio II; inoltre, querelatosi l’orator faentino con il card. Camarlengo, Raffaele Riario, dei soprusi che il bargello della provincia faceva nei castelli di Russi e di Solarolo, ottenne che fosse concesso al governatore di Faenza (il quale era, in quel tempo, un Paolo Manfredi da Reggio) di vegliare affinchè quei terrazzani non soffrissero ingiusti aggravi.

1514

Ma ben presto Solarolo dovea esser sottratto alla giurisdizione faentina; chè con suo breve dell’anno 1514 il pontefice ordinò agli anziani di consegnare al tesoriere della provincia quel castello, nel quale era vicario Giacomo Azzurrini. D’altro canto concesse Leone X a Faenza che dal censo dei 1000 ducati, dovuti alla Chiesa, ritenesse il Comune 100 ducati per pagare la quota di stipendio al bargello della provincia.; concesse, inoltre, un assegno di 100 ducati d’oro per i restauri della rovinante chiesa di s. Maria foris portam, ed un alleggerimento nella tassa così detta “dei 150 cavalli” che la città dovea pagare.

1515

La discesa in Italia del novello re francese Francesco I, e il conseguente riacquisto del ducato di Milano (nella battaglia di Marignano, avvenuta il 13-14 settembre 1515, molto si distinsero un Babone Naldi, condottiero dei fanti veneti alleati di Francia, ed il faentino Andrea Manfredi, soldato del Naldi stesso) indussero lo scaltro Leone X a quell’accordo con il vincitore, che gli assicurò il dominio mediceo in Firenze e libertà d’azione in Romagna.

1516

Nel seguente anno 1516 il papa, profittando dei rivolgimenti politici, s’apparecchiava a guerreggiare contro il duca d’Urbino Francesco Maria Della Rovere, per spodestarlo e sostituirgli il proprio nipote Lorenzo, il vicelegato Lorenzo Fieschi, vescovo di Monreale, scrisse agli Anziani di Faenza che mandassero a Rimini due oratori, per trattar cose di utilità della provincia; e gli oratori furono il dott. Marc’Antonio Barbavari e Giovanni Castellani (10 maggio). Nell’impresa contro il Della Rovere furono, adunque, raccolte le milizie pontificie dalle varie città e luoghi del dominio, toccando alla Romagna l’obbligo di fornire 1200 cavalli e molti fanti; al mantenimento dei quali dovette ogni concorrere; e Faenza fu tassata anche per la Valle d’Amone.

1517

Quando poi lo scacciato Della Rovere tentò nel 1517 il riacquisto del perduto dominio, 4000 veneti da lui assoldati, nel passare su ‘l faentino, sorpresero e saccheggiarono Granarolo; avvicinatisi, anzi, e Faenza, avendo con esso loro un giovane della famiglia Manfredi (ma non sappiamo chi egli fosse) procurarono con le acclamazioni di risvegliare nella città l’amore per gli antichi signori: ma la città era ormai tranquillata e ferma nella servitù papale, né menomamente rispose a quei tentativi; si che di essa nessuna notizia politica importante registra la storia in questi anni, nei quali si ha soltanto il ricordo del governatore Andrea Cruciani, che durò in tale ufficio dal 1518 al 1521.

1521

Aveva Leona X in quel tempo assoldati e condotti nel dominio della Chiesa 6000 svizzeri, fatti passare attraverso il ducato di Milano per favore di re Francesco I, co’ l quale era d’accordo; ma ben presto il pontefice, destreggiandosi abilmente tra il re di Francia e il novello Imperatore Carlo V, fu pronto ad allearsi con quest’ultimo, contro l’amico di ieri (trattato dell’8 maggio 1521). Dei 6000 svizzeri sparsi nelle città di Romagna e della Marca, 2000 stanziarono in Faenza; dove, per una questione fra uno di essi ed un oste, dalle parole si passò ai fatti, e il popolo infuriato si sollevò ricorrendo ad ogni mezzo di difesa e di offesa contro lo straniero (tegole, sassi, acqua bollente), finchè per gli uffici dei magistrati cittadini e dei capitani di quelle milizie, si venne alla pace, ed il presidio pontificio ebbe libera e sicura la partenza da porta del Ponte. In quel tumulto. Come scrissero cronisti sincroni, il capitano Balasso Naldi avrebbe perduta sicuramente la vita per opera delle milizie straniere, se non l’avesse salvato un Battistone Zuccolo, «non ignobille uomo d’arme», sebbene a Balasso contrario di fazione e nemico; e per la lieta fine di quella terribile sommossa, avvenuta il giorno di s. Giovanni Battista (24 giugno), furono per decreto stabilite processioni alla chiesa dedicata a quel santo.
Il primo decembre di quello stesso anno moriva quasi improvvisamente papa Leone X, dopo aver per breve tempo assaporata la gioia del riacquisto di Parma e Piacenza alla s. Sede, e del ritorno di Milano e di quasi tutta la Lombardia dalle armi francesi nel dominio degli Sforza. In Faenza, sparsasi cotal notizia, prima ancora che giungessero le lettere ufficiali del collegio cardinalizio ai magistrati, si radunò il Consiglio generale, per provvedere a quella specie di governo straordinario da cui le città pontificie solevano essere rette durante le sedi vacanti, ossia in quel periodo che correva tra la morte di un papa e l’elezione del successore. Si nominarono adunque sedici deputati, quattro per quartiere, i quali con gli Anziani in carica e con monsignor governatore, il cavaliere e dottore Niccolò Briotti, avessero piena autorità di provvedere alla conservazione della città alla Chiesa, ed alla pace e quiete di essa; giacchè non era improbabile che, profittando dello stato d’incertezza e confusione, in cui i poteri dello stato venivano a trovarsi per la morte del sovrano, facinorosi o banditi tentassero qualche novità. Furono proibite le armi, le risse, le questioni sotto gravi pene; fu prescritto al governatore di far tagliare o impedire tutte le strade che dalla parte di Lugo e Bagnacavallo menavano a Faenza, con l’aprirvi larghi e profondi fossi, co’l rompere i ponti, co’ l vietare il transito di barche ai passi dei fiumi, etc. etc.; e questo, al dir del Tonduzzi, per ordine del preside o rettore della provincia.

1522

Il 9 gennaio 1522 venne eletto a novello pontefice Adriano Florent, che assunse il nome di Adriano VI; ma poiché si trovava egli in Fiandra, e la sua venuta, per la distanza de’ luoghi, dovea essere necessariamente tarda, i cardinali si divisero tra loro il governo dello stato, e Faenza e la Val d’Amone toccarono a Bernardino Caravaial, spagnuolo, cardinale dal titolo di s. Croce in Gerusalemme, il quale mandò in sua vece, come governatore della città, monsignor Zaccaria Ferrerio, e come castellano della rocca il card. Egidio da Viterbo. Il Ferrerio inviò sui primi di marzo il suo auditore Pietro Paolo Vittori a prender possesso dell’ufficio, ma l’antico governatore Briotti non gli cedette il luogo, se non dopo minaccia di prigionia.
Frattanto l’ardire dei Bentivoglio levavasi a tentar di riprendere il dominio di Bolgona e i Malatesti facilmente rientravano in Rimini; onde i cardinali si affrettarono ad ammonire i Faentini che stessero saldi nell’obbedienza.

1523

Ed i faentini inviarono, poi, al papa Adriano in Roma il loro omaggio, per mezzo degli ambasciatori Origene Salecchi, Niccolò Cenni, Andrea Severoli e Pier Niccola Castellani, non solo, ma anche aiutarono con 500 fanti e con 1500 libbre di pane al giorno, all’entrare del 1523, la nuova impresa papale che ritolse Rimini ai Malatesti.
Al predetto anno sembra certo spettare la novella instituzione dei Cento Pacifici, i quali erano una compagnia di zelanti cittadini che, a garanzia della pace e a difesa contro gl’insulti di fuori e contro le sedizioni interne, prevenisse, e sedasse con le armi, i tumulti, le lotte, le guerre private e le rappresaglie, in quei tempi, nei quali il disordinato governo papale e le misere condizioni civili accrescevano le inimicizie e i malcontenti. Furono, insomma, i Cento Pacifici una magistratura, ufficialmente riconosciuta e sussidiata dal Comune, per la tutela della sicurezza e della quiete pubblica; ed ebbero aiuto di armati (in numero di 300), e 200 aderenti popolari, e privilegi ed annue rendite; e dopo la conferma ottenuta da papa Adriano, presero stanza nel pubblico palazzo, A loro dovette la città la sua pace ed il comporsi di molti dissidi fra le parti anticamente avverse, mentre invece in Ravenna persistevano le lotte tra i Rasponi e i Lunardi, in Forlì tra i Numai e i Morattini, in Imola tra i Sassatelli e i Vaini.
Narra il Tonduzzi che Faenza, trovandosi ora sotto il dominio immediato della Chiesa, ritenne necessario modificare il proprio reggimento e «confermarlo totalmente all’uso ecclesiastico». Furono perciò eletti nel 1523 a compilare nuovi statuti (la città si era retta finora con gli statuti antichi, riformati fin dall’anno 1410) i dottori di legge Pietro Gentile Laderchi, Gabriele Calderoni, Andrea Severoli e Vincenzo Tonduzzi, insieme con i notai ser Bartolomeo Torelli e ser Nicola Viarani, e l’opera loro, compiuta, fu approvata dal Consiglio generale del 26 decembre. I nuovi statuti si divisero in sette libri e contennero le leggi su l’ordinamento amministrativo, su i beni del Comune, su la procedura nei giudizi, successioni, eredità, su i maleficii (codice penale), su’ l «danno dato», gli estimi, pesi e misure, arti, cose strardinarie, etc. etc. Da essi ricaveremo qui soltanto alcune sommarie notizie su l’ordinamento amministrativo della città.
Il Consiglio generale dei 100 Sapienti (25 per quartiere), continua ad esistere, ma è divenuto un’assemblea patriarcale, che forma una specie di nobiltà, detta appunto di Consiglio, e che non deriva affatto da elezioni, ma è permanente, a vita, e provvede da sé stessa alle eventuali vacanze dei propri seggi, nominando a scrutinio secreto i successori dei consiglieri defunti. Quarantotto consiglieri scelti fra questi cento (dodici per quartiere) constituiscono l’elenco degli Anziani; i quali, ripartiti in sei mute di otto membri ciascuna (due per quartiere) e presieduti da un priore (estratto da una borsa speciale contenente i nomi di sei consiglieri «persone graduate», ossia dottori, cavalieri, capitani, intitolati al Priorato) assumono a turno il magistrato ordinario della città di bimestre in bimestre, risiedendo nel pubblico palagio e disbrigando gli affari correnti dell’amministrazione. Alla fine di ogni bimestre si estrae dagli otto Anziani in carica, e in presenza del governatore della città, la muta del bimestre seguente, i componenti della quale giurano nelle mani del detto governatore.
Il Consiglio generale elegge il potestà o pretore, il quale deve essere forestiero, dura in carica sei mesi, è il capo di tutta l’amministrazione della giustizia, ed ha giurisdizione ordinaria in qualunque causa civile, criminale e mista. Egli deve giurare di fare eseguire prima di tutto le sentenze pronunziate dagl’inquisitori della Chiesa contro gli eretici, ed è obbligato a tenere seco un milite socio, un notato e quattro berrovieri. Il 24 giugno e il 21 decembre di ogni anno, inoltre, il Consiglio generale procede, presente il governatore all’estrazione ed assegnazione di quegli offici del Comune che debbono durare sei mesi, tra i quali i due giudici del Banco del Bue e del Cavallo (che han giurisdizione ordinaria nelle cause civili e nei contratti dei minorenni e delle vedove), un avvocato del Comune e dei poveri, un sindico del Comune, tre notari del tribunale del potestà, due notari del tribunale del Banco del Re, o del «danno dato» etc. Parimenti nel mese di decembre, il Consiglio generale procede all’estrazione ed assegnazione di altri uffici della durata d’un anno, tra cui un giudice delle applicazioni (dottor di legge), tre notari al tribunale di lui, tre officiali di custodia o Guardia, il potestà di Russi, i vicari di Oriolo e Granarolo etc. etc.
Nello stesso giorno il Consiglio elegge a maggioranza di voti un depositario o cassiere del Comune, un massaro ed un notaro del Monte di Pietà, un fattore parimenti del Comune e gli officiali delle gabelle, del peso pubblico, il vicario del castello di Solarolo (il che significa che esso castello era tornato sotto la faentina giurisdizione), i custodi delle porte della città, dei castelli di Russi, di Solarolo, Granarolo, etc.
Ma su tutta l’amministrazione e su tutta la vita del Comune, è evidente che pesa e s’impone l’autorità politica del governatore, il quale provvede alla polizia, per mezzo d’un capitano bargello, che ha ai suoi ordini una squadra di sbirri, e dipende direttamente dai cardinali legati o dai presidi della provincia.
Gli statuti suddetti furono poi dati alle stampe nel 1527 in Faenza, nell’officina del cremonese Giovanni Maria Simonetti, il quale aveva introdotta l’arte tipografica in Faenza da circa quattro anni.

1524

Frattanto era morto, dopo aver aderito alla lega con l’imperatore Carlo V contro il re di Francia Francesco I, l’austero papa Adriano VI (14 settembre 1523); ed al novello pontefice Clemente VII (Giulio de’ Medici), eletto il 18 novembre Faenza mandò il consueto ossequio per mezzo degli oratori Origene Salecchi, filosofo e medico, Niccolò Cenni, Andrea Severoli e Pier Gentile Laderchi, giureconsulti, i quali ritornarono con la conferma dei favori concessi dai papi precedenti alla città, recandone il relativo breve in data 5 gennaio 1524.

1525

Con breve apostolico, poi, del 6 aprile dello stesso anno veniva eletto preside della provincia l’illustre storico Francesco Guicciardini; e riferisce il Tonduzzi che, venuto il Guicciardini a Faenza nel principio del 1525, per rimanervi quasi tutto l’anno, vi fu ricevuto a grande onore e regalato di rinfreschi e doni: e da lui e dagli Anziani di Faenza ottennero i terrazzani di Russi la soddisfazione di certe loro istanze.
Era in questo tempo calato nuovamente in Italia con un poderoso esercito il re Francesco I, ed aveva occupato Milano, mentre il papa novello, dando prova della sua vacillante condotta, staccavasi dalla lega imperiale, e aderiva alla parte francese; ma il 24 febbraio del 1525 Francesco subiva la disastrosa sconfitta di Pavia, per la quale Carlo V diveniva arbitro delle sorti d’Italia.

1526

Secondo il Tonduzzi, essendo nel ’26 il Guicciardini impiegato negli affari di guerra di Lombardia, se n’era partito da Faenza, lasciandovi, come vice presidente di Romagna, il fratello suo Giacomo, mentre in quel medesimo anno era governatore della città Francesco Bracciolini da Pistoia, il quale fece utili provvedimenti, e tra gli altri quello del proibire la esagerata pompa delle vesti muliebri.
Si svolgevano intanto quei gravi avvenimenti europei ed italici che si riassumono nel trattato di Madrid (co’ l quale Francesco I rinunziava in favore di Carlo V alla Borgogna, al reame di Napoli, al ducato di Milano, a Genova ed Asti): nella lega di Cognac tra il re di Francia, il papa, Venezia, Firenze e lo spodestato Sforza di Milano: e nell’orribile sacco di Roma del 1527.

1527

Tre grossi eserciti passarono, in quegli anni dolorosi, per il territorio di Faenza. Il primo fu quello della lega franco-papale (era commissario del campo Francesco Guicciardini), che avrebbe dovuto constrastare il passo ai Lanzichenecchi e saccomanni, guidati dal Frundsberg prima e dal conestabile di Borbone poi, e che, al dir dello Zuccoli, amava gli agi e i comodi, e pretendeva alloggiare nella città; ma i Faentini non vollero a niun patto che entrasse in Faenza, usando perfino gravi minacce contro il vicepresidente Giacomo Guicciardini, che avrebbe voluto aprir le porte al fratello. Il secondo esercito fu quello del conestabile di Borbone, che, giunto su ‘l faentino, prese e saccheggiò Brisighella, ma, non accolto in Faenza, piegò verso la pianura di Prada, ebbe in sua mano Cotignola, Meldola e Russi (aprile), e poi per la via di Toscana si avviò minaccioso su Roma.

1528

Il terzo esercito, infine, fu quello del generale francese Lautrec, mandato in Italia per liberare essa ed il papa dai Tedeschi e dagli Spagnuoli, il quale giunse il 9 gennaio 1528 a Faenza, e passò al di fuori delle mura, mentre il Lautrec stesso con alcuni suoi capitani era ricevuto in città.
Gli effetti di questi avvenimenti furono di somma importanza. Venezia riprese Cervia e Ravenna, Alfonso d’Este marciò su Modena, Reggio, Gismondo Malatesti entrò in Rimini, Firenze cacciò i nipoti del papa Medici e ristabilì la libera repubblica (16 maggio 1527); e su i luoghi infelici che avevano sofferto il flagello della guerra infierirono carestia e pestilenza. Così lo Zuccoli narra che, dopo la partita del Lautrec, «s’ammalò la città di febbriconi orribili, nei quali gl’infermi, cresciuti di forze e diminuiti di cervello, facevano pazzie grandissime. Durò quest’infermità per tutto maggio del ’28, e ne morivano centinaia; da maggio in là si mutò in peste, la quale, con mortalità del quarto delle persone, tenne la terra da cinque anni in gran miseria et calamità». Tra le vittime vi fu il vescovo della città Iacopo o Giacomo Pasi, illustre personaggio che era stato gran parte della cosa pubblica prima di esser vescovo. Dalla natura, anzi, degli uffici da lui sostenuti, dallo scorgerlo soltanto chiamato «eximium legum doctor», dal recare lo Zuccoli nella sua cronica che il pontefice «volse onorare la città con dare il vescovado ad uno de’ suoi ambasciatori [ambasceria del 1510], e perchè tra questi solo messer Giacomo Pasi era senza moglie, lo diede ad esso», argomenta giustamente il Valgimigli che il Pasi, al momento della sua elezione, dovea trovarsi in istato laicale. E l’indugio, infatti, da lui frapposto ad entrare in possesso della chiesa, è probabilmente da ascriversi al tempo che, giusta i canoni, il Pasi (il quale fu, dunque un Iacopo o Giacomo IV) dovette impiegare per conseguire la dignità sacerdotale. Intervenne egli al quinto Concilio lateranense del 1512, ritornandone a Faenza insignito della carica di referendario dell’una e dell’altra segnatura, e poi fu mandato preside nella Marca a sedarvi alcune turbolenze. Morì il 19 luglio 1528, e fu sepolto nella chiesa dei Servi, dove gli fu innalzato quel magnifico monumento (opera dell’insigne scultore faentino Pietro Barilotti) che oggi trovasi trasferito nel cimitero di Faenza, e del quale diremo a suo tempo. A succedere al Pasi fu eletto dal Pontefice Pietro Andrea Gambari, da Casal Fiumanese presso Bologna., già vicario del cardinale Giulio de’ Medici quand’era arcivescovo di Firenze, e cappellano e famigliare di Leone X, e uditore della romana Rota. Se non che, mentre da Roma s’incamminava a Faenza, veniva costui in Fano colto da grave malattia, morendovi nel settembre; onde il 13 novembre fu elevato alla cattedra vescovile faentina Rodolfo Pio, dell’illustre famiglia dei Pii, signori di Carpi, filosofo e teologo, cavaliere gerosolimitano, etc; il qual Rodolfo restò sempre lontano da Faenza, adoperato dalla s. Sede in rilevanti negozii politici; e per ciò la diocesi fu amministrata da vicari di lui.

1529

Intanto papa e imperatore univansi in funesto accordo (20 giugno 1529) co’ l trattato di Barcellona; e dopo che si furono abboccati nel novembre in Bologna (e per andarvi il Pontefice passò il 22 ottobre da Faenza, e fu ospite, nella Commenda del Borgo d’Urbecco, del cavaliere gerosolimitano, suo amicissimo, frà Sabba da Castiglione, di cui diremo più innanzi).

1530

Rinnovossi la potestà dell’Impero e rinacque il Cesarismo con la solenne incoronazione di Carlo V, per opera del papa, in s. Petronio (22-24 febbraio 1530). Poi le milizie imperiali si accinsero, secondo i patti dell’accordo, a fiaccare Firenze, ribelle ai Medici ed al papa; e quella gloriosa repubblica resistette dieci mesi, ma dovette piegare poi il capo all’obbriobrioso principato mediceo del duca Alessandro.

1531

Tornando da quell’impresa, le milizie imperiali passarono il 18 giugno 1531 presso il ponte di s. Procolo, ed il municipio faentino fu largo ed esse di vettovaglie e di tutto che abbisognassero. Il 5 decembre, poi, dell’anno seguente, ripassò da Faenza, con nobile corteggio di cardinali, il papa Clemente VII, per condursi a Bologna ad un nuovo colloquio con l’imperatore, nel quale dovea stabilirsi una lega italiana che assicurasse il ducato di Milano dagli assalti francesi.

1533

Costituitasi tal lega il 24 febbraio 1533, il pontefice se ne tornò a Roma, e di nuovo sostando a Faenza, concesse alle preghiere del magistrato faentino un sussidio di 1200 scudi d’oro per il restauro delle mura, in parte diroccate e rovinate; ma di ben altro la città avea bisogno, se è vero che il Comune dovette in quell’anno provvedere alla scarsità del frumento, con la vendita di una possessione posta nella pieve di Cesato.

1534

Clemente VII morì il 25 settembre del 1534 e gli successe Paolo III (Farnese), al quale una deputazione di oratori faentini (Niccolò Cenni, Andrea Bernardoni, Giovan Battista Marzari) recò i consueti omaggi della città, riportandone un breve pontificio di così dette concessioni a favore di essa. In quello stesso anno, al dir del Tonduzzi, nella seduta del Consiglio generale del 28 aprile, fu stabilito che, non ostante la disposizione degli Statuti, non più solamente 48 consiglieri dovessero formare l’elenco generale degli Anziani, sì bene tutti coloro che erano del Consiglio stesso fossero imborsati per essere a suo luogo estratti ad esercitare l’ufficio; donde derivò che le mute degli Anziani divennero 12, pur continuandosi ed estrarne una per ciascun bimestre. Più tardi, e precisamente nel 1561, sempre secondo il Tonduzzi, anche il numero dei Priori fu portato a dodici, affinchè «ciascuna muta avesse il proprio capo Priore».
Il popolo, intanto che viveva nell’ignoranza e nella superstizione, trovava soddisfacimento in singolari usanze, come quella, ad esempio, del recare in processione nel terzo giorno delle rogazioni l’effigie di un drago mostruoso sulla via di s. Lucia delle Spianate fino ad una croce di marmo, detta croce del drago, donde un sacerdote gettava tale effigie alla moltitudine dei ragazzi, nelle cui mani, fra zuffe e dispute, era ridotta in pezzi.

1536

Gli adulti divennero poi incitatori e imitatori di questa gara fanciullesca, e ne derivò una rabbiosa concorrenza fra gli abitanti dei diversi quartieri, e specialmente un’ira feroce contro quelli di porta Ravenna, troppo spesso vincitori e baldanzosi: onde nel 1536 nacque una tale zuffa sulla piazza del Duomo, che il governatore e i magistrati fecero sgomberare la piazza sotto pena della vita e della confisca dei beni, proibendo d’allora in poi la stolta processione del drago.

1539

Un altro tumulto, segno ormai dei tempi che precipitavano verso la decadenza, avvenne nell’anno 1539, essendo governatore Ercole Rossi da Monte Fortino. Da tempo il municipio avea un suo procuratore alla corte di Roma, a tutela degl’interessi suoi e della città; e dovendosi procedere alla elezione di esso, fu dal Consiglio generale preferito il giureconsulto Rocco Maria Tamburini, di famiglia plebea, al dott. Ercole Severoli, nobile. Di ciò fu fatta colpa al priore degli Anziani conte Andrea Bernardoni, il quale, tornando di notte, dopo il Consiglio, a casa insieme con molti famigli ed amici, fu assalito dal capitano Giustiniano Severoli, fratello di Ercole, e da non pochi armati, onde ne venne un’aspra zuffa che lasciò il Bernardoni ferito e tenuto per morto.

1540-1543

Così la vita faentina trascorre d’ora in poi tra le miserie del dominio ecclesiastico, nella fatale decadenza dei tempi, priva ognor più d’importanza politica e civile. Qualche avvenimento richiama ogni tanto la nostra attenzione, quale il restauro delle mura nel 1540 a difesa dei saccomanni pontifici, inviati da Paolo III a domare tumulti in Perugia; e l’origine dell’orfanotrofio nel ’41 per i trovatelli affidati alla Confraternita del Crocifisso; e l’erezione dell’ospedale delle orfanelle, sotto il governo della compagnia di s. Michelino nel ’42; e il passaggio per Faenza di papa Paolo III l’8 ottobre nel ’41 (di ritorno da un convegno in Lucca con l’imperatore Carlo V), e poi il 14 marzo e il 12 luglio del ’43; il qual pontefice compensa gli onori fattigli con una nuova, enorme tassa di 300.000 ducati d’oro (fu detta tassa triennale, ma per essersene protratto a lungo il pagamento, con generale molestia, fu dal popolo detta eternale), dei quali 400 spettano a Faenza.

1544

E frattanto, mentre il vescovo Rodolfo Pio, occupato, come dicemmo, dal pontefice in rilevantissimi affari politici, rinunziava nel 1544 all’episcopato faentino, in favore di suo fratello Teodoro Pio, guingeva a sua istanza in Faenza, l’anno di poi, il padre Pascasio Broet, uno dei primi compagni d’Ignazio di Loyola, a combattervi l’eresia luterana, che era penetrata piuttosto largamente nella città, dove avea predicato le nuove dottrine anche il celebre Bernardino Ochino. E l’opera dei Gesuiti dovette esser loro proficua in Faenza (dove nel ’46 fu stabilita anche la residenza dell’abate generale dell’ordine Camaldolense, nel monastero di s. Ippolito), se è vero che nel 1547 la Compagnia di Gesù avea già istituito un collegio e scuole, sebbene il Broet, o per poco entusiasmo dei cittadini, o per altre ragioni dovesse poi partirsene per Bologna.
Il novello vescovo Teodoro Pio contese negli anni 1548-49 certi privilegi al Capitolo (collazione di canonicati, benefizi curati e cappellanie), ed a tal segno s’inasprì la lotta, che il prepotente prelato lasciò Faenza e si ricoverò in Meldola, signoria del padre suo Lionello II Pio; e nella sua assenza la Chiesa faentina fu retta dal suo vicario generale Girolamo Paffi.

1551

La lite tra il Capitolo e il vescovo fu discussa dinanzi alla romana Curia, e fu composta poi nel 1551, per intromissione del card. Rodolfo Pio, il quale si era riservato l’amministrazione in perpetuo del vescovado faentino.

1552

A cotali discordie ecclesiastiche nuove discordie civili aggiungevansi nel 1552, quando, essendo governatore di Faenza un Matteo Marcolini da Fano, al riferire del Tonduzzi, il popolo sorse in ira contro un soldato del capitano Carlo Orsini (condottiero ecclesiastico acquartierato con le sue genti d’arme nella città) e lo torturò così da condurlo a morte; onde nacque tra i soldati e la moltitudine armata tale zuffa, che il governatore e l’Orsini, spaventati, dovettero cercar rifugio in un chiostro. Per questo fatto il legato della provincia. Girolamo Ricenati, cardinal di s. Giorgio, ordinò carcerazioni e processi; e la città dal canto suo, gli mandò ambasciate e suppliche di perdono, alle quali finalmente l’irato cardinale si arrese; perciò in segno di gratitudine fu dipinto su la loggia del suo palazzo pubblico lo stemma di lui con l’inscrizione: Hyeronimo Ricenati S.R.E. Card. – s. Georgii legato incomparabili – fundatori quetis. Il qual cardinal legato, trovandosi il numero dei consiglieri assai diminuito per la morte di molti a cui, per negligenza od altro, non erano stati dati i successori dal Consiglio stesso , arrogò a sé medesimo per questa volta l’elezione di ventinove nuovi consiglieri, con suo decreto del 2 ottobre, riferito dal Tonduzzi.

1554

All’anno 1554 (16 marzo) appartiene la morte in Faenza dell’illustre frà Sabba da Castiglione, cavaliere gerosolimitano, al quale abbiamo accennato di sopra. Nacque nel 1480 a Milano e fu di animo gentile ed amico delle lettere; studiò leggi, morale, scienze filosofiche e teologiche nell’università di Pavia, e desideroso di uno stato di vita conforme al suo spirito raccolto, si aggregò all’Ordine dei cavalieri di Rodi, o frati gerosolimitani, vestendone l’abito il 5 agosto 1505. Abbandonata, poi, Rodi nel 1508, si accinse a viaggi in Italia, fu a Roma, in Lombardia, a Firenze, e strinse amicizia con il card. Giovanni de’ Medici, poi Papa Leone X, e più ancora col card. Giulio de’ Medici, che era cavaliere dello stesso ordine e che divenne Papa Clemente VII. Dal 1511 al ’17 fu procuratore generale dell’Ordine, e finalmente sullo scorcio del 1518 ebbe la commenda della chiesetta di s. Maria Maddalena, detta anche della Magione (antica dimora dei cavalieri di Gerusalemme), rinunziata già dal card. Giulio de’ Medici, cui si aggiunse anche quella di Meldola: onde, come dice il Pasolini-Zanelli, «colle rendite dell’una e dell’altra potè vivere sempre con molto decoro, e fare opere belle e benefiche». Nel 1522 fu chiamato a Rodi per la difesa dell’isola, improvvisamente assalita dai Turchi con un poderoso esercito; ma una grave malattia gli vietò di accorrere, sì come avrebbe vivamente desiderato, a compiere il dover suo di prode soldato. Il 22 ottobre 1529 accolse, come vedemmo, nella sua umile dimora l’amico suo Clemente VII papa, che passava per Faenza; del quale non valsero, poi i ripetuti inviti a Roma, a distogliere frate Sabba dallo studio e dalla meditazione nella pace della sua oscura commenda. Amantissimo delle arti, protettore degli studi, fondo opere pie, instituì una pubblica gratuita scuola di lettere, aprì un ospizio per i poveri pellegrini ultramontani , e co’l suo munifico testamento lasciò legati agli ospedali del Crocifisso, di s. Michele e di s.Anronio. Scrisse prevegoli Ricordi della sua vita, pubblicati in prima edizione nel 1546, ed in seconda edizione, per le stampe di Bartolommeo Bonardo in Bologna, nel 1549; lasciò una ricca biblioteca e pregevoli oggetti d’arte; e del celebre affresco di Girolamo da Trevigi, del quale volle adorna la sua chiesetta, del busto di s. Giovannino, meraviglioso capolavoro del Donatello, d’un altro affresco a chiaro-scuro che serve di fregio al suo sepolcro, nella chiesetta stessa, etc. sarà parlato a suo luogo, ossia nella seconda parte di questo volume. Frà Sabba da Castiglione, vestito de’ suoi abiti cavallereschi e con lo stocco su ‘l petto, fu composto in pace nella tomba a sé stesso preparata e con epigrafe da lui dettata.
A questo punto è doveroso ricordare anche un faentino che, convertito al protestantesimo dalla divulgazione delle dottrine de’ novatori (le quali, come già accennammo, s’erano introdotte e serpeggiavano copertamente anche nella nostra città), fu martire della persecuzione ecclesiastica, e finì la sua vita su’ l patibolo. Chi fosse costui, quando cadesse vittima, non dicono gli storici e cronisti concittadini, timorosi di recare offesa alla Chiesa, tranne l’onesto e coraggioso Valgimigli, il quale, dal Frizzi, dal Gerdes, da un almanacco popolare illustrato del 1860, dal titolo l’Amico di casa, ricava le seguenti notizie: Fanino (nonFannio come vorrebbe il Frizzi, il Tiraboschi ed altri) Fanini da Faenza, di nobile famiglia, convertitosi alle nuove dottrine evangeliche, mentre il vento luterano e calvinista scuoteva in Europa coscienze e pensieri, si fece apostolo delle nuove idee. Catturato ed imprigionato dagli sbirri papali, sembra che, per le lacrime della moglie e dei figli, avesse dapprima la debolezza di disdire sé stesso, ottenendo così la libertà; ma pentitosi poi di ciò, e inspirato da novello coraggio, percorse, predicando la nuova fede, i villaggi della Romagna. Catturato nuovamente e condotto prigione a Bagnacavallo (che apperteneva allora alla giurisdizione di Ferrara), vi fu processato e condannato al rogo; ma, crescendo il timore che potesse essere liberato e che rivelasse gli scandali della Corte romana, fu condotto a Ferrara, rinchiuso nel castello per ordine dell’Estense duca Ercole, gelosissimo del cattolicesimo, e quivi per diciotto mesi tormentato con strazi crudeli, non cedendo egli neanche alle istanze ed ai pianti della moglie e della sorella. Condannato finalmente a morte, per ordine scritto del pontefice Giulio III (che era successo fino dal 1550 a Paolo III), respinse con eroico animo l’offerta di ritrattazione, e fu impiccato alle ore tre di notte sulla piazza della città, mantenendo egli, fino all’ultimo della tragica scienza, sereno il volto e l’anima sicura. Il Frizzi ed altri credono che l’orribile supplizio avvenisse nel 1550, ed il Valgimigli accetta tale data; ma la biografia dell’almanacco suddetto protrae il supplizio di Fanino Fanini al 1555.

1555-1556

A Giulio III successe il 9 aprile del ’55 Marcello Cervini, co ‘l nome di Marcello II, ma, dopo pochi giorni di pontificato, questi morì, e fu eletto il 23 maggio il cardinal decano Gian Pietro Carafa da Napoli, che prese il nome di Paolo IV, ed al quale Faenza inviò il cnsueto ossequio, per mezzo dei dottori Ercole Severoli, Andrea Rondinini, Giovanni Evangelista Armennini, Andrea Aleotti, Giovanni Evangelista Gandolfi. Paolo IV, all’insaputa del quale fu composta una tregua di cinque anni tra la Francia e l’Impero (5 febbraio 1556), mentre Carlo V abdicava, si strinse in lega col re di Francia Enrico II; e contro il duca d’Alba, vicerè di Napoli, che avea invaso lo stato pontificio fin sotto Roma, mosse a difesa del papa il duca di Guise. Si era il pontefice proposto di liberar l’Italia dagli Spagnuoli, ma nel tempo stesso mirava ad innalzare i nipoti suoi: di qui le gravezze sulle città soggette alla Chiesa, compresa Faenza; la quale dovette anche mandare fanti a difesa di Oriolo, in causa della guerra mossa da don Antonio Carafa contro Montebello, che era del conte di Ghiazzolo, Gian Francesco de’ Conti Guidi da Bagno. Questi era stato dichiarato ribelle, i suoi beni aggiudicati al fisco e dati, co’ l titolo di marchese di Montebello, al detto Antonio, nipote del papa, che in breve se ne impadronì. Venne il Carafa anche a Faenza, a visitarne diligentemente le mura; e per erigere baluardi e fare opere di fortificazione, impose, a mezzo del suo luogotenente Bino Signorelli, gravezze e provvigioni. Nuovi carichi ebbe a sopportare Faenza per il passaggio e il soggiorno delle soldatesche di lui: ma, alla pazza imposizione di abbattere la rocca di Oriolo, reclamò vivamente la città, dichiarandosi pronta e ricorrere al papa stesso. Pare che le pratiche «per il negozio di Oriolo» giungessero a buon fine; ma ad ogni modo la povera città dovette pagare entro dieci giorni 2125 scudi d’oro, prendendo tal somma ad interesse, in parte da Sigismondo di Carpi, ferrarese, in parte da diversi cittadini. Così Faenza fu ridotta ad officina per fondere artiglierie, fabbricar armi e polveri, fornire armi ed attrezzi etc., e con essa soffrirono altre città di Romagna poste sulla via Emilia, costrette ad approvigionare l’esercito francese che il due di Guise conduceva in soccorso di Roma.

1557

Archi di trionfo e dimostrazioni di gioia debbono, in tale occasione, nel 1557, salutare il passaggio del card. Carafa e del duca di Guise nel loro viaggio verso Roma; né manca il dono di un bacile e di una brocca d’argento con quattro tazze pure d’argento del valore di 181 scudi d’ora a quegl’illustri personaggi, che Faenza ospita con pompa solenne. Ma quando l’esercito degli alleati francesi, composto di 10000 fanti e 2000 cavalli, giunge presso le mura di Faenza e chiede d’entrare in città, i cittadini, impauriti si rifiutano d’aprir le porte, si armano e vagliano notte e giorno, rinchiudono le donne e i fanciulli nella rocca e nei monasteri , finchè i Francesi, senza osare assalto alcuno, proseguono il primo di marzo verso Forlì; se non che dei daccheggi e delle depredazioni loro il papa medesimo si mostrò convinto, quando volentieri assolse i Faentini, posti sotto processo dal governatore per aver negata l’ospitalità agli “alleati”. E nuovi aggravi pose il pontefice ai suoi sudditi per difendersi dalle armi degli Spagnuoli che, avvicinatisi a Roma, ne saccheggiavano le terre; per modo che Faenza dovette pagare 6600 scudi. La rotta dei Francesi a s. Quintino, il 10 agosto 1557, fè sì che Enrico richiamasse in Francia le milizie spedite in Italia, onde il papa il 15 settembre dovette venire ad accordi co’ l re di Spagna, accettando di sciogliersi dalla lega francese. Tale notizia fu accolta con gioia in Faenza, dove il Consiglio generale, reputando che la città dovesse la sua salvezza dagli assalti e dalle insidie dello straniero alla miracolosa protezione della Madonna, stabilì tre solenni processioni annuali alla chiesa di s. Maria dell’Angelo.

1558

Nel seguente anno 1558 lo stesso Consiglio, essendo divenuto cagione di scompiglio e di disordine il soggiorno di molti stranieri nella città, richiamava in pieno vigore la rubrica 56ª del libro IV degli Statuti, stabilendo che ai forestieri non fosse concesso d’abitare in Faenza o nel contado, né di comprare o prendere a pigione case, senza espressa facoltà del Comune.

1559

Al 1559, finalmente, che è (come tutti sanno) l’anno famoso del grande trattato di Château-Cambrésis, appartengono e nuove imposizioni fiscali del 20 per 100 sul valore dei beni stabili (cagione di grande sgomento ne’ cittadini, sempre più sottoposti dall’ingordigia papale ad insopportabili tributi), e l’introduzione in Faenza dell’arte della seta, mediante un filatoio eretto sopra il canale, ed infine la instituzione di due cattedre di giurisprudenze e di filosofia. A proposito di quest’ultimo provvedimento diremo, anzi, come alcuni rogiti della metà e della fine del secolo precedente, dimostrano che per la pubblica istruzione il Comune stipendiava fin d’allora maestri di grammatica, d’abaco, ripetitori, etc., nel modo istesso che più tardi condusse a’ suoi servigi un medico-chirurgo, ed un barbiere «per servitio de’ poveri, con cavarli sangue».

 

 

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