venerdì, Ottobre 11, 2024
Faenza nella storia - I capitoli

Faenza nella Storia _ Cap. 2.2. Da Astorgio I a Carlo II (1379-1468)

Cap. 2.2. Da Astorgio I a Carlo II (1379-1468)

Astorgio I Manfredi consolidò ben presto in due modi la potenza acquistatasi: prima di tutto co’l legalizzarla ottenendo da papa Gregorio XI prima, da papa Urbano VI poi, il titolo di vicario di Faenza della santa Sede (come attestano un rogito del 23 febbraio 1379 e il cronista Urbetelli) ; in secondo luogo co’l darsi al mestiere del condottiero di ventura, sostenendo con esso, come facevan tutti i signorotti di quel tempo, e co’vantaggi del principato le milizie.
Radunò egli, infatti, in quello stesso anno un’accozzaglia di mercenari (sopra tutto di fuorusciti bolognesi e romagnoli) composta, al dir del Tonduzzi, di 4000 fanti e di 600 uomini d’arme, cui diè il nome di Compagnia della Stella; e dopo avere inutilmente tentato di penetrare in quel di rimini e di Bologna, fu condotto al soldo di Bernabò Visconti, che volea recare aiuto à suoi alleati Veneziani, i quali contro i Genovesi e Francesco da Carrara, signore di Padova, combattevano in quel tempo nella guerra famosa che fu detta di Chioggia. Spinse, adunque, il Visconti la compagnia d’Astorgio, il 2 luglio 1379, addosso à Genovesi, per modo che, fermatasi la terribil masnada a s. Pier d’Arena, mise a sacco il paese: onde il governo di Genova s’indusse a sborsare ad Astorgio 19000 fiorini perché si ritirasse. Il Manfredi, da quell’uomo di malafede ch’egli era, ricomparve il 22 settembre più minaccioso che mai alle porte della città; ma questa volta all’ insolenza ed alla rapina rispose il popolo di Genova, che uscì in arme, ed inferocito assalì chè saccomanni con tale impeto da sbaragliarli e fugarli, e farna prigionieri di molti, tra cui lo stesso Astorgio. Il quale però essendo astutissimo, riuscì a salvarsi, dopo aver fatta larga promessa di danaro a due genovesi che l’avevano in custodia, fuggendo travestito da contadino. Così finiva la Compagnia della Stella, sorta e disciolta nel breve volger d’un anno.

1380

Tornato in patria, Astorgio venne ben presto, com’era da prevedere, in urto co’l fratello suo Francesco, al quale veramente per diritto di primogenitura, sarebbe spettata la signoria di Faenza; e nel 1380 avendogli imputata la colpa di tramare contro la sua vita, lo fece arrestare e carcerare nella rocca di Solarolo, a disegno di liberarsene. Ma Francesco si propiziò co’l danaro il castellano e i soldati, rese a sé favorevoli gli abitanti del castello, e non solo fu liberato, ma anche si fece padrone di Solarolo. Poi a mantenerlo contro le minacce fraterne, cercò alleanze ed aiuti e difatti a’ 18 aprile fu fermata una tregua e fu conchiuso un accordo, da rinnovarsi ogni quattro mesi tra lui Francesco, Sinibaldo Ordelaffi, Bertrando Alidosi e Giovanni Acuto. Vorrebbe il Tonduzzi che Francesco si fosse accordato anche con Galeotto Malatesti di Rimini, ma il Valmigli (VIII, 202) ne dubita forte, non essendo tale notizia confermata da altri storici; e dubita anche dell’altra asserzione del Tonduzzi, che, ciò è, la Repubblica fiorentina e i bolognesi recassero a pace i discordi fratelli Manfredi.

1381

La verità è che, mentre Astorgio s’avviava con buon esercito contro Solarolo, Francesco cedette il castello à Bolognesi per 3000 fiorini, più 60fiorini al mese da pagarsi sua vita natural durante, a titolo di provvisione per la sua persona (3 aprile 1381); onde Astorgio giunto a Solarolo, e con sua meraviglia vedendovi le insegne bolognesi, fu pronto a ritirarsi.
D’altro canto Giovanni Acuto cedeva al marchese di Ferrara, a sconto d’un debito 60000 ducati d’oro, Bagnacavallo e il castello di Cotignola, già avuti da Gregorio XI; e mentre in Romagna (e in Faenza in ispecie) scoppiava una terribile pestilenza, Astorgio Manfredi, a premunirsi contro ogni possibile sorpresa, assoldava, a guardia di Faenza e di sé, Ettore e Maghinardo da Perugia, con cento lance, mercè delle quali riusciva ad impradonirsi del castello di Russi e a fortificarlo.
Intanto lo scisma d’occidente avea divisa la cattolicità indue campi; e per l’antipapa Clemente VII (il famigerato card.di Ginevra) s’era dichiarata la regina Giovanna di Napoli, nipote di re Roberto, contro Urbano VI, ricavandone da quest’ultimo la scomunica; del che avea profittato Carlo III, del ramo angioino di Durazzo, per detronizzarla a cingere la corona napoletana.

1382

Contro Carlo mosse di poi (sebbene invano) il francese Luigi d’Angiò, che sceso in Italia, ed entrato nel 1382 in Romagna, assalì a Sinibaldo Ordelaffi Forlì, a ciò istigato da guido da Polenta, ma Forlì si difese validamente, e Luigi ebbe a continuare il suo viaggio.

1383-1385

A premunirsi, forse,da nuovi pericoli, mentre Giovanni d’Alberghettino cedeva a’ Fiorentini nell’83 il castello di Bettona, ottenendone vantaggi perpetui e un’annua pensione per il figlio Almerico, i tre signori di Faenza, Forlì e Rimini (Astorgio I Manfredi, Sinibaldo Ordelaffi e Galeotto Malatesti) stringevano fra loro un’alleanza, nel 1385; ma ecco che il 13 dec. di quell’anno una congiura di Cecco e Pino Ordelaffi in Forlì contro lo zio Sinibaldo detronizzava quest’ultimo (imprigionato nella rocca di Ravaldino) ed innalzava costoro alla signoria. Allora un altro nipote di Sinibaldo, Giovanni, commosso dalla sventura dello zio, si rivolse ad Astorgio perché cacciasse gli usurpatori; ma nuovi fatti distolsero il Manfredi dal recar soccorsi alla causa del suo alleato Sinibaldo.

1386

I conti Giovanni e Rinaldo da Cunio avevano occupato a Bolognesi il castello di Barbiano; ed ai Bolognesi era stato giocoforza lasciarli in quel possesso, acausa de’ tradimenti del loro condottiero, il te Lucio Lando, il quale, su’l principio di aprile 1386, rottosi con Bologna, se ne venne per parecchi mesi a Faenza, ospite del Manfredi. Taddeo Pepoli, il giovine, frattanto, smanioso di rimettersi signore in patria, se la intese con Astorgio, e celatamente combinò di aprir la via di Bologna alle armi manfrediane e del Lando (comprensivi duecento congiurati) ; ma scopertasi la trama, molti furon messi a morte, e i Bolognesi vollero vendicarsi della slealtà del Manfredi movendo il 15 agosto con forte esercito contro di lui, devastando per 20 giorni il territorio faentino, e infine innalzando al ponte di s.Procolo una bastia, entro cui lasciarono un buon presidio. In tali frangenti ben pochi aiuti potè dare Astorgio a Giovanni Ordelaffi, che avea ordita una trama in Forlì a favore di Sinibaldo; chè anzi, sentendosi il signore di Faenza insufficiente a sostenersi contro le preponderanti forze di Bologna, dovette acconciarsi presto ad una pace, la quale fu conclusa il 24 agosto, per la mediazione di Giovan Galeazzo Visconti, signore di Milano. E i patti dell’accordo furono i seguenti: la bastia del ponte di s.Procolo restava ai Bolognesi con l’impegno però di non molestare le persone e le merci di Faenza; Bertrando Alidosi d’Imola, Giovanni d’Alberghettino Manfredi, Francesco fratello d’Astorgio erano compresi nei benefici della pace, per modo che Astorgio non potesse vendicarsi dell’aver essi tenuto co’ Bolognesi; la rocca di Montemaggiore (forse pretesa o dagli Alidosi di Imola, o da qualcuno dè parenti su detti d’Astorgio) dovea essere dal Manfredi consegnata a Giov. Galeazzo Visconti; Francesco Manfredi rimaneva esiliato da Faenza e suo distretto; il conte Lando dovea essere dal signore di Faenza licenziato entro 15 giorni; il commercio delle biade e del sale tra Faenza e Bologna dovea essere vicendevolmente libero di dazi; i prigionieri dell’una e dell’altra parte dovevano essere restituiti.

1388

Costretto, adunque, a persuadersi che gli era necessario mantener buoni rapporti con Bologna, Astorgio largheggiò poi in cortesie verso quella città, concedendo, per esempio, l’alveo del fiume Senio, al 1388 confine dei distretti di Faenza e d’Imola, allor che essa nell’88 ebbe bisogno d’acqua per un molino a Castelbolognese; ma non sembra sicuro che il Manfredi ed altri signori romagnoli inviassero i loro rappresentanti a Bologna quando nel marzo di quell’anno (alcuni dicono dell’anno seguente), accordatisi i Bolognesi co’Fiorentini e co’l Da Carrara contro le progressive conquiste del Visconti di Milano, si trattò di porre le basi d’una larga lega contro di lui.

1389

Sicuro, invece, egli è che Astorgio entrò in quella confederazione che per tutela della pace fu promossa in Pisa, nel 1389, da Pietro Gambacorti, signore di quella città, e nella quale entrarono Ferrara, Mantova, Bologna, Perugia, Siena, Lucca, Firenze, gli Ordelaffi e i Malatesti, e perfino lo stesso Visconti, il quale predicando bene e razzolando male, non d’altro parlava se non di pace.

1390

Ma quando il Visconti da un lato e i Bolognesi e lor collegati dall’altro si venne ad aperta rottura nel 1390, furono mandati da Bologna ambasciatori ad Astorgio, a pregarlo d’inviare milizie ausiliarie; e il 20 giugno il Manfredi giunse al campo bolognese con 70 lancie e 400 fanti, e fu accolto con grande onore (al dir dei cronisti Ubertelli e Zuccoli) in casa di messer Egano dei Lambertini, mentre le milizie viscontee, ricusando la battaglia si ritiravano. Secondo il predetto Ubertelli il 28 giugno sarebbe anzi avvenuta, tra Bologna e Faenza, una scaramuccia del Manfredi contro certi Carlo e Ramazzotto (nomi ignoti e notizia malsicura); ad ogni modo è certo che Astorgio fu con opportuno consiglio inviato dà Bolognesi il 1° luglio a sorprendere nottetempo Cesena (che insieme con Rimini seguiva le parti del Visconti), ma il tentativo non riuscì, perché sebbene per tradimento avesse il Manfredi potuto entrare per una porta della città, il popolo si levò in arme a tempo, e ricacciò valorosamente i notturni assalitori. Non ostante la mala riuscita dell’impresa, i Bolognesi, per gratitudine a chi era stato così pronto à loro servigi, donavano al Manfredi la bastia del ponte di s. Procolo (cfr. p. 123), e in Bologna il palazzo che fu di Alberto Conoscenti, perché egli gli avesse bella e adatta abitazione, con libertà di trasmetterne il possesso a’ suoi eredi. Tre anni dopo Astorgio comprava per duemila ducati in Bologna un altro palazzo, che già fu de Pepoli e poi di Gregorio XI, per erigervi un collegio dal nome Gregoriano; e su la porta vi faceva dipingere il suo cimiero, od impresa, figurato in due cammelli co’l capo di liocorno, co’piedi posteriori nel fuoco, con un Astorre, nobile uccello, su’l capo, ed infine co’l motto: “per me farò quel tanto che pur spero”.
Abilmente destreggiandosi era dunque il Manfredi riuscito a metter al sicuro il conquistato dominio dalle insidie del fratello Francesco, a tramutare in benevolenza e protezione la inimicizia de’ Bolognesi, a pesar molto, infine, su la bilancia delle cose politiche romagnole: il che fu chiaro quando tra Francesco da Carrara, che aveva riacquistato il dominio di Padova, e Alberto d’Este che era stato partigiano del Visconti, fu conchiusa il 12 settembre una tregua, la quale si ampliò in vera e propria pace con Bologna e co’ suoi alleati, e fu in Bologna bandita, dopo ricercato ed ottenuto l’assenso del signor di Faenza. Ma la potenza ed il prestigio d’Astorgio apparvero anche più evidenti allora che egli recatosi a Roma il 22 novembre con la scorta di 150 cavalli, ebbe dal papa Bonifazio IX (succeduto fin dall’’89 ad Urbano VI) la conferma del vicariato di Faenza; nella qual occasione si ebbe in dono dal pontefice un magnifico gioiello consistente in una rosa d’oro, che avea nel mezzo un zaffiro ed intorno altre sei rose d’oro, ciò è quattro aperte e due chiuse.

1391

Fu poi tale gioiello donato nel 1391 alla cattedrale, come si ha dal vecchio inventario di essa (arredi sacri), e rubato nel 1488 senza che si scoprisse il ladro, forse durante i tumulti che seguirono alla morte di Galeotto Manfredi. A sua volta Astorgio pagò al papa l’annuo censo di 1500 fiorini, per mano dell’abate di s.Benedetto in Alpe, il 28 luglio del detto anno 1391.
Tornato da Roma, condusse egli a Padova 50 lancie in aiuto dell’alleato Francesco da Carrara, seguito da molte altre forze del conte Giovanni da Barbiano, fratello del celebre Alberico e condottiero de’ Bolognesi, e da milizie fiorentine; a proposito di che, un sospetto di tradimento grava su’l Manfredi, il quale, per secreto accordo co’l Visconti, avrebbe dovuto uccidere il signor di Padova e Giovanni Acuto: onde quest’ultimo, ch’era co’ suoi presso a Mantova, saputo di certi conciliaboli notturni tra Astorgio e i paesani, e dubitando di lui, come d’un maestro di tradimenti, in fretta tolse il campo e s’avviò a Padova, mentre il Manfredi, vistosi in sospetto, si ritirava nuovamente a Faenza.
Intanto confermavasi la lega antiviscontea, e un nuovo accordo facevasi, su’l principio del ’91, tra Bologna e il Manfredi da un lato e i Malatesti di Rimini dall’altro, assicurandosi libertà di transito e di commercio da un luogo all’altro.

1392

Finalmente nel gennaio del 1392 si concludeva la pace di Genova tra il signore di Milano e i confederati (Bologna, Firenze, il da Carrara, l’Estense, il Manfredi), per la quale il Visconti rinunziava alle sue pretenzioni su Padova. Ma tale trattato non assicurava la tranquillità sempre insidiata dagli ambiziosi disegni di Gian Galeazzo Visconti; onde promossa da Francesco Gonzaga, signore di Mantova, fu subito fermata in Bologna l’11 aprile una seconda lega tra lui Gonzaga, i Fiorentini, i Bolognesi, il da Carrara, l’Estense, il Polentano, l’Alidosi d’Imola e il Manfredi di Faenza (v’aderirono più tardi i Malatesti di Rimini e gli Ordelaffi di Forlì), a tutela della pace e dell’ equilibrio italiano.

1395

Ma nuove controversie, ed anche lotte intestine fra gli stessi confederati, dimostrarono ben presto che la discordia era pronta a spuntare non appena il pericolo comune accennasse ad allontanarsi. Morto Alberto d’Este, il cugino di lui Azzo invano mosse su Ferrara nel gennaio 1395, per contrastare alla successione del piccolo Niccolò, figlio illegittimo d’Alberto, affidato dal padre alla protezione di Firenze, di Venezia, dè Bolognesi e del Gonzaga; chè anzi, per segreti accordi tra la reggenza di Ferrara e il conte Giovanni da Barbiano (che era fautore di Azzo, ma era anche uomo solito a pescar nel torbido), dovea giovanni uccidere Azzo stesso, e in compenso del tradimento e dell’assassinio gli sarebbero state date le terre di Lugo e Conselice. Furono, infatti, cotali terre cedute, ma non Azzo fu ucciso, si bene un famigliare vestito dè suoi abiti e sfregiato in volto a fine di mascherare l’inganno; onde la reggenza di Ferrara, d’accordo cò Fiorentini, i Veneziani, i Bolognesi e il Gonzaga, a vendicare l’onta ricevuta ed a riprendere Lugo e Conselice, mosse guerra ad Azzo ed a Giovanni da Barbiano, eleggendo a Capitano supremo Astorgio Manfredi. E questi partitosi in fretta da Faenza, sbaragliò e fugò l’esercito di 8000 uomini raccolto da Azzo, e poi, stretto il nemico fuggente in Portomaggiore il 25 aprile, dopo accanito combattimento lo costrinse alla resa, facendo prigioniero Azzo stesso e molti altri. Astorgio, entrato trionfatore in Ferrara tra le acclamazioni del popolo, vi ebbe in dono per il figlio Gian Galeazzo (che insieme con la figlia Atonia egli ebbe dalla legittima moglie Leta di Guido da Polenta, secondo il Litta o Lisia d’Ostasio da Polenta, secondo il Peroni) la casa che fu di due ribelli della famiglia Montanari e le possessioni che in migliaro avevano gli Estensi; Azzo, sotto buona custodia del conte Corrado d’Altenberg, capitano del Manfredi, fu condotto nelle carceri di Faenza. Dopo tale vittoria mosse Astorgio all’assedio di Lugo e Barbiano, ma sembra che null’altro potesse fare se non malmenarne i territori (così il Tonduzzi p.450), nei quali poco mancò non facesse prigione lo stesso conte Giovanni.
In quel medesimo anno, poi scoppiava un conflitto tra i Fiorentini e l’Ordelaffi, il quale contrastava loro il possesso di Castrocaro, ch’essi avevano acquistato dal papa, secondo alcuni, o quello d’Oriolo, secondo altri; ed il Manfredi con 300 cavalli s’unì alle forze di Firenze, fin che per mediazione dè Veneziani e dè Bolognesi non fu concluso un accordo.
Infine è da far menzione d’una controversia tra Francesco di Sassuolo e gli Estensi intorno al diritto su la terra di Sassuolo, che fu rimessa nell’arbitrato d’Astorgio Manfredi; a proposito della qual controversia, un Atto da Rodeglia, prigioniero del signor di Faenza, offertosi intermediario, ottenne con falso giuramento la libertà, e di essa fruì per eccitare, invece, di nuovo alle armi il predetto Francesco.

1396

Questi senza attendere il giudizio, còlto il buon momento a mezzo aprile del 1396, s’impossessò senz’altro della terra contrastata. Di lì ad un mese, poi, fu stabilita in Firenze una pace e lega tra Gian Galeazzo Visconti (che avea ottenuta dall’ imperatore Venceslao la dignità ducale), i Fiorentini, i Pisani, Perugia, Bologna, Lucca, il marchese di Ferrara, i signori di Padova, Faenza, Imola, Rimini etc.; e con questi artifizi Gian Galeazzo credea tenere a bada chi poteva opporsi ai suoi segreti disegni; ma l’accorta Firenze si rafforzò a parte con altra lega, sull’uscir del settembre, stringendosi co’l re di Francia Carlo V, con Bologna, e co’ signori di Ferrara, Padova e Mantova.
Era nel maggio di quell’anno 1396 venuto a Faenza a regger l’ufficio di podestà, per invito del Manfredi, l’elegante novellatore e poeta fiorentino Franco Sacchetti, del quale la vivacità dell’ingegno, l’onestà, la dolcezza lo fecero ben presto a tutti gradito, e caro come fratello ad Astorgio. Accoppiava quest’ultimo alle rudi e forti qualità del soldato, alle subdole astuzie del venturiero e del tirannello, una non ispregevole inclinazione alle lettere ed alla poesia; e molte sue rime riunite in un quaderno ei volle adunque affidare al Sacchetti pregandolo di rivederle e correggerle:
“L’albero dà di quei frutti che piglia;
se son senza sapore, o poco cari,
priego non vin facciate meraviglia;
con gran fidanza io li mando a voi ch’è miei error correggerete poi”.
Della quale benevolenza ed amicizia del signore di Faenza usufruì il Sacchetti, quando scaduti i sei mesi del suo ufficio, chiese con un sonetto ad Astorgio di essere in quello confermato; il che gli fu tosto dal Manfredi concesso con un sonetto di risposta, che, aggiuntivi in coda due versi, finiva così:
“Ora, tornando a vostra intenzione,
quel che m’addomandaste vi consegno
come a rettore e franco campione.
Sei mesi aggiungo al vostro reggimento
della podesteria, con buon talento.”

1397

Su l’uscir di carica, il 15 aprile del 1397, il Sacchetti a sua volta inviò ad Astorgio una collana di dodici sonetti; e rimase poi sempre grato al potente amico suo, tessendone le lodi in alcuni suoi scritti; né dispiaccia al lettore che sian qui riportati i seguenti versi, coi quali il Sacchetti rapidamentnte delinea il profilo, la potenza e il carattere del governo di Astorgio I Manfredi:
“Il signor di cui parlo ha nome Astore,
padre possente in terra, prò e saggio;
a chi gli fa dannaggio
incontro a lui il suo poter aopra.
D’Astore ha condizion questo signore,
chè, come egli è uccel di gran coraggio,
per vendicar l’oltraggio
sempre percote e rimane al di sopra;
costanza e fortezza par che il copra
e da quel non si muta
per alto, o per caduta.
Giusto e circospetto il suo governa
conforme al stil del Re di vita eterna”.
Le rime di Astorgio si leggono, del resto, in varie raccolte di antichi poeti volgari (dell’Allacci, del Crescimbeni, del Tiraboschi); ed un capitolo da lui composto canta la devozione sua per Maria, ed invoca con apparente sincerità la madre di Cristo, dimostrando una volta di più qual curioso impasto d’ingegno, di splendore, di bigottismo e di delinquenza, si fossero quei principotti del Rinascimento italiano:
“Regina gloriosa, imperatrice,
vergine santa, pure e immacolata,
d’ogni mortal fedel vera Beatrice,
umile ancella d’oro incoronata
dal sommo Padre,e salda e ferma torre
d’ogni peccante, dolce mia avvocata……..”
Segno dè tempi, questo: che, ciò è, dallo strepito delle armi, dall’ambito del tradimento e del raggiro, dalle astuzie di una diplomazia subdola, fossero quegli uomini fieri, e rotti à pericoli ed alle lotte, di sovente trasportati ad un culto rozzo e pur gentile dell’arte.
E degli intendimenti artistici di Astorgio è pur testimonianza l’aver egli fatto distruggere, nel ’94, gli antichi portici di legno del palazzo del popolo (divenuto fin dal tempo di Francesco Iresidenza dei Manfredi), e l’aver adornato poi quel palazzo d’un vasto ed ameno giardino, come da un rogito del 1397.
Ma torniamo alle vicende politiche. Era stata appena composta, per intromissione dell’Ordelaffi, una controversia tra i Manfredi e i Polentani, forse dovuta a gelosia di parentado, quando il duca di Milano, montato in ira per quella lega promossa da Firenze, che abbiamo ricordata (p.127), nel marzo del ’97 inviava un esercito a battere il territorio Mantovano, tanto che i collegati dovettero nel luglio muovere in soccorso del Gonzaga; e, come dice uno storico sincrono, “per lo signore di Ravenna e per quello di Faenza andò il signor Pandolfo Malatesti, con mille cavalli e 600 fanti”. Il 28 agosto, poi, le forze della lega s’ azzuffarono con quelle del Visconti e la vittoria, a lungo indecisa rimase ai confederati.
In quello stesso anno, al dire dell’ Azzurrini (Mittarelli, col. 355), papa Bonifacio IX confermava Astorgio nel vicariato di Faenza, estendendo tal vicariato, oltre che alla valle d’Amone, ai castelli di Fusignano, Montemaggiore, Donigalia, ed in esso associando ad Astorgio il figlio di lui Gian Galeazzo, già adulto, e che sposò nel novembre madonna Gentile di Galeotto Malatesti da Rimini. La qual partecipazione del figlio al governo fu desiderata forse da Astorgio medesimo, cui doveva stare a cuore che durante le sue frequenti assenze (non ostante avesse egli un vicario, il quale era in questo tempo il giureconsulto Francesco Lupori da Pescia) la città fosse retta fedelmente da persona di sua assoluta fiducia.

1398-1399

Gian Galeazzo, poi, co’l padre e con la moglie partecipò nel 1398 alle feste ed ai tornei che celebrarono in Rimini l’onorato ritorno di Pandolfo Malatesti dalla Terra Santa; e quando i Malatesti vennero nel 1399 in grave contesa con l’Ordelaffi di Forlì, Astorgio (che avea al suo soldo un Giovanni di Buscarito e un Guglielmo, valorosi capitani), cavalcò con 200 lance a Rimini, l’8 giugno, in soccorso dei parenti; se non che il 24 dello stesso mese la questione fu rimessa nell’ arbitrio del duca di Milano.
In quell’anno, dominando in Bologna la fazione dei Maltraversi, l’avversa parte degli Scacchesi si rivolse per aiuti al su ricordato conte di Cunio, Giovanni da Barbiano; e questi si recò da Vignola con le sue genti in quel di Bologna, facendovi orribili saccheggi. Mal gliene incolse, però; chè i Bolognesi uscirono in gran numero ad assalirlo, lo vinsero,lo fecero prigioniero, e il 24 settembre inesorabilmente lo decapitarono. Il cronista sincrono Delayto, né suoi Annales Estenses, afferma che l’ira dè Bolognesi contro l’infelice Giovanni fu particolarmente aizzata da Astorgio Manfredi; onde si rinfocolarono gli antichi odii tra lui e i conti di Cunio, sì che il vecchio e famoso capitano Alberico da Barbiano, fratello di Giovanni, giurò in cuor suo di far, prima o poi, atroce vendetta contro il signore di Faenza. E vedremo che vi riuscì.
Ma ecco frattanto l’ambizione indomabile spingere nuovamente Astorgio contro Bologna. Un tale Antonio dalle Caselle, bolognese, allettato dalle promesse di lui, indusse il concittadino suo, Gaspare di Bernardino, capitano di Solarolo, a cedere perfidamente al Manfredi quel castello che i Bolognesi avevano acquistato, come vedemmo, da Francesco II Manfredi, nel 1381. Allontanato, adunque, il presidio, le milizie faentine furono introdotte in Solarolo; ma quando i due traditori richiesero il Manfredi del prezzo pattuito, egli rispose loro additando un’alta quercia, e minacciando di farveli appendere, ove non gli si fossero tosto levati d’innanzi: onde essi, sapendo Astorgio uomo di parola, non misero tempo in mezzo a scappare.

1400

Il senato bolognese condannò poi i due manigoldi a pubblica infamia, atterrandone le case; e riuscita vana richiesta al Manfredi per riaver Solarolo, nel maggio del 1400 mosse guerra a Faenza, non solo con le armi proprie, sì anche con quelle di due fieri nemici di Astorgio: Pino Ordelaffi, signore di Forlì, e il conte Alberico da Barbiano. L’ Ordelaffi assediò Solarolo; i Bolognesi ed Alberico oppugnarono Faenza, ma non riuscirono ad impedire che Gian Galeazzo Manfredi, forte del soccorso del cognato Carlo Malatesti, vi potesse entrare a difesa. Bologna chiese aiuti perfino a Firenze, che di mala voglia inviò cento lance; ma non valse il grosso esercito contro la valida difesa di Astorgio, chè i Bolognesi e i loro alleati ebbero a ritirarsi, lasciando però a tormento di Faenza due forti bastie costrutte lì presso, e bene agguerrite.
È di questo tempo la cattura di Gian Galeazzo Manfredi, di Carlo Malatesti, e delle mogli di ambedue, operata abilmente nel ferrarese da Niccolò d’Este, che volle procurarsi così un buon pegno contro Astorgio. Questi, infatti, teneva nelle carceri di Faenza, come sappiamo (pag.127), Azzo d’Este, per la custodia del quale dopo continue esorbitanti richieste di denaro a Niccolò e dopo minacce di rilasciare il prigioniero (assai pericoloso per il marchese di Ferrara), avea finalmente ottenuto da Niccolò stesso, per mediazione dè Veneziani, l’annua somma di 5000 ducati d’oro. Or Niccolò d’Este, avuto nelle sue mani Gian Galeazzo, potè finalmente opporre ricatto a ricatto; Astorgio corse a Venezia a perorare in persona per il figliuolo, e la serenissima repubblica fra i due litiganti fu la terza a godere, perché ebbe in consegna il povero Azzo, e lo relegò a Candia, facendosi pagare dall’Estense 3000 annui fiorini d’oro. Gian Galeazzo tornò libero sulla fine d’agosto a Faenza (dove il 14 luglio di quel medesimo anno gli era morta la madre Leta), e quivi par certo esercitasse per il padre, forse ancora assente, il governo.

1401

Un atto pubblico dell’8 marzo 1401 ricorda il dottor di leggi Giovanni da Cesena, potestà di Faenza “pro magnifico et potente domino Iohanne Galeatio, nato magnifici et potentis domini Astorgii de Manfredis, dicte civitatis, comitatus, fortie et districtus pro sancta Romana Ecclesia vicario generali”.
In Bologna, frattanto, spentasi la fazione Maltraversa, era riuscito a farsi acclamare signore (14 marzo) Giovanni Bentivoglio; e Astorgio stanco e stremato dagli assalti che più vigorosamente or gli davano i Bolognesi ed Alberico da Barbiano, inviò messi a chieder pace, offrendo la restituzione di Solarolo. Il Bentivoglio, che mirava ad aver Faenza non accettò da prima; vogliono anzi alcuni che, richiesti aiuti ai Fiorentini, al duca di Milano e al signore di Padova, rinnovasse più fiera la guerra, giungendo fino alle porte di Faenza: ma è certo che finalmente, mercè gli uffici di molti signori d’Italia, fu conchiusa la pace il 7 luglio 1401 (essendo delegato a trattarla per il Manfredi il suo sindico e procuratore Antonio da Modigliana, giureconsulto), a condizione che il castello di Solarolo con tutte le sue fortificazioni e ville fosse restituito al signor di Bologna, aggiuntivi 4000 ducati d’oro; dopo di che sarebbero stati tolti tutti i bandi, e annullate tutte le condanne pronunziate a causa della guerra, ed atterrata la bastia di s.Prospero, ecc.

1402

Il Bentivoglio fu poi vinto dal duca di Milano il 25 giugno del 1402, e Bologna passò sotto il dominio di Gian Galeazzo Visconti, il quale, trionfante ormai di tanti nemici, stava per raggiungere l’agognato fine di diventare l’arbitro e quasi il signore di tutta Italia, e già minacciava gravemente Faenza; quando d’un tratto la morte sorprese l’ardimentoso principe il 3 settembre, troncandone i disegni, e liberando gli stati d’Italia da un incubo terribile. Vero è che Bologna acclamò allora il primogenito giovinetto del morto duca, Giovanni Maria;

1403

ma il card. Baldassarre Cossa, eletto da Bonifacio IX legato pontificio con i più larghi poteri (19 gennaio 1403), collegatosi acon Firenze, con l’Estense e con i principali vicarii dello stato ecclesiastico, riuscì a penetrare con le sue milizie in Bologna; onde la duchessa di Milano trattò la pace con lui cedendogli la città. Oltre Bologna, tornarono al dominio della Chiesa anche Perugia ed Assisi, che parimente Gian Galeazzo Visconti aveva occupate.
La riconquista di Bologna, che recò in mano ai pontificii non pochi castelli di Romagna, diè al vecchio Alberico da Barbiano, che era ai servigi della Chiesa buona occasione di sfogare il suo implacabile odio contro Astorgio Manfredi; e tale fu la guerra ch’ei mosse a Faenza, e tanto il danno arrecato alle campagne faentine, che ne seguirono carestia ed esodo di cittadini; onde Astorgio, impotente ormai a resistere, pensò di vender Faenza ai Fiorentini. Questi, che conoscevano la slealtà di lui, non se ne fidarono; ed allora il Manfredi trattò, per mezzo del figliuol suo Gian Galeazzo, co’l legato pontificio Baldassarre Cossa, o meglio co’l messo e procuratore di lui Paolo Orsini, capitano generale delle milizie ecclesiastiche.

1404

Fra l’orsini e Gian Galeazzo Manfredi fu adunque concluso, con atto del 15 settembre 1404, che Faenza sarebbe stata ceduta per dieci anni alla Chiesa, e con essa (ma per cinque anni soltanto) tutte le rocche e fortilizi di Val d’Amone, di Pietra di Mauro e del contado d’Imola posseduti da Astorgio, e ciò è Brisighella, Gesso, Rontana, Calamello, Fernacciano, s.Cassiano, Separano, Boiuxino, MontaMaggiore, Monte Albergo, s.Maria in Montalto, s.Procolo; in compenso i Manfredi avrebbero avuto 200 fiorini d’oro al mese, e l’assoluzione per sé e per i loro amici e seguaci d’ogni pena in cui fossero incorsi. Entrato, dunque, Paolo Orsini nella nostra città, vi creò luogotenente per la Chiesa un Riccardo Cancellieri da Pistoia, e potestà un Romeo Foscarari; e intanto i Manfredi, così tragicamente colpiti dalla sventura, riparavano in rimini presso Carlo Malatesti.

1405

Il passaggio di Faenza al diretto dominio ecclesiastico tanto esasperò il cruccioso Alberico da Barbiano (il quale avea sognato di farsi padrone della città del suo mortal nemico) da indurlo a ribellarsi nel 1405 alla Chiesa, ed a far manbassa su alcuni carri di frumento ch’erano condotti a Bologna, sotto pretesto d’esser creditore di gran parte del soldo dovutogli dal papa. S’ accese allora una guerra contro di lui, condotta per la Chiesa da Paolo Orsini, Carlo Malatesti ed Astorgio Manfredi; e le milizie del legato s’impadronirono d’alcuni castelli già usurpati alla Chiesa da Alberico (Castelbolognese, Doccia, Solarolo, Granarolo), assediarono Cotignola, si volsero ad Imola, fin che corsero e si fermarono trattative di pace. Dopo di che Astorgio ebbe per ricompensa, non il governo di Brisighella e di Val d’Amone (come vorrebbe il Tonduzzi, p. 460), sì bene soltanto la facoltà d’abitarvi.
Ma ben presto alcuni gravi avvenimenti di Forlì precipitarono la catastrofe di colui ch’era stato il potente, e valoroso, e subdolo signor di Faenza.
Essendo Cecco Ordelaffi presso a morire, e di lui non restando se non l’illegittimo figlio Antonio, avvenne che il popolo forlivese trucidò il 3 settembre del 1405 l’infermo signore, e si diè un libero governo comunale. Il legato card. Cossa corse allora da Bologna a Faenza, ed intimò a Forlì la resa alla Chiesa; e poiché i Forlivese non si piegavano, intraprese un’aspra guerra contro di essi, facendo micidiali scorrerie nel loro territorio. Era tra i condottieri papali anche Astorgio; il quale, forse con l’animo di preparare a sé il riacquisto di Faenza, non si fece scrupolo di tener segrete intelligenze cò Forlivese, e di rivelar loro iscritto le mosse dell’esercito pontificio.
Il cardinal legato scuoprì la nuova slealtà del Manfredi; e chiamatolo allora, con fine astuzia e dissimulando il vero, in Faenza, lo sottopose a severo giudizio, con la prova schiacciante delle sue stesse lettere intercettate lo convinse reo di alto tradimento, e lo fece condannare a morte da messer Antonio dè Pagani da Reggio, iudice dè malefizi presso il potestà di Faenza Aldrovandino Ariosti, bolognese. Sull’ uscir del novembre di quell’anno 1405, nella pubblica piazza della sua città, che tante volta l’avea visto potente e glorioso, Astorgio I Manfredi ebbe mozzo il capo al par d’un malfattore volgare, vittima egli stesso di quella malafede nella quale si era mostrato esperto in vita: tristissima fine, questa, di chi ebbe valore ed accorgimenti in animo falso ed oscuro.
La sua spoglia ebbe sepoltura nella chiesa di s. Francesco, ove la pietà del figlio Gian Galeazzo (ridivenuto, come si vedrà, signore di Faenza) gli fece celebrare un funerale anniversario sette anni dopo.

1406

Il 29 maggio del 1406, poi, il cardinal legato entrava in Forlì, arresasi onorevolmente: e d’allora per alcuni anni tacciono, o quasi, le vicende della città nostra, come di quella che era ormai accasciata e quieta sotto il rinnovellato giogo ecclesiastico. E ricomincia in essa, naturalmente, una tal quale autorità politica dei vescovi, che s’era quasi oscurata del tutto durante il precedente dominio manfrediano.
A quello Stefano Beneri, che ricordammo, erano successi sulla cattedra episcopale faentina un Francesco Uguccione Brandi da Urbino (che fu poi trasferito a Bordeaux nel 1384, e divenne Nunzio apostolico in Spagna e Guascogna, e da papa Innocenzo VII fu creato cardinale nel 1405), un Angelo dè Ricasoli fiorentino (che dalla cattedra di Firenze passò a Faenza nel 1385, forse in punizione dell’essere stato fautore d’una riforma del clero), un Orso da Gubbio (che nel 1402 fu trasferito alla cattedra di Bosa in Sardegna), un Niccolò Umbertini da Modigliana (che fu deposto non sisa per quali colpe, nel 1406), e finalmente il francescano Pietro da Pago (piccola isola nell’Adriatico), eletto il 15 giugno 1406.

1409

E quest’ultimo (che è, adunque, un Pietro III) fu nel 1409, per testimonianza dell’Azzurrini, commissario ed esecutore di certe lettere del cardinal legato Cossa; ma a noi non è dato apprendere o congetturare dalla storia quali ordinamenti in cotali lettere si contenessero.
Perdurava a quel tempo lo scandalo dello scisma d’Occidente: all’antipapa Clemente VII era successo in Avignone un Benedetto XIII (Pietro de Luna); a papa Bonifacio IX in roma avean tenuto dietro prima un Innocenzo VII (Migliorati), e poi il cardinale di s.Marco e patriarca di Costantinopoli Angelo Correr, co’l nome di Gregorio XII. E il vescovo faentino Pietro da Pago intervenne al concilio di Pisa, inauguratosi il 25 marzo 1409, nel quale, per finirla una buona volta, deposti i due contendenti Gregorio XII. E il vescovo faentino Pietro da Pago intervenne al concilio di Pisa, inauguratosi il 25 marzo 1409, nel quale, per finirla una buona volta, deposti i due contendenti Gregorio XII e Benedetto XIII, fu eletto pontefice à 26 di giugno il card. Pietro filarlo da Candia, che assunse il nome di Alessandro V. Ma tutti sanno che i pontefici di Roma e di Avignone non cedettero, e che invece di due papi se ne ebbero tre. La confusione divenne anche maggiore; nonostante la presenza del vescovo Pietro III al concilio di Pisa, sembra che Faenza continuasse ad obbedire al papa romano. Vero è che leggendosi in due carte originali dè 28 gennaio e 6 febbraio 1409 la formola “ vacante sede apostolica et regnante scismate”, è chiaro che la città attendeva ora i decreti di quell’assemblea; se non che, altri atti pubblici del luglio 1410, dell’ottobre e novembre 1411, del maggio e decembre 1412, infine del marzo, maggio ed agosto 1414, ci forniscono indubitata prova che Faenza obbediva novellamente a Gregorio XII, sebbene abbiasi un rogito del 25 novembre 1409 che si annunzia fatto “tempore Alexandri pape quinti”.

1410

Morto quest’ultimo il 3 maggio 1410, i suoi seguaci elessero a succedergli lo scaltro legato bolognese card. Baldassarre Cossa, che prese il nome di Giovanni XXIII. Questi ebbe in Faenza sicuramente dè fautori, come dimostrano tre rogiti dei 28 settembre e 1° novembre 1410, e 3 maggio 1411; nel 1412, poi, Giovanni XXIII spogliò Domnio del Giudice dell’arcivescovato di Spalatro, ed elevò alla cattedra di quella metropolitana il vescovo di Faenza Pietro: il che significa che, qualunque si fossero le inclinazioni della cittadinanza, il vescovo riconosceva per legittimo papa il Cossa.
Ma il pontefice romano Gregorio XII, che avea dichiarata nulla l’elezione di Giovanni XXIII (per essere dessa avvenuta sotto la pressione delle armi che il Cossa, qual legato pontificio, teneva in Romagna, ove aveva anche occupato, recentemente, Barbiano, Solarolo e Cotignola), non trovò di meglio che secondare opportunamente le aspirazioni degli Ordelaffi su Forlì, di Gian Galeazzo Manfredi su Faenza, per sottrarre in tal modo al rivale quelle due città. Giorgio Ordelaffi s’era di già fatto padrone di Forlimpopoli fin dal gennaio del 1410; onde il Cossa pensò d’aumentare, a sicurezza maggiore, il presidio di Forlì, diminuendo quello di Faenza. S’ allegrò di questo il Manfredi; il quale, dalla sua dimora di Val d’Amone, si mosse alla conquista di ben dodici castelli d’essa valle (dovutigli ora, del resto, per essere già trascorso il quinquennio stabilito dalle convenzioni del 1404, cfr.p. 133); indi, raccolte molte milizie, all’albeggiare del 18 giugno mosse su Faenza , e v’entrò co’l favore del suo fedel cognato Carlo Malatesti, ch’era a guardia della fortezza. Invano il capitano delle armi ecclesiastiche, Lazzaro dè Cancellieri, e il luogotenente di lui, Riccardo Pepoli, s’accinsero alla difesa; chè gl’invasori ebbero ben presto il sopravvento, e costoro furono presi prigionieri.
Tornato per tal modo Gian Galeazzo I Manfredi, dopo nemmeno sei anni d’esilio, nella perduta signoria, mentre riceveva ambasciate gratulatorie d’amici e di principi, volle dapprima sfogare la sua vendetta contro i cittadini che gli erano stati avversi, punendoli con la morte e co’l saccheggio; e poi si rivolse al papa Gregorio XII offrendosi a lui umile vassallo, e promettendo di pagargli puntualmente i censi dovuti.
E Gregorio ben volentieri, per le ragioni su dette, lo accolse sotto il suo patrocinio, nominandolo non soltanto vicario per la santa Sede in Faenza, sì anche conte della valle d’Amone: titolo, quest’ultimo, che ora per la prima volta assumono i Manfredi, permettendolo (dice il Tonduzzi, p.463) come proprio, ereditario e perpetuo a quello del vicariato, che era “temporaneo, avventizio et arbitrario dè pontefici”.
Appena riacquistato il dominio, Gian Galeazzo I Manfredi provvide a riordinare ed a definire la legislazione, come riferiscono tutti i cronisti e tutti gli storici, e come, del resto,chiaramente risulta dalla riforma dè vecchi statuti, che per fortuna si conserva nell’archivio comunale, e dalla quale si può adunque con precisione sapere qual fosse lo stato sociale e giuridico di Faenza e del suo contado a quel tempo.
E, prima di tutto, il dominio fu diviso in due parti ben distinte, la città e la valle d’Amone, le quali, se trovarono (come giustamente s’esprime il Ballardini, p.11) un nesso di congiunzione nella persona del principe, furono però rette da uffici diversi e non più subordinati l’uno all’altro. Fu questo, probabilmente, un abile atto politico a tutela degl’interssi del principato contro i pericoli procedenti dalle mutevoli condizioni della Curia romana; e così la contea di Val d’Amone , creata a discapito della città, ebbe non piùun governatore o capitano, sì bene un Visconte, nominato dal principe, che era (come abbiam detto poc’anzi) il conte della valle.
La riforma degli statuti della città (i quali, così riformati, diconsi comunemente Statuti vecchi, perché pur troppo nell’archivio comunale, che fu soggetto a tante sventure e dispersioni, non se ne trovano dè più antichi) fu opera dè giureconsulti Bernardo Casali, vicario di Gian Galeazzo, ed Ostasio da Cavina, e dè notai Cortese di Giovanni e Niccolò di Bedino; e fu certamente compilata tra il giugno e il principio d’ottobre del 1410: nel proemio, infatti, è detto che, respirando ora la città, per divina grazia, dopo tante sciagure, si determinano le leggi di essa per il buono e il tranquillo suo stato, ed a lode di papa Gregorio XII “nec non magnifici et potentis domini nostri Johannis Galeatii de Manfredis, dicte civitatis et comitatus Faventie vicarii generalis” (e si sa che Gian Galeazzo entrò signore nel giugno di quell’anno); ed in fine del codice, poi si contiene un decreto di gian Galeazzo stesso “ ad reprimendos illicitos contractos conatos officialium nostrorum”, in data del 3 ottobre 1410. Constano tali statuti di leggi in parte ricavate da statuti precedenti, ed in parte ricavate da statuti precedenti, ed in parte fatte ex novo (come dichiara lo stesso proemio), e si dividono in nove libri: il primo non ha titolo. Ma contiene le leggi su l’ordinamento amministrativo della città; il secondo tratta dei beni del Comune e della loro azienda; il terzo della procedura né giudizi; il quarto, dè maleficii (il codice penale); il quinto del “danno dato”; il sesto, degli artefici e della loro organizzazione nelle arti (e si ricordano i brentadori, ossia portatori di brente di vino o d’altro, gli orcellari, i merciai o mercanti, gli speziali, i beccari, i barbieri, i marescalchi, i fornari e panaroli, i tabernarii od osti, i fornaciari, i sarti, gli orefici, i ferratori di cavalli, i muratori, i segatori di fieno etc. etc.); il settimo, della riformazione della città e borghi; l’ottavo , degli èstimi; il nono, infine, delle cose straordinarie. Da essi noi ricaveremo da qui soltanto quelle sommarie notizie su l’ordinamento politico-amministrativo che possono contenersi nei confini di questo libro.
il capitano del popolo è, naturalmente, scomparso, perché tutti i poteri politici propriamente detti, la direzione del governo, il diritto di pace e di guerra, il comando delle armi, le relazioni con gli altri stati, sono evidentemente nelle mani del principe; il potestà(che deve essere forestiero, ed è eletto di sei in sei mesi dal consiglio generale, e che deve aver seco la famiglia, composta di giudici, notai, militi o ferrovieri) è ridotto a dirigere soltanto l’amministrazione della giustizia civile e penale: e questa dividesi in vari tribunali o banchi, quali, ad esempio, quello dell’Aquila, o tribunale criminale; quello del Re, o del “danno dato” (rifacimento di danni alla proprietà agricola); quello del Bue e del Cavallo, o tribunale dè contratti dè minorenni e delle donne; quello del Leone, che era il banco del potestà medesimo…..
Anche l’antico consiglio generale e sovrano del Comune (che era composto di circa 300 membri, ed avea vera e propria giusrisdizione politica) è scomparso; e gli è stato sostituito un Consiglio dei 100 sapiienti, detto tuttavia generale (forse per reminescenza dell’antico), od appellato anche talvolta Consiglio Generale dei 100 Buoni Uomini; ma questo novello consiglio non ha se non attribuzioni amministrative, come la compra e vendita di beni, l’imposizizone delle tasse comunali, l’elezione de’ pubblici ufficiali, tra i quali importantissimo il massaro, che ha in consegna gli averi del Comune..
Tale consiglio generale dei 100 sapienti è eletto nel dicembre d’ogni anno con un complicato sistema; il luogotenente della città (vicario del principe) e il priore degli anziani, ossia il loro capo, convocano gli anziani stessi, i quali nominano e convocano venti tra i migliori e più adatti cittadini; questi venti ne eleggono altri ottanta (quattro per ciascuno);e ciascuno dei cento così scelti deve essere confermato da una votazione e scrutinio secreto, a fave bianche e nere, fatta dagli anziani e dai venti.
I sessanta, poi, che in detto scrutinio abbiano ottenuto il maggior numero di voti, formano il Consiglio minore dei 60 Sapienti; e di questi i primi dodici compongono un piccolo consesso detto dei dodici Sapienti: e i sessanta e i dodici si rinnovano con lo stesso sistema di sei in sei mesi. Il consiglio dei sessanta delibera su speciali affari ad esso proposti dai dodici sapienti e dagli anziani. Gli anziani disbrigano gli affari ordinari approvati dai consigli; e quanto alla loro elezione, gli Statuti (lib.I,rubr.44) dicono solamente:”ellectis antinorum fiat de mense vatobris pro uno anno tunc proxime subsequenti, secundum et pront provisum fuerit et deliberatum per dictum locumentem et duodecim sapientes”.
Ma su tutte queste discussioni e deliberazioni è evidente che pesa e s’impone, quando a lui piaccia, la volontà del principe, il quale regola in sostanza a suo arbitrio tutto lo Stato. Pur tuttavia s’ingannerebbe chi credesse che il principe sia un tiranno nel senso che egli si faccia oppressore del popolo. A Faenza, come altrove, il signore crea un governo coercitivo e vigile contro la precedente oligarchia delle grandi famiglie, le quali turbavano con le loro ambizioni, con le violenze, con le lotte, la vita cittadina; e per questo accarezza e sostiene le classi popolari, sulle quali necessariamente si appoggia. Per questo, pariamente, sono conservate, negli statuti riformati del 1410, quelle leggi contro i magnati, o nobili, (conti capitani militi), che sono senza dubbio anteriori alla riforma di Gian Galeazzo, e nelle quali è evidente l’analogia con i famosi ordinamenti di giustizia di Firenze (1293-4). Nessuno dè magnati può in Faenza essere elettore od eletto a far parte dè consigli, né esercitare alcun ufficio pubblico, né salire mai le scale del palazzo comunale, né stare nella piazza o adiacenze, quando il consiglio generale dei 100 sapienti è adunato per la nomina del potestà o dei pubblici ufficiali; debbono il podestà o gli anziani esigere dai magnati tutti una sicurtà o garanzia contro ogni loro tentativo ai danni dello Stato; infine le colpe dè magnati debbono esser punite con il doppio della pena comune, e gli omicidi sempre con la morte e con la confisca dei beni. E gli statuti(lib.IV, rubr.11 e 67) dànno persino l’elenco di quelle famiglie che debbono intendersi nobili: gli Zambrasi, gli Accarisii, i Rogati, i Pagani, gli Ubaldini, i Fantolini, i conti di Cunio, gli stessi Manfredi. La Formazione di tale elenco è, almeno in parte, posteriore alla morte di Maghinardo Pagani (1302), da che in esso sono ricordati, tra gli altri nobili, anche “dominus Franciscus quodam domini Ursi de Campofloris et uxor eius Francisca, filia quondam Maghinardi Pagani”; né la conservazione del nome dè Manfredi in esso dee punto meravigliarci, giacchè il signore stima pericolosi più degli altri i suoi stessi parenti, i quali sono i suoi rivali per eccellenza, e spesso nell’apparente uguaglianza di trattamento cò suoi consanguinei egli trova più facilmente la ragione ed il modo di colpire gli altri.
D’altro canto, invece, è notevolissima la condizione di privilegio concessa alle corporazioni delle arti, delle quali i consoli debbono essere approvati dal potestà e dagli anziani, e assistono e prendon parte, in numero di due per l’arte dei notari, d’uno per ciascuna delle altre arti, al consiglio generale dei 100, quando in esso si procede all’elezione dè pubblici ufficiali.
Quanto alla Val d’Amone, ebbe essa, naturalmente, statuti suoi propri e speciali, che furono compilati dal vicario di Gian Galeazzo, Bernardo Casali, e che dividonsi in quattro libri; il primo non ha titolo, ma contiene le leggi su l’ordinamento amministrativo della valle; il secondo tratta della procedura né giudizi, il terzo, dè maleficii (codice penale); il quarto, infine, delle disposizioni straordinarie. La valle è divisa in piccole circoscrizioni amministrative, dette scole; il Visconte di essa, nominato dal conte, ha poteri politici e amministrativi, non solo sì anche giudiziari (ossia tien luogo di potestà); deve aver seco un notaro, sei famigli, tre cavalli, risiedere in Brisighella, e durare in ufficio sei mesi. È assistito da un consiglio di 40 Buoni Uomini, scelti da ogni scola ad arbitrio suo e dei due priori, secondo che loro piaccia, e si raduna per loro invito nella chiesa di san Michele, e tratta affari di ordinaria amministrazione, come la compra e vendita di beni, l’imposizione delle tasse, l’elezione dè pubblici ufficiali, tra cui il massaro, il sindico, o procuratore della valle etc.
Tale, per sommi capi, il riordinamento giuridico fatto sotto gli auspicii di Gian Galeazzo I; il quale, dappoichè in più cause e giudizi gli statuti della città così riformati venivano posti in dubbio, per non aver essi avuta ancora la sanzione ufficiale del principe, li confermò solennemente, e li approvò in ciascuna parte con suo speciale decreto del 31 decembre 1414, che ora si legge premesso agli statuti medesimi. Da tal decreto (tra i cui testimoni è ricordato il potestà di quel tempo, Bartolomeo Lanfranchi da Pisa) risulta che, come osserva il Tonduzzi (p.469), “il magistrato degli anziani in tal anno era composto parte dell’ordine dè cittadini, parte dell’ordine popolare”, giacchè i nomi degli anziani in esso riportati sono i seguenti: “Magister Franciscus magistri Victorii,Ser Antonius de Monticalo, Ser Zampaxius de Paxiis, Magister Pepus Mutii calzolarius, Benedictus Dilani Calegharius, Nicolaus Nanni muscharius (profumiere?)”.

1411

Provveduto all’interno,Gian Galeazzo cercò assicurarsi all’estero, e concluse il 27 aprile 1411 una lega d’otto anni con Carlo Malatesta di Rimini, suo cognato, che seguiva pure le parti di Gregorio XII;d’altro canto, invece,Giorgio Ordelaffi (che alla fine avea ottenuto amichevolmente in vicariato Forlì dal Cossa) e Ludovico Manfredi (figlio d’Almerico di Giovanni d’Alberghettino), signore di Marradi, si collegavano con giovanni XXIII. A ciò contribuì, forse, l’avere Gian Galeazzo occupato a Ludovico il castello di Gattara, onde questi se ne lagnò cò Fiorentini suoi alleati, e i Fiorentini (15 gennaio 1412) còl signore di Faenza; il quale, prevedendo doversi sostener colle armi contro il Cossa, pensò anche al restauro delle sue rocche ed a far provvigione di viveri.

1412

Dovendo, poi, recarsi a Rimini, e temendo dell’Ordelaffi di Forlì, chiese un salvacondotto per passare dal dominio di Firenze; e durante quel viaggio lasciò suo vicario in Faenza il Fiorentino giovanni Aldobrandini, e visconte in Val d’Amone Niccolò Manfredi, figlio di Enrico detto Buzzuola. Tornato in patria, fece nominar potestà un Giovanni Pasi, e mandò al governo della valle Aloisio Manfredi, invece di Niccolò.
Le previsioni di Gian Galeazzo si avverarono presto, chè il legato di Bologna per Giovanni XXIII mandò à danni del territorio di Faenza le sue milizie.

1413-1414

Onde il Manfredi, per espresso ordine di Gregorio XII (cui premeva forse romper gl’indugi contro il rivale), disdisse, con sua lettera del 25 febbraio 1413, la tregua già stipulata con quel legato. Scoppiate adunque palesi le ostilità, narra il Tonduzzi (p.466) d’una battaglia avvenuta presso Faenza, l’anno 1414, tra le genti di Ladislao re di Napoli ed altri collegati a favore di Gregorio, condotte da Carlo Malatesti, da un lato; e i Bolognesi, Fiorentini ed altri aderenti a Giovanni XXIII, dall’altro lato: battaglia che sarebbe finita con la peggio del Malatesti, il quale a mala pena scampò con la fuga. Che la battaglia, se vi fu, avvenisse nel territorio faentino, e che i Fiorentini fossero congiunti ai Bolognesi in quel fatto d’arme, dubita forte il Valmigli (IX, 178); ad ogni modo l’Azzurrini (Mittarelli, col.340) afferma che Carlo Malatesti, con le genti di Ladislao, ebbe a rifugiarsi, per timore dè Bolognesi, in Faenza, ove rimase molti giorni; e d’altro canto è certo che i Fiorentini, paurosi che le ire del re di Napoli contro Giovanni XXIII non si rivolgessero ai lor danni, si adoperarono alla conclusione d’una pace con Ladislao, che fu fermata il 22 giugno.

1416

Convocatasi, intanto, il concilio di Costanza, risoluto a por fine allo scisma: Giovanni XXIII era deposto ed imprigionato, Gregorio XII abdicava, Benedetto XIII, abbandonato da tutti, pontificava ridicolmente su 1416 pochi seguaci; quando su l’entrare del 1416 i principali cittadini di Bologna s levarono a rumore contro l’odiato giogo ecclesiastico, e con tale fortuna da imprigionare il prepotente legato Antonio Casini, vescovo di Siena, e rivendicarsi a libertà. Mosse, allora, su Bologna con le sue genti il celebre Braccio da Montone, condottiero della Chiesa; ma essendo la città bene agguerrita, ed a Braccio premendo più che altro la riscossione di certe paghe dovutegli, si venne il 12 gennaio ad un accordo, restituendo quegli alla città, in compenso di danaro, certi castelli del contado, avuti dal papa. Il Valmigli (IX, 185) nega che, come vorrebbero il Tonduzzi ed altri, alle milizie di Braccio si fossero aggiunte quelle di Gian Galeazzo Manfredi, e che Braccio e il Manfredi facessero, insomma, causa comune: è certo però che nei patti stipulati tra Braccio e Bologna il Manfredi è molto ricordato, perché i Bolognesi s’impegnano a far con lui una lega offensiva e difensiva di quattro anni, per cui si concede a Gian Galeazzo il libero possesso della casa che fu di Francesco II, suo zio paterno, in Bologna, detta volgarmente albergo del re, non solo, ma anche si stabilisce che, facendosi dai bolognesi acquisti di castelli o luoghi nella diocesi faentina, ciò intendasi acquistato per il Manfredi ed in suo nome. Vuole il Tonduzzi (p.470) che, per effetto di ciò, Gian Galeazzo, venisse in possesso del castello di Oriolo, prima tenuto dall’Ordelaffi; ma il Valmigli (IX,185) gli presta poca fede.
Allontanatosi da Bologna, volle Braccio riprendere la sua Perugia e l’assediò; v’accorse allora a difesa, per invito dè Perugini, Carlo Malatesti, ma dopo aspra battaglia cadde prigione di Braccio:ed allora, a liberare il cognato del Manfredi, si fè innanzi, inviato dai Veneziani à cui servigi trovavasi, il faentino Martino Bernabucci, illustre capitano di quel tempo.

1417

Costui, unite le sue genti con quelle di Pandolfo, fratello di Carlo, s’avviava minaccioso a Perugia, quando Carlo riusciva ad ottenere, per molto danaro, la libertà; se non che, non si sa per qual ragione o sospetto (forse fu invidia), il crudele Pandolfo imprigionò poi slealmente il prode Bernabucci in rimini, e lo fece decapitare nell’ottobre del 1417.
Il 16 dello stesso mese moriva di peste in Faenza Gian Galeazzo I Manfredi, lasciando sei figli: Carlo I, Guidantonio detto Guidaccio, Astorgio II, Gian Galeazzo II, Marzia e Ginevra. Del primogenito Carlo I, nato a rimini poco si sa perché morì giovanissimo ( lo ricorda il Sanudo nelle Vite dei Dogi, quando ci fa sapere che il 4 marzo 1417 furono fatti nobili del maggior consiglio di Venezia “el magnifico e potente signor Zuam Galeazo fo dil signor Estorgio di Manfredi di Faenza, et li magnifici Carlo, Guido Antonio et Astorgio soi fioli legiptimi”); quanto alle femmine, Marzia andò sposa a Tommaso da Campofregoso di Genova, e Ginevra ad Ostasio da Polenta. Il non essere Gian Galeazzo II ricordato affatto nella sua detta notizia del Snudo, ci fa ritenere ch’ei fosse figlio postumo: il che è confermato da un atto pubblico del 6 decembre, in cui è ricordato il potestà di Faenza Pietro Bonaccioni da Siena (succeduto ad un Andrea Scotti) “pro magnificis dominis Carlo,Guidantonio et Astorgio de Manfredis”; dal quale atto si apprende altresì che a Gian Galeazzo I successero nel vicariato i figli tutti insieme, non il solo primogenito. Furon essi, però dapprima sotto la reggenza della madre Gentile Malatesti, come si ricava da quello che ora diremo.
Dopo Pietro da Pago, la cattedra vescovile faentina fu vacante per due anni circa, a causa dello scisma: poi (ma non prima del 3 marzo 1414, in cui il capitolo, stante la vacanza episcopale, eleggeva un vicario) fu nominato un Antonio da Solarolo, il quale non ottenne, in quel trambusto di papi e di lotte, alcuna conferma pontificia.

1418

Finalmente, sul principio del 1418, fu nominato vescovo il Fiorentino Silvestro della Casa, cui papa Martino V (l’eletto del concilio di Costanza, cò l quale fu posto fine allo scisma) indirizzò il 7 febbraio una bolla, dandogli facoltà di sopprimere oppur di riunire in un solo istituto gli spedali della Ramiola, di madonna Bianca, di s.Spirito, dè Medici, di s.Lazzaro, di Vallombrosa e Nuovo, i quali eran giunti ormai all’ultimo grado di scadimento. Ora, proprio in favore di tale vescovo Silvestro, lo stesso Martino V il 4 Aprile esortava con una sua lettera la reggente di Faenza Gentile Malatesti a lasciar libero l’esercizio episcopale di costui, al quale pare che ella fosse avversa. La qual madonna Gentile continuò a valersi, nelle cure del governo, di quell’esperto Bernardo Casali che vedemmo nell’ufficio di vicario, o sia di primo ministro, sotto Gian Galeazzo I Manfredi.

1419

Quando, poi, partitosi papa Martino da Costanza, se ne venne in Italia, e nel febbraio 1419 passò per Ravenna, la reggente Gentile si recò a fargli omaggio, e chiese ed ottenne per i suoi figliuoli la rafferma del vicariato di Faenza, come già l’avea avuta il padre loro. Nell’ aprile dello stesso anno, il giovine conte Alberico da Cunio si diè a scorrere il contado faentino, facendo guasto non poco; onde madonna Gentile chiese aiuti a Opizzone da Polenta, signore di Ravenna; e il polentano dapprima ricusò, memore di una scortese risposta a lui data in consimile caso dagli anziani di Faenza, ma s’indusse di poi ad un accordo di scambievole protezione.
Martino V, frattanto, agognava alla riconquista di Bologna, tuttora reggentesi a popolo; e Bologna comprava da lui la propria libertà con un tributo annuo di 8000 fiorini d’oro. Se non che, l’ambizione e la tumultuosa smania di Anton Galeazzo Bentivoglio di rinnovare in sé la paterna signoria, accende in quella città il disordine e le ire di parte; del che profittando il papa ebbe procurato che tutti i principi di Romagna (Polentani di Ravenna, Malatesti di Rimini, Ordelaffi di forlì, Manfredi di Faenza, Alidosi d’Imola) significassero al Comune Bolognese che essi, come vicarii ecclesiastici, non avrebbero potuto rifiutare le loro armi al papa, ove questi avesse voluto ricorrere alla forza; ed allora Martino fulmina l’interdetto su la città, e il 17 maggio Braccio da Montone, Ludovico dè Migliorati e Angelo della Pergola, capitani al soldo della Chiesa, obbligano Bologna ad arrendersi, e vi entrano da padroni. Composte così le cose di Romagna, Martino V entrava il 30 settembre, trionfante, in Roma allora deserta e in ruina.

1422

Il novello duca di Milano Filippo Maria Visconti, frattanto, avea felicemente ricostituito il ducato, sfasciatosi alla morte del padre suo Gian Galeazzo; e fatto ardito dal buon successo, spinse ora, nel 1422, le sue genti in Romagna, guidate da Angelo della Pergola. I Fiorentini, allora, vedendo ch’ei riprendeva il programma politico del padre, e aspirava al primato in Italia, gli ruppero guerra.

1424

Ma le sue milizie, continuando nell’impresa romagnola, 1424 occuparono Imola il 1° febbraio del 1424, imprigionando Ludovico Alidosi con Bertrando suo figlio, e ponendo fine alla signoria di quella famiglia. Il pericolo era gravissimo per i Manfredi; i quali non trovarono altra via d’uscita onorevole se non quella di schierarsi dalla parte del Visconti, e porsi sotto la tutela del temuto Filippo Maria, preferendo un protettorato ed una alleanza con lui alla perdita del dominio. Così troviamo che nell’ottobre di quell’anno, Guidantonio Manfredi è nominato dal duca di Milano capitano di 300 cavalli, e l’8 novembre accoglie magnificamente in Faenza il della Pergola, reduce da Dovadola, dà Fiorentini ceduta al Visconti.
Divenuti, per tal modo, i Manfredi necessariamente nemici della repubblica fiorentina, furono tra quei baldanzosi che si levaron contr’essa dopo la rotta di Zagonara (24 luglio) dà Fiorentini sofferta; e narra il cavalcanti (hist.fior.), solo per verità tra gli storici a raccontar questo fatto, che madonna Gentile Manfredi abbandonò l’ago ed il fuso per battere le terre toscane, ed assalir Modigliana. Pare che ella, montata a cavallo e scortata da damigelle, facesse alle sue genti un bellicoso discorso; ma alle parole non seguirono i fatti, perché le milizie di lei furon volte per tornarsene incolume all’ombra delle sue bende vedovili.

1425

I Fiorentini, sdegnati per l’alleanza dè Manfredi co’l duca di Milano, inviarono contr’essi, su l’uscir del gennaio 1425, un esercito di 5000 uomini agli ordini di Oddo dè Fortebracci, figlio di Braccio, e in cui militava anche il celebre Niccolò Piccinino (ch’era il vero capo morale della spedizione); ma entrate cotali milizie in val d’Amone, e colte dall’esercito manfrediano, e più dagli astuti montanari del luogo, in certe strette pericolose presso la pieve d’Ottavo, vi subirono il 1° febbraio una tremenda rotta, nella quale furono morti niente meno che Oddo stesso e il commissario fiorentino Baldassarre Castellani, e molti furon presi prigioni, tra cui il Piccinino cò l figlio e Niccolò Orsini. Molto si distinse per valore in quell’audace assalto il giovine Guidantonio Manfredi, e prode assai si addimostrò, fra gli altri capitani di lui, un Rondinino dè Rondi da s.Giorgio, dal quale ebbe origine la famiglia Rondinini: ma la vittoria fu dovuta sopra tutto all’impeto dè villani di val d’Amone, non solo, sì anche all’insipienza di Ludovico Manfredi, signore di Marradi, che, postosi a guida delle genti del Piccinino, non seppe far loro evitare i malagevoli passi in cui furono sorprese. Lo scaltro Piccinino se ne stette quattro mesi prigioniero a Faenza, me riuscì a persuadere al Manfredi di staccarsi da Milano per istringersi, invece, d’alleanza con l’antica e potente amica degli avi suoi, Firenze; oude Guidantonio, fornito da quest’ultimo di ben 2000 cavalieri agli ordini di Bernardino della Carda degli Ubaldini, non solo liberò il Piccinino (per danaro, s’intende), ma anche si fè animo a dichiarar guerra il 29 marzo al Visconti, con regolare disfida al capitano di lui, che in questo tempo reggeva in suo nome Forlì (datasi in protezione al Visconti fin dal 1422, quando, morto Giorgio Ordelaffi, di lui non rimase se non il piccolo figlio Tebaldo). Seguirono poscia scambievoli scorrerie di milizie Manfrediane su’l territorio di Forlì (5 aprile), e di genti ducali su’ l territorio e fin sotto le mura di Faenza (ottobre), senza, però, che si venisse ad aperta e decisa battaglia.
L’ accordo tra Guidantonio e la repubblica fiorentina provocò le ire di Ludovico Manfredi, il quale per antico patto co’ l comune di Firenze avrebbe dovuto essere richiesto del suo consenso; onde si diè egli a far rappresaglie d’ogni maniera contro i Fiorentini. Allora, i dieci di balìa lo attrassero con lusinghiere parole a Firenze, ed appena egli ebbe abboccato all’amo, lo cacciarono in prigione; e più tardi (luglio-agosto 1428), quando furon liberi da altre cure, inviarono milizie agli ordini di Bernardino Ubaldini, e co’ l commissario del comune Everardo dei Medici, a togliere a Ludovico i castelli di Marradi, Castiglionco ed altri luoghi, che in breve si arresero. Così lo sventurato Ludovico perdette ad un tratto la libertà e il dominio, e languì per circa trent’anni nelle carceri delle Stinche, donde lo tolse soltanto, impietosita finalmente, la morte. Di questo novello ed oscuro dramma giunse fino a noi una mesta eco non pur nelle preghiere e suppliche che Giovanni Manfredi, fratello del prigioniero, rivolse a Cosimo dè Medici, invocandone la liberazione, sì anche in certi scritti di Ludovico stesso, il quale fù cultore della poesia, ed amico degli ameni studi. V’è una lettera dell’infelice a Lorenzo il Magnifico, ch’è un grido dell’anima straziata: “io reconoscerò da voi l’essere et ogni mio bene, disposto vivere et morire à comandamenti vostri; per Dio, non vogliate ch’io consumi più li miei dì in questa miseria …”; e d’altro canto una triste ottava, composta nel 1449, lamenta così l’inesorabilità del duro fato:
Consumata l’età, perduto avere,
ove bene sperava, in grave lucto
sei anni con diciotto mal conducto
in carcer thetra son contra dovere;
misericordie degna far sapere
ora piacerti che, non più distrutto
da chì può sia, perocchè a tutto
è signor soli posson provvedere”.

1426

I Veneziani, temendo della fede del Visconti, s’unirono essi pure, nel 1426, in lega co’ Fiorentini, alla quale aderirono il marchese di Ferrara, il signore di Mantova, il duca di Savoia ed i Sanesi; onde la guerra s’accese in Lombardia, e Guidantonio soccorse anch’egli di duecento lancie gli alleati che stavano per espugnar Brescia, mentre il 7 febbraio otteneva per trattato del castellano la rocca di Granarolo, già occupata dalle milizie viscontee. Imola (già tolta, come vedemmo, agli Alidosi), Forlì e Forlimpopoli (già libere dalla signoria, per la morte del piccolo Tebaldo Ordelaffi) passarono direttamente alla Chiesa, che vi mandò un suo legato. E l’incendio della guerra minacciava d’allargarsi dalla Lombardia in quasi tutta Italia, quando papa Martino V seppe indurre i Veneziani e il Visconti alla pace, che fu conclusa il 30 decembre.

1428

L’ accorta madonna Gentile, pè cortesi uffici dè Fiorentini, ebbe in quell’occasione non solo 1428 l’assoluzione papale dal debito di certi censi non pagati alla s.Sede, ma anche, nel 1428, la rafferma del vicariato di Faenza, aggiuntivi i castelli di Solarolo e Baffadi, già occupati dal Visconti.
Intanto in Bologna i Canetoli, gelosi del favore che Anton Galeazzo Bentivoglio godeva presso il papa, e timorosi d’una signoria bentivogliesca, promossero una ribellione popolare, onde nella notte del 1° agosto del ’28 fu cacciato il legato pontificio. Il papa fulminò allora anatèmi e scomuniche, e mandò nel settembre molte milizie (guidate sopra tutto da Iacopo Caldora, espertissimo capitano della regina di Napoli) ad assediar la ribelle città.

1429

Anche i Manfredi concorsero in quell’impresa, con 400 cavalli agli ordini di Guidantonio, che il 1° aprile del 1429 andò all’assalto di Borgo Panigale; ma ammalatosi poscia, o disgustatosi, lasciò a capo delle milizie faentine il fratello Astorgio, e se ne tornò il 1° maggio a Faenza. Bologna dovette finalmente arrendersi (settembre), e la sua sottomissione fu fermata cò l card. Lucido Conti, legato di Romagna.
Datisi, adunque i fratelli Manfredi, come già il padre loro, al mestiere dè condottieri, noi li troviamo, su la fine del ’29, al soldo dè fiorentini contro Lucca, ch’era soccorsa da Niccolò Piccinino.

1430

Riferisce il precitato Cavalcanti che nella battaglia del 2 decembre 1430, in cui le milizie di Firenze furono rotte, “il signor di Faenza (Guidantonio) cercava onore con pericolo più che sicurtà con disonore”, e che Astorgio, suo fratello, era “franco giovine” più che l’età consentisse (nacque l’8 decembre 1412), e forte nell’arme, e degno d’ammirazione. Secondo il Graziani (Cron. Di Perugia in Arch. storico ital.tomo XVI), i Lucchesi avrebbero in quella fortunata battaglia presi prigionieri non pochi, tra cui “Niccolò dè Fortebracci, Astorre da Faenza, un Barbiere ed un Antonello pure da Faenza” ma il Valmigli (X,60) non presta fede alla notizia della cattura di Astorgio. Degli altri due fratelli Manfredi, Gian Galeazzo II dovea esser tuttavia, per ciò che dicemmo, in tenera età, e Carlo I era ormai sicuramente morto, se un rogito del 27 settembre 1430 ricorda un dott. Francesco Salvolini, vicario del potestà di Faenza Bartolomeo Baldana da Udine “pro magnifici dominis Guidantonio, Astorgio et Iohanne Galeatio de Manfredis, comitatus vallis Hamonis, etc.”.

1431

Ritornati Guidantonio ed Astorgio in Faenza il 17 gennaio del 1431, sposò il secondo di essi, il 6 febbraio, tra feste e spettacoli pubblici, la leggiadra Giovanna, figlia del conte Ludovico Vestri da Cunio; ed il primo accettò una condotta dai Veneziani che, dopo la vittoria di Maclodio nel ’27, e la pace nell’anno di poi (per cui avevano ottenuto Bergamo e Brescia), ricominciavano ora la guerra e, non ostante la patita rotta di Soncino (16 marzo 1431), si accingevano a ritentar la sorte delle armi, forti com’erano di nuove milizie agli ordini del Carmagnola. Il Sanudo (Vite dei Dogi) parla dei quattro sovrastanti al campo veneziano, con duecento ducati mensili di provvigione per ciascuno, e ciò è il signor di Faenza, Luigi Dal Verme, Luigi di s.Severino e Lorenzo da Cotignola; e del magnifico signor di Faenza dice che conduceva 400 lance, ossia 1200 uomini d’arme, ed era il secondo, dopo il Carmagnola, per forza e numero di soldati; né tace d’uno Scariotto da Faenza, che ne guidava 40, né della grave sconfitta toccata il 22 giugno dalla flotta veneziana nel Po di Cremona, dalla quale uscì salvo il Manfredi.

1432

Quando quest’ultimo, il 2 gennaio 1432, rientrò nella sua città natale, ebbe una sgradita sorpresa: Astorgio II, suo fratello (che v’era rimasto al governo), per favorire Antonio, figlio naturale di Cecco Ordelaffi, il quale con gli aiuti del duca di Milano tentava ritogliere Forlì alla Chiesa, era passato a servigi di quello stesso Visconti che egli Guidantonio avea finora combattuto in Lombardia. Ne seguirono discordie e diffidenze in famiglia, onde Guidantonio (nelle cui mani, sì come in quelle del maggiore d’età, era in sostanza il governo, sebbene il vicariato e lo stato appartenessero, come sappiamo a tutti e tre i fratelli) mutò prudentemente il castellano della rocca e ritornò poi, sdegnato, sotto le bandiere venete in quell’anno stesso. Dal canto suo Astorgio, convocato, il 24 marzo, il consiglio generale dei Cento, partecipò ad esso il suo accordo co’l Visconti e la sua partenza dalla patria, per seguire, sì come fece, le milizie ducali, ed avviarsi con 400 cavalli da Lugo ai castelli di Zagonara e della Massa, di parte viscontea. Il tentativo dell’Ordelaffi, poi, fallì del tutto, dicesi per le incertezze e per gl’indugi di Astorgio medesimo (suggeriti da chi sa qual secreto motivo!) ad affrontare il castellano della rocca forlivese; onde il governatore di Forlì raddoppiò la vigilanza, anche per impedire le mosse di madonna Gentile, la quale, accordatasi con le genti di Val d’Amone, sembra pensasse d’impadronirsi di quella città a favor dè suoi figli.

1433

Nuovi timori assalirono quel governatore quando ei seppe dell’arrivo in Faenza di Bernardino della Carda degli Ubaldini con un messo del duca di Milano; ma ogni cosa finì con la pace di Ferrara (26 aprile 1433) tra il Visconti da un lato, e i Veneziani ed i Fiorentini dall’altro.
Tal pace chiudeva il lungo periodo d’ostilità sui campi lombardi, e riconduceva finalmente a Faenza, il 20 luglio, il prode e forte Guidantonio Manfredi; il quale crucciato tuttavia co’l fratello Astorgio per le sudette ragioni, riprese di fatto in sua mano il governo, imprigionò un tal Bartolomeo famigliare d’Astorgio, cacciò di città quanti vi fossero armati delle milizie ducali (che trovavansi di presidio a Lugo), e nel termine d’un sol giorno diè il bando da Faenza e dal suo territorio, pena la vita, a tutti coloro che non fossero di parte guelfa. Co’l pretesto, poi, di sostenere ovunque il dominio ecclesiastico, Guidantonio s’avventurò in imprese dalle quali sperava un allargamento della propria signoria:così quando in Forlì una nuova congiura di nobili e ghibellini per rimettere in signoria l’Ordelaffi ebbe sollevato il popolo, il 26 decembre, occupato il palazzo pubblico, ed imprigionato il governatore, Guidantonio mosse in fretta verso quella città, e s’adoperò (sebbene inutilmente, perché la rocca fu data all’Ordelaffi) con abili tentativi e preghiere al castellano per impossessarsene, sotto colore di tenerla per il pontefice.

1434

Così del pari, su l’entrar del 1434, quando Imola si ribellò alla Chiesa, il Manfredi, ch’era già venuto in signoria dè castelli di Tossignano e Doccia, si dispose il 18 gennaio ad assediarla, sempre sotto colore di ricondurla all’obbedienza del papa, ma non riuscì nell’intento, perché giunsero a tempo in soccorso agl’ Imolesi le milizie del duca di Milano (acui la città s’era data in protezione): onde Guidantonio giudicò opportuno ritirarsi, a malgrado dè maneggi del castellano della rocca e del legato pontificio della Marea, ch’era in Faenza, per indurlo ad entrar in campo contro le genti viscontee.
Frattanto, mentre Astorgio II tornava di Lombardia con grangioia di molti (i quali vedendolo male in arnese stimarono fosse stanco e disgustato del Visconti), i figli del conte Alberico da Cunio, venuti a contesa co’l cugino loro Giovanni, lo cacciarono dalla signoria di Lugo, ma incerto della vittoria si volse al castello di s.Agata e se ne impadronì, poi marciò su Massa Lombarda e l’ebbe in sua mano il 4 di giugno. Durante la sua assenza le milizie ducali a guardia d’Imola corsero due volte il territorio faentino senza che il Manfredi si muovesse a respingerle, fisso com’era nel pensiero di restituir Giovanni nella signoria di Lugo; se non che quest’ultimo fu colto da morte il 22 luglio, ed allora Guidantonio, a vendetta delle ingiurie imolesi, espugnò il castello di Cantagallo e si spinse fin sotto le mura d’Imola, donde si ritrasse finalmente, per ritornarsene baldanzoso a Faenza.
Accettando la signoria d’Imola aveva Filippo Maria Visconti contravvenuto alla pace di Ferrara (cfr.p.149); ed era da prevedere, adunque, un novello scoppio delle ostilità. Difatti, alle ire dè Veneziani e dè Fiorentini si aggiunsero quelle del papa, che rivoleva tale città, e molto temeva ora per Bologna, sempre insidiata dai Canetoli: onde, rinnovatasi la lega antiviscontea, ecco i Veneziani spedire il celebre Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, con 1000 lancie ad impadronirsi di alcune castella del bolognese; al quale s’aggiunsero le forze di Guidantonio Manfredi, quando si seppe che Bologna, sollevatasi, avea imprigionato il governatore pontificio ed avea ricevuti rinforzi da Milano. Il Manfredi prese Castelbolognese ed altri luoghi intorno ad Imola: ma il Visconti, a troncarne le conquiste, inviò in Romagna un rosmino con 3000 cavalli e 1000 fanti, sì che ben presto (luglio) s.Agata e Massalombarda cedettero alle forze viscontee; e finalmente entrò in campo per il duca di Milano l’astuto e valoroso Niccolò Piccinino. A questo dettero subito molto filo da torcere i capitani della lega (Guidantonio, il Gattamelata, Gianpaolo Orsini, Luigi dal Verme etc.) quand’egli, il 25 agosto, tentò di riavere Stignano, in quel d’Imola, già occupato dal Manfredi; ma il Piccinino attendeva il momento buono per battere gli avversari, profittando delle loro discordie. Fatto è che, insomma, dopo alcune scorrerie e fazioni (tra cui notevole quella di Guidantonio alla Serra, vicino a Castelbolognese), Niccolò Piccinino piombò improvviso su’l nemico tra S.Lazzaro ed Imola, presso il rio Sanguinario, il 28 del predetto mese, e con tale impeto da sbaragliarlo compiutamente; 3500 cavalli e 1000 fanti dè collegati furon fatti prigionieri, e tra i capitani restaron presi (e furon mandati a Milano) l’Orsini, Taddeo d’Este, Astorgio Manfredi, Ludovico da Forlì, Niccolò da Tolentino; il Gattamelata potè salvarsi.

1435

Dopo una sì strepitosa vittoria, il Piccinino occupò Castelbolognese e Granarolo (settembre); e perdurando poi la guerra tra il Visconti e la lega, Guidantonio, che era scampato con pochi dè suoi a Faenza, revocava con decreto del 28 gennaio 1435 i salvacondotti concessi agl’Imolesi ed a quelli del loro contado. Raffermata, inoltre, la sua condotta al soldo dei Veneziani co’l titolo di capitano di Romagna, tentò invano d’impadronirsi di Lugo: e Niccolò Piccinino, frattanto, inteso a respingere i Malatesti dal contado forlivese, danneggiava il territorio di Faenza con ogni maniera di ostilità: donde scorrerie e rappresaglie reciproche. E già Francesco Sforza, il quale era passato dalla parte viscontea a quella della lega, divenendo marchese d’Ancona, univa nel luglio le proprie milizie a quelle del Gattamelata e di Guidantonio, ed in quel di Cesena stava per avvenire una nuova battaglia, quand’ecco a sospendere le ostilità giungeva notizia dell’accordo prossimo a conchiudersi fra la lega e il Visconti, e che si conchiuse, infatti, il 10 agosto. Tra le altre condizioni, vi furono le seguenti: sottomissione d’Imola al papa, e cessione da parte di Guidantonio agl’Imolesi dè castelli, da lui occupati, di Tossignano, Riolo, Sassatello, Montebattaglia e Baffadi.

1436

La qual pace avea un lieto coronamento il 19 marzo 1436 con il libero ritorno in patria di Astorgio II, tra manifestazioni di pubblica allegrezza.
Ben presto, però, ricominciarono i malumori e le ragioni di riaprire la lotta. Da Bologna Eugenio IV papa ordinò allo Sforza di muover contro l’Ordelaffi di Forlì, ch’era ossequente al duca di Milano; e lo Sforza, insieme con Guidantonio Manfredi, non soltanto assalì e prese Forlì (11 luglio), costringendo antonio Ordelaffi a riparare in Ferrara, ma ridusse all’obbedienza della Chiesa anche Lugo (ceduta poi dal papa in feudo al marchese di Ferrara), mentre il conte Ludovico da Barbiano, signore di essa, se ne andava presso il Visconti.

1437

Levatisi, poi, in armi contro quest’ultimo anche i Veneziani, Guidantonio si ricondusse agli stipendi della lega antiviscontea, insieme co’l giovine fratello suo Gian Galeazzo II (26 settembre 1437); e li raggiunse più tardi, su’l cremonese, dopo risanatosi da una malattia, anche Astorgio II: ma nella loro assenza Gian Paolo Orsini, capitano della Chiesa, venne ad alloggio ed a guasto, benché loro alleato, nel territorio faentino, che molto ebbe a soffrirne.

1438

L’8 febbraio del 1438 tornarono i fratelli Manfredi a Faenza, assai poco soddisfatti del trattamento dè Veneziani: onde Guidantonio assoldatasi al servizio della Repubblica Fiorentina, ed Astorgio passava senz’altro alla contraria parte, ciò è al Visconti. E mentre Niccolò Piccinino, venuto con milizie viscontee in Romagna, per la via di Forlì muoveva, verso la fine di marzo, su Ravenna, Astorgio ed Antonio Ordelaffi espugnavano à Fiorentini Oriolo, disputandosi poscia tra loro il dominio di quel castello, che restò ad Astorgio, sì come al più forte. Da Oriolo mosse questi, poi, su Bagnacavallo, Russi ed altri luoghi del ravennate, togliendoli al cognato suo Ostasio da Polenta (che fu costretto finalmente, dopo molte promesse e minaccie, ad uscir dalla lega co’ Veneziani per aderire al Visconti); à quali si aggiunse Fusignano, donato ad Astorgio dal Piccinino stesso, in premio del suo valore. Infine anche Bologna cedette alle armi congiunte del Piccinino e di Astorgio Manfredi; e Forlì ed Imola si ribellarono alla Chiesa per darsi in protezione al Visconti (ed in Forlì ritornava, naturalmente, Antonio Ordelaffi).

1439

Guidantonio, allora, ammaestrato da fatti così eloquenti, temendo per sé e per la sicurezzadel proprio stato, s’accostò egli pure al duca di Milano, al cui soldo passò, e ne ebbe in dono, per ricompensa (26 aprile 1439), la signoria d’Imola co’l suo territorio: onde il Sanudo, certamente disilluso, scriveva: “ a dì 29 aprile, s’ebbe che il duca di Milano avea donato Imola al signore di Faenza, e che il detto avea tolto partito di non essere più con esso noi, sì che questa non è la prima ch’egli abbia fatto”. Secondo l’anonimo compilatore del Diarium ferrariense, il Visconti avrebbe regalato a Guidantonio anche Bagnacavallo e la Massa (non restituiti ad Ostasio da Polenta per ferma opposizione di Astorgio), che, ripresi dipoi dalle armi papali, sarebbero stati venduti al marchese di Ferrara.
A questo punto un altro dè soliti drammi foschi e misteriosi s’affaccia ad atterrirci dalle pagine della storia. Il conte Guelfo di Dovadola, aiutato da Guidantonio Manfredi a respingere i Fiorentini ed a fortificare il suo castello, venne in odio à terrazzani e perciò si ridusse a Faenza, nel cui territorio avea poderi e beni, godendo di questi e dell’amicizia manfrediana: quando d’un tratto Guidantonio mandò prima a Dovadola un castellano ed un potestà con l’ordine di accogliere nel paese quanti fossero nemici e ribelli del conte, e poi il 2 maggio fece, per occulti sospetti, catturar Guelfo medesimo, e lo rinchiuse in una prigione della rocca, dove quell’infelice misteriosamente finì la vita.
Intanto i Veneziani, spaventati dalle conquiste romagnole del Piccinino, e timorosi di perder Brescia, avevano rinnovata nel febbraio la lega co’ Fiorentini, cui si aggiunser i Genovesi e il papa, ed avevano eletto capitano generale Francesco Sforza, mandandolo a riprendere od a difendere le terre usurpate od insidiate dalle armi ducali. Lo Sforza ebbe a patti il 20 maggio Forlimpopoli, e si mise a campo con 8000 cavalli presso Forlì, dove s’eran riuniti a difesa Francesco, figliuolo del Piccinino, e Guidantonio Manfredi; ma non s’arricchirono costoro d’uscir contro il nemico, dubitando della fede dell’Ordelaffi. Allora lo Sforza, fatte scorrerie su’l faentino, ed espugnato il castello di Mordano nell’imolese, se ne tornò a Venezia; il Piccinino e il Manfredi, d’altro canto, davano un inutile assalto a Meldola, ov’era Gian Paolo Orsini, capitano ecclesiastico. Dopo di che, per salvare, dall’imminenza, del raccolto, le messi dalla devastazione, fu stabilita il 22 luglio una tregua d’un mese.

1440

Intimorito dall’intervento dello Sforza, il Visconti pensò allora di fare una diversione in Toscana, mandandovi il Piccinino: questi, però, prima di partire, rinnovò co’l figlio l’assalto a Meldola, e la ebbe tolta ai Malatesti (che militavano nella lega antiviscontea) nel 1440, mentre Guidantonio espugnava (marzo) Castelnuovo, Bagnolo, S.Cassiano, Portico, Montevecchio, Montesacco, e il 3 aprile recava in suo potere anche Modigliana (concessagli in dominio dal capitano generale, sì come premio del suo accorgimento guerresco), e finalmente il 22 dello stesso mese ritoglieva a’Fiorentini Oriolo. Dopo di che, Gudantonio rientrava glorioso in Faenza, per seguir di lì a poco il Piccinino, il quale frattanto, con Astorgio II, avea preso la via della Toscana, attraversando il Mugello. Ma in toscana avvenne, come ognun sa, la famosa battaglia d’Anghiari (28 giugno) tra il Piccinino e lo Sforza, nella quale , dopo una lotta tempestosa e violenta, la vittoria rimase agli Sforzeschi, che ebbero in loro poter più di 3000 tra fanti e cavalli del nemico, e fra i capitani più notevoli anche Astorgio II Manfredi, il quale, ferito in un femore, e fatto prigione da Niccolò Gambacorti, fu da costui per denaro consegnato à Fiorentini, e rinchiuso nelle carceri delle Stinche a Firenze.
Il Piccinino e Guidantonio, con picciol numero d’armarti, si posero in salvo fuggendo. E così i Viscontei furono allontanati dalla Toscana, non solo; ma anche l’esercito della lega, fatto baldanzoso dalla vittoria, potè valicar l’Appennino, entrare in Romagna, e porsi a campo a Forlimpopoli, onde il Manfredi perdette in breve Bagnacavallo (cui non potè recar soccorsi, occupato com’era a difendere Calamello, sua rocca in Val d’Amone), la Massa, Portico e Dovadola. Trovatosi così a mal partito (anche perché fin dal 18 luglio il Piccinino erasene tornato in Lombardia), Guidantonio, bisognoso di danaro, impose a Faenza ed al contado (dice il cronista Ubertelli) “un datio chiamato l’imbottitura: cio è ogni corba di grano che entrasse in città, 3 soldi; un carro di gambe (di granoturco?), 18; un carro d’uva, soldi 10; ciò fu pagato assai malvolentieri”.

1441

Mentre poi il popolo ravennate, profittando dell’assenza di Ostasio da Polenta, ch’era a Venezia, si levava a rumore al grido di viva s.Marco!, e davasi in signoria a Veneziani il 24 febbraio 1441 ( ed Ostasio, con la moglie Ginevra Manfredi e co’l figlioletto fu relegato all’isola di Candia), Guidantonio scacciava dal territorio faentino i fanti della repubblica di Firenze, che da Castrocaro lo molestavano, e poi rapidamente e valorosamente riprendeva Modigliana(24 aprile) alle milizie fiorentine che se n’erano impossessate. Nell’ottobre di quello stesso anno avveniva in Faenza un grande concentramento di milizie al servigio del duca di Milano, forse per ostilità contro Firenze, quand’ecco il 10 novembre si firmava a Cremona una novella pace generale, di cui le condizioni furono le seguenti: restituzione, da parte del duca di Milano, al papa dè luoghi dallo stesso duca occupati in Romagna; vicendevole restituzione, fra il duca e i Veneziani, dei luoghi scambievolmente occupati; restituzione, infine, di Modigliana, d’Oriolo e di Montesacco ai Fiorentini, da parte di Guidantonio, e di Fernacciano e di Calamello a Guidantonio, da parte dei Fiorentini.

1442-1443

Libertà concessa da questi ultimi ad Astorgio II Manfredi, il quale, infatti, se ne tornò a Faenza, che festosa lo accolse, l’8 decembre del 1442.
Ma già prima di restituirsi in patria il vendicativo e fiero Astorgio avea sfogato il suo odio contro quel Niccolò Gambacorti, il quale, come vedemmo, l’avea fatto prigioniero ad Anghiari; chè giunto costui a Bologna con un salvacondotto del Piccinino, secondo alcuni (Cavalcanti, Hist.fior., cap.XVII), senza salvacondotto, secondo altri (continuaz. Del Pugliola, Cron. di Bol.), fu tratto in facile agguato dal governatore di quella città per il Visconti, Cerbiatto da Caravaggio; onde Astorgio, o fosse travestito ad inganno,o si trovasse con lui a desinare, o lo assalisse per la via (varie sono le versioni del truce fatto), lo ebbe morto barbaramente con un colpo di spada il 6 febbraio del ’42.
Riferisce il cronista Ubertelli che quest’anno Guidantonio era tuttavia signore di Faenza e d’Imola; sìche par certo che,tornata Imola per la pace di Cremona, al pontefice, questi ne concedesse il vicariato allo stesso Guidantonio, al quale succedette poi in quella carica il figlio suo Taddeo, nel 1448 (cfr. la medaglia co’l ritratto di Taddeo, a.p. 111). Le milizie di Guidantonio, poi, si unirono a quelle del Piccinino il 25 maggio, quando quel celebre capitano, messosi al servizio del papa per ordine del Visconti, da Faenza s’avviò a Perugia, a fine di minacciare Francesco Sforza ne’ suoi domini della Marca, ed accese, così, una nuova guerra; ma ben altra impresa tentò poscia il Manfredi nell’agosto.
Morti, infatti, su’ primi di quel mese in Candia l’infelice Ostasio da Polenta e il figlioletto suo di quattro anni (la raminga Ginevra, sua moglie, s’era forse ricoverata ora a Faenza), Guidantonio sognò la ricuperazione di Ravenna, contro i Veneziani ed a nome della sorella, quale erede dei diritti polentani; si diè, perciò, a costruir tristi congiure ed a far disonesti trattati, disponendo nascostamente armi e capitani per un gran colpo su quella città, d’accordo con non pochi congiurati entro le mura di essa. Ma la fortuna dè Ravennati volle che tra costoro nascesse d’un tratto un tumulto per quale vi furono lotte e ferite: sì che la trama fu sventata, e così rimasero deluse le facili speranze dell’audace signore di Faenza. Ciò non ostante, questi godeva di molta autorità e prestigio; della qual cosa è prova chiarissima il fatto che Alfonso d’Aragona (impadronitosi nel ’42 del reame di Napoli), dopo essersi unito con l’esercito del Piccinino per l’impresa della Marca nell’agosto del 1443, scriveva alla repubblica fiorentina il 7 settembre di Roccacontrada, ov’era a campo, una lettera di caldissima raccomandazione a favore di Guidantonio Manfredi, signore di Faenza e d’Imola, “nobis plurimum dilectum”.
Dopo che Bologna , oppressa dal governo di Francesco Piccinino (il quale teneva ancora quella città per il Visconti, non ostante i patti di Cremona), ebbe nell’ottobre del ’43 riacquistata la sua libertà e fatto signore Annibale Bentivoglio, noi troviamo Astorgio II Manfredi, con 400 cavalieri, a portar soccorso al castello di Galliera, sostenuto del Visconti contro Annibale, e da quest’ultimo infine conquistato, a tutela della risorta libertà bolognese; ed in tanto Guidantonio, anch’egli al servizio del Visconti, occupava a forza Castel s.Pietro ed altre sette rocche del bolognese; ma la tregua fermata per cinque anni tra Bologna e le repubbliche veneta e fiorentina obbligò il Manfredi a restituire il mal tolto.

1445

Nell’anno 1445, poi, scoppiò un grave tumulto a Bologna fra i Marescotti, fautori dè Bentivoglio, e i Canetoli (e Annibale Bentivoglio, attratto in un perfido agguato, venne ucciso da un Battista Canetoli, onde il popolo si levò a vendetta terribile); e fu lesto il Visconti ad approfittarne, inviando un esercito contro la città agitatissima: ma essa fu a tempo soccorsa dagli alleati fiorentini e veneti (e tra i capitani di Firenze troviamo, questa volta, Guidantonio Manfredi, il quale s’era dunque staccato dal Visconti), onde le milizie viscontee se ne tornarono in Lombardia, e Bologna si confermò nella signoria dei Bentivoglio.

1446

Quando Guidantonio ebbe finalmente ceduta, secondo i patti di Cremona, Modigliana ai fiorentini, ciò gli acquistò tale benevolenza presso di loro che non soltanto egli nuovamente, ma anche il fratel suo Astorgio furono condotti, nel 1446, a’ loro stipendi: e come capitani delle forze di Firenze, anzi, essi espugnarono bravamente, e restituirono alla signoria di Bologna, i castelli di Persiceto, Budrio, Castelfranco, ed in breve tutte le rocche del bolognese ancora tenute dalle milizie viscontee. Appartiene a questo tempo l’imboscata che Astorgio tese a Sigismondo Pandolfo Malatesti, signore di Rimini (di nuovo collegatosi co’l Visconti) il quale stava per passare nascostamente su’l faentino, vicino a Russi; agguato da cui il Malatesti non si salvò se non con la fuga, rimanendo però prigioniera la sua famiglia, rilasciata libera poco dopo (6 febbraio). E tuttavia agli stipendi di Firenze, il Manfredi (probabilmente co’ suoi fratelli Astorgio II e Gian Galeazzo II) prestò man forte, nello stesso anno, a Francesco Sforza strettamente assalito in quel d’Urbino dalla Chiesa e dal Visconti, del quale, per la pace di Cremona, avea pur lo sforza medesimo sposata la figlia naturale Bianca Maria.

1447

Nel seguente anno 1447, invece, ecco che con rapida mutazione assai comune a quei tempi Guidantonio e Astorgio sono di nuovo al soldo del duca di Milano, che mal sapeva difendersi dai vittoriosi assalti dei Veneziani. Quando, poi, morto Filippo Maria Visconti il 13 agosto, e costituitasi in Milano la repubblica ambrosiana, quest’ ultima, per contrastare alle cupide mire di Venezia ( che avea preso Lodi e Piacenza) chiamò a suo generale Francesco Sforza, e questi, ottenuta Pavia, strinse di assedio Piacenza, tra i capitani di lui si noverarono Guidantonio ed astorgio Manfredi, al valore dè quali si dovette sopra tutto l’espugnazione della città assediata. Ed Astorgio, anche, al dire del cronista Ubertelli e del Simonetta (la Sforziade, lib.X, capp. 4°e 5°), insieme co’l celebre Bartolomeo Colleoni respinse al di là del Po’ un esercito francese (il re di Francia era anch’egli tra i pretendenti alla successione di Filippo Maria Visconti in Milano) che avea assediato il bosco presso Alessandria; onde gli Alessandrini s’erano affrettati a chiedere aiuto ai Milanesi.

1448

Tornato Guidantonio in Faenza, nel 1448, rimase al soldo di Milano il fratel suo Astorgio, che ebbe gran parte nella presa del castello di Cassano ai Veneti, e nella costruzione d’un ponte di barche su l’Adda; ma intanto Guidantonio, che dai medici era stato mandato a risanarsi d’una malattia ai bagni di Petriolo, giunto che fu a Siena s’aggravò improvvisamente, e morì il 18 giugno secondo alcuni e il 22 secondo altri. La sua spoglia fu recata il 27 in Faenza, ove ebbe sepoltura onorata, tra il compianto dè cittadini per il forte guerriero: e il poeta faentino Angelo Lapi, il quale scrisse sei carmi latini a celebrarne le imprese militari, ed a lamentarne la malattia e la fine, dettò anche per il defunto Signore due magniloquenti epitaffi, che il Valmigli (X, 188) riferisce, e dè quali qui trascriviamo quello che a noi sembra più bello: “Claudor in hoc tumulo Manfredum ex sanguine Guidax – cui dedit ingenium Pallas et arma simul – afflavi Senis animam, Faventia mihi – imperio subiit Imola tumque meo”.
Ebbe Guidantonio in moglie una bianchina, che il Litta dice figlia di Niccolò Trinci, signore di Foligno; e il predetto Lapi ricorda, infatti, nel carme intitolato “deploratio mortis prefati principis” una “Blancina miserrima coniux”: il che evidentemente contrasta con ciò che il Litta medesimo aggiunge, che, ciò è, Guidantonio sposasse in seconde nozze Agnesina di Guidantonio da Montefeltro, conte d’Urbino. E da Bianchina gli nacquero il figlio Taddeo e varie figliuole, delle quali non sono ricordate se non una Rengarda, maritata nel 1440 a Carlo Gonzaga, ed una Leta, moglie di Guido di Gian Battista Visconti di Milano. Appena gli giunse la notizia della morte del fratello, Astorgio II tosto sì partì di Lombardia, e venne a Faenza ad assicurarsi il dominio della città, lasciando al nipote Taddeo quello d’Imola. Ma le cure dirette del governo non tolsero ad Astorgio il consueto esercizio delle armi; chè tentando i Canetoli, fuorusciti di Bologna, l’occupazione di Crevalcore, fu egli assoldato dal senato bolognese, e con 600 cavalli mosse verso quel castello, e presso s.Giovanni in Persiceto attrasse il 3 novembre in un’imboscata Baldassarre e Bettozzo Canetoli, facendo prigione Bettozzo, che, da lui ceduto per 3000 ducati, fu inesorabilmente decapitato in Bologna.

1449

Nel 1449 troviamo Astorgio, nuovamente in condotta dè Bolognesi con 600 cavalli, a tutela del nuovo gonfaloniere Sante Bentivoglio (che per i suoi atti tirannici era minacciato da congiure e malcontenti) assediare Castel s.Pietro, ove i congiurati s’eran rinchiusi, e distinguersi in un fatto d’armi alla Riccardina, contro Ludovico Gonzaga, signore di Mantova, e Carlo di Campobasso, viceré d’Alfonso d’Aragona in Romagna, i quali aiutavano i fuorusciti bolognesi (6 dec.): fatto d’arme che , mentre da alcuni storici è considerato sì come un sconfitta d’Astorgio, prima di mettersi al soldo dè Bolognesi, s’era recato, nel giugno, con 1500 fanti agli stipendi del re Alfonso di Napoli, sotto un Niccolò Guerriero che in quel di Parma militava per Alfonso contro lo Sforza; ma Alessandro, fratello di Francesco Sforza, avrebbe poi persuaso al Manfredi, rammentandogli i legami antichi, di desistere da tale impresa, ed aggiungendo a ciò Francesco l’argomento potentissimo di alcune migliaia di ducati.

1450

Le brighe maggiori d’ora in poi le ebbe Astorgio contro il nipote Taddeo, signore d’Imola, co’l quale s’era in breve talmente inimicato da non peritarsi punto Taddeo di tendere insidie alla vita dello zio, e quest’ultimo di occupare al nipote, nel 1450, molti luoghi e castelli dell’imolese, come Montebattaglia, Baffadi, Casola, Fontana, Riolo Secco (20-23 agosto). Marciò, anzi , Astorgio II fin sotto Imola, il 25 agosto, e si preparava ad assaltarla, quando Taddeo gli mandò ambasciatori per la pace, e fu fermato un compromesso per il quale la questione si rimetteva al giudizio del novello duca di Milano, Francesco Sforza; ma qual successo le pratiche sortissero, non sappiamo affatto da documenti o dai cronisti. I quali null’altra notizia ci tramandano delle vicende civili di quell’anno, se non che, celebrandosi in Roma le feste del Giubileo, madonna Gentile, madre di Astorgio II e di Gian Galeazzo, insieme con l’ infelice figlia Ginevra, vedova d’Ostasio da Polenta, si recò a Roma a far atto d’ossequio al pontefice. E intanto par certo che l’ufficio di potestà, il quale dovea durare, come vedemmo, sei mesi, si rinnovasse a beneplacito del principe, nella stessa persona, anche fino a protrarsi per più anni, da che Filippo Assassini fu potestà di Faenza, per esempio, dal ’45 fino atutto il primo semestre del ’48, ed a lui succedette il fiorentino Francesco Sederini, che non solo nel ’50 è ancor ricordato in tal carica, ma nel ’51 è detto eziandio, da un rogito del 4 gennaio, “commissarius magnifici domini nostri Astorgii de Manfredis”.

1451

Il 2 marzo 1451 Astorgio II Manfredi celebrò a Faenza ufficialmente gli sponsali (ossia il fidanzamento) della figlioletta sua Barbara, che avea soltanto otto anni ed alla quale assegnò la ricca dote di 4000 fiorini d’oro, con Pino, secondo figliuolo di Antonio Ordelaffi, il quale non era ancor quindicenne ed era di recente entrato nella signoria di Forlì (essendogli morto il padre) insieme co’l fratello Cecco. Accomiatandosi da Faenza, lo sposo giovinetto ricevette dal futuro suocero in dono un bel destriero ed un bel falcone; ed Astorgio II ricambiò poi la visita a Forlì, insieme con la moglie Giovanna (cfr.p.148) e con i figli Carlo, Federico, Galeotto, Lancellotto ed Elisabetta, oltre alla piccola Barbara, nel giorno della solenne festa di s.Mercuriale. alle quali nozze altre non meno cospicue si aggiunsero, in quel medesimo anno, narrandoci il cronista Ubertelli che il 12 decembre Gian Galeazzo II, fratello d’Astorgio, menava in moglie, con gran pompa, Parisina figlia del conte Niccolò della Mirandola, la quale recatagli in dote 3000 fiorini d’oro; e convennero in cotal fausta occasione a Faenza Cecco e Pino Ordelaffi da Forlì, ed un figlio di Sigismondo Pandolfo Malatesti, signore di Rimini, e molti altri nobili personaggi. Ed intanto sempre più si spandeva la fama della potenza e del grande valore di Astorgio: del che è prova il seguente fatto.
Avendo Firenze lasciata l’antica alleanza di Venezia per accostarsi a quella del novello duca di Milano Francesco Sforza, i Veneziani tentarono distaccare Bologna dall’amicizia fiorentina, promovendovi novtà e sollevazioni, e per questo si dettero a proteggere i Canetoli contro il signore di essa Sante Bentivoglio. Inviaron dunque molte milizie, agli ordini d’Angelo d’Alberto Pio signore di Carpi, a cercar di rimettere in patria i Canetoli (17 giugno 1451); e già al Pio era riuscito d’occupar la porta Galliera, quando il Bentivoglio si fè addosso al nemico con genti d’arme ed al grido di sega, sega, (stemma bentivogliesco), Astorre, Astorre, quasi significare che il signor di Faenza fosse giunto in aiuto: onde i nemici tanto s’atterrirono nell’udir quel nome, che volsero in fuga precipitosa, molti restandone uccisi, tra cui lo stesso Angelo Pio.

1452

E la bella fama di casa Manfredi mostrò d’apprezzare l’imperatore Federico III d’Asburgo, quando, all’entrare del 1452, venne a cinger la corona in Italia; chè, giunto a Bologna, il 23 gennaio vi creò alcuni cavalieri, tra i quali il nostro Astorgioe i suoi due figli Carlo e Galeotto, giovinetti allora di 13 e 12 anni; e durante il ritorno da Roma, il 10 maggio, nominò cavaliere anche Gian Galeazzo II, fratello d’ Astorgio.
Abbiam detto di sopra che non sappiamo come precisamente si risolvesse il compromesso delle controversie fra Astorgio e Taddeo suo nipote e signore d’Imola, fatto nella persona dello Sforza: certo sì è, però, che tra loro dovette esservi almeno una effimera riconciliazione, se troviamo che Astorgio e Taddeo il 28 febbraio del ’52, si condussero a Forlì “ per ivi starsi ( dice il cronista Ubertelli) quattro giorni a ricreatione con quei signori loro parenti”. E nello stesso anno troviamo zio e nipote insieme con molti altri capitani (tra cui Sigismondo Malatesti) al soldo di Firenze, contro le milizie di Ferdinando duca di Calabria, inviate dal re Alfonso di Napoli in quel d’Arezzo, per eccitamento dei Veneziani, contro i Fiorentini; gicchè nel 1451 le milizie napolitane non erano ancora entrate in Toscana, oltre che riesce malagevole il persuadersi che Taddeo si fosse posto agli stipendi dell’Aragonese contro Firenze, da cui avea ricevuto finora prova di protezione e di affetto.
Ritiratosi poscia il duca Ferdinando a svernare verso il mare toscano, Firenze, su’l principio del 1452, mandò il Manfredi a stanza del Pisano, insieme con altri capitani, a difesa contro ogni tentativo del duca; fin che, soccorsi i Fiorentini dallo Sforza, riacquistarono parecchi luoghi.

1453-1454

Ma generale era ormai la stanchezza della lunga guerra che, nell’ultima sua fase, dal ’50 in poi, era stata combattuta, invertendosi le alleanze tra lo Sforza, Firenze, Genova e Mantova da un lato, e Venezia, Napoli, Savoia e Monferrato dall’ altro: onde, quando nel ’53 giunse la notizia della caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (fatto dannosissimo in special modo all’Italia, e per il quale papa Niccolò V rivolse un appello ai principi italiani, tra cui è ricordato anche Astorgio II Manfredi), gli animi si indussero alla pace, che fu conchiusa in Lodi il 9 aprile 1454. furono in essa confermati, in sostanza, i patti di Cremona: ma il trattato di Lodi ebbe specialissima importanza perché pose fine all’ultima guerra generale per l’equilibrio italiano, e chiuse il periodo dei tentativi d’alcuni principi per acquistare un assoluto predominio nella penisola.
L’anno dopo si formava la lega italica contro il Turco, nella quale entrarono anche Sigismondo Malatesti e il nostro Astorgio; e intanto nuove ragioni di gioia aveva la casa Manfredi, da poi che Cecco Ordelaffi, fratello di Pino, rotta fede alla sua promessa sposa, Lucrezia di Sigismondo Malatesti, otteneva la mano d’ Elisabetta, figlia d’Astorgio, e sorella di quella Barbara che già vedemmo fidanzata a Pino.

1456

Le nozze di Barbara con Pino, rallegrate dal fidanzamento novello di Elisabetta, si celebrarono il 25 gennaio 1456 con splendida magnificenza, sì che pur l’estate passò, narra il cronista Ubertelli, in feste e conviti lietissimi. Libero da cure guerresche, Astorgio II attese ora alla fortificazione di Faenza, compiendo la fortificazione delle mura già intrapresa dall’avo suo Astorgio I; sebbene non a lui, come vorrebbe il Litta, sì al figlio di lui Carlo II, come dimostra il Valmigli (X,240), debba attribuirsi quell’ampliamento del circuito delle mura, che incluse nella nuova cinta i sobborghi di porta Imolese, porta Ravenna e porta Ponte. Il giro della cerchia antica, però rimase contrassegnato da piccole colonne di pietra sormontate, da una croce di ferro.

1457

Cinse, inoltre, Astorgio II di mura i castelli di Russi e Brisighella nel 1457, nel primo dè quali erasi ritirato l’anno innanzi, durante un grave contagio che infierivain Romagna.

1460

Ma non passò molto tempo che il nostro Astorgio ebbe a riprendere le armi, spintovi questa volta dal nipote Taddeo che, d’amico rifattosi nemico, nella notte del 5 maggio 1460 mosse furtivamente con molti armati alla volta di Faenza, per impadronirsene; se non che, avvisatone in tempo, Astorgio II fece chiamare il popolo alle armi, al suono della campana, e questo bastò perché Taddeo in tutta fretta si ritirasse. Per rifarsi dello scacco ricevuto, nella notte del 14 dello stesso mese tentava Taddeo dar la scalata alle mura del castello di Solarolo, di pertinenza d’Astorgio; ed anche questo tentativo riuscì infruttuoso, giacchè il presidio accorse in tempo alla difesa, ributtando gli assalitori, dè quali cadde prigione un illustre cavaliere dei Garatoni di Brisighella: onde Astorgio fece subito mettere al bando Taddeo e le genti di lui e demolì in Faenza le case dei Garatoni.
Stando all’Ubertelli, poi che il dì seguente al tentativo di Taddeo su Faenza, ossia il 6 maggio, fu accorso nella nostra città Pino Ordelaffi di Forlì, con 1000 uomini, in aiuto del suocero, il popolo faentino, desioso di novità, tumultuò il giorno 11, e il 12 corse all’ufficio della gabellino e del danno dato, in piazza dove stracciò tutti i libri e le scritture dell’ ufficio stesso (trattasi qui, forse, di una rivolta di carattere economico, aizzata da Taddeo e da qualche suo partigiano in Faenza); e vano fu l’accorrere d’ambedue i Manfredi, Astorgio e Gian Galeazzo, chè la cama sembra ritornasse dopo molti sforzi, e dopo che le genti di Pino “ebbero impedito assai male fra l’una parte et l’altra”: onde è facile argomentare quanto odio dovesse covare nell’animo d’Astorgio contro il nipote. 1462

1462

Tale odio ei sfogò nel 1462, quando, occupatogli alcuni castelli, tentò cacciare Taddeo da Imola; non vi riuscì, però, perché papa Pio II inviò come paciero il vescovo di Sessa, Angelo, che seppe riconciliare, per il momento i due Manfredi, prendendo in consegna i castelli tolti al signore d’Imola. Indi Astorgio fu condotto, con 500 fanti e 1000 cavalli, ai servigi del pap contro Malatesta Novello, signor di Cesena; ed egli, rinunziando per un anno allo stipendio(pare che la provvigione annua fosse di 11000 scudi), lasciato al governo di Faenza il primogenito Carlo, di buon animo si pose a campo a Meldola. Obbligato, poi, a ritirarsi precipitosamente da forze superiori del Malatesta, s’unì con Corrado Alviano, speditogli dal papa in soccorso; e, condottosi su’l forlivese, prese i castelli delle Caminate, Montevecchio, Cusercoli, Valdoppio, Civitella, Castelnuovo. Il 1°novembre di nuovo assediò Meldola; ma il 4 veniva improvvisamente assalito da sì gran numero di fanti e cavalli, che a pena ebbe modo di ricoverarsi nel castello delle Caminate, donde fece ritorno a Faenza. Un terzo tentativo su Meldola (e questa volta per tradimento d’un conestabile che ne avea in custodia una porta) gli fallì, perché la trama fu scoperta (6 decembre); né gli rimase altro conforto se non di spedire il figlio Carlo ed impadronirsi di certo bestiame dè Malatesti presso Casamurata; il chè gli procurò un grave dissidio co’l genero Cecco Ordelaffi, il quale, perché garante di tal bestiame, diè addosso alle genti di Carlo, e ne riprese una parte. Di ciò tanto sdegnossi Astorgio, che proibì ai suoi ministri di consentire ai sudditi del genero l’estrazione dei cereali dal territorio faentino.

1463

Oltre che contro Malatesta Novello, è presumibile che Astorgio II militasse, come soldato del papa, nella guerra che Pio II mosse anche contro Sigismondo Malatesti, signore di Rimini, al quale il conte Federico d’Urbino, capitano della Chiesa, assediò Fano nel 1463: onde Sigismondo, perduta quella città ed altre terre, fu costretto alla dura pace, per la quale ebbe a contentarsi di Rimini e di sole cinque miglia di contado, con l’obbligo di pagare alla s.Sede il censo annuo di 1000 ducati d’oro. Certo si è che Carlo Manfredi prese parte alle operazioni di quella campagna militare, perché nell’occasione dell’assedio di Fano vennero alla Chiesa rinforzi da Faenza e da Forlì (cfr.Gobellino, Pii II pont. max. Comment., lib. XII), ed Astorgio “ mandò colà Carlo suo figliolo con molte genti, il 5 giugno”. Concessa la pace al Malatesti e finite le operazioni di guerra, il papa permise ai due Manfredi il ritorno in patria, ed interpose poi la sua autorità per ridurre a concordia Astorgio II con Taddeo, signore d’Imola; il chè riuscì a fare pattuendosi che Astorgio restituisse al nipote le ville di Pediano, Mazzancollo, Monte Mediolo, Pubico e Torricchio, e Taddeo a sua volta restituisse allo zio la rocca di Montebattaglia e il castello di Riolo Secco; della qual pace entrò mallevadore il duca di Milano. Ed intorno a questo tempo un’atra concordia fu conchiusa: quella cio è, tra Malatesta Novello, il Manfredi e gli Ordelaffi, come ci attesta una lettera del 29 decembre, con la quale il pontefice ingiunge al vescovo di Sessa, commissario o rettore della Romagna, d’indurre Malatesta ad abolire un suo pernicioso editto, da lui pubblicato ad onta dell’avvenuta pace, con cui egli proibiva al Manfredi, agli Ordelaffi ed ai loro sudditi di porre piede nel suo stato e d’esercitarvi qualsiasi commercio.

1464

Al 1464 assegnano gli storici una riconciliazione tra Astorgio e gli Ordelaffi; e sembra che la discordia fosse sorta, oltre che per le ragioni su dette, anche dalla voce che Cecco Ordelaffi tentasse avvelenare, per ismania di assoluto dominio, il fratello Pino, venuto a ricoverarsi con la moglie Barbara Manfredi in Faenza: ma il giovine marito di Barbara guarì, e Cecco, a dissipare ogni sospetto, andandosene in Lombardia, mise il fratello al soldo dè Veneziani, fermandone i capitoli e le condizioni il 24 marzo con Bartolommeo Colleoni, capitano generale della Serenissima; onde il 23 maggio 1466 Pino, partendo per Venezia, si fermò a Faenza, ove fu festeggiato con una nobile e bella giostra.

1466

Tornato nel ’66 dalla guerra, Pino trovò in Forlì il fratello Cecco gravemente ammalato, ed i cittadini irritatissimi contro il malgoverno e l’avarizia d’un tal dottor Francesco Bifolci, che a suo vantaggio facea vendere il grano, ad un prezzo alto, alla gabella pubblica; e nello sdegno e né tumulti che ne seguirono, Pino vide cupidamente a sé aperta la via dell’usurpazione. Barbara, la giovine sposa sua, fu a parte del tenebroso disegno, ed inviò per aiuti un messo secreto ad Astorgio, suo padre: ed il fatto si è che una notte i congiurati s’impadronirono dell’infermo Cecco e lo rinchiusero in una torre, co’figli e con la moglie Elisabetta, piangendo quest’ultima il tristo tradimento della sorella. Il sopraggiunto soccorso di Astorgio aiutò indi Pino ad aver la rocca, ancor fedele a Cecco, e con essa il pieno dominio di Forlì. Orribile a dirsi, Barbara stessa preparò poi, per lo spodestato e imprigionato signore, il veleno che avrebbe dovuto toglier di mezzo l’ostacolo sempre temuto, e che invece sembra non riuscisse: ad ogni modo, il 22 aprile il povero Cecco uscì di vita e d’angoscia. Ma Barbara non godette a lungo il frutto di tanta perfidia; chè ella pure di lì a poco moriva, a soli ventitrè anni, recando seco il mistero di così tristi delitti, i quali offuscarono la sua tragica giovinezza. Un monumento funerario del più puro stile quattrocentesco ne racchiude la spoglia mortale in Forlì, nella chiesa che oggidì è detta di s.Biagio; e la bella donna dal profilo dolce e soave che, delicatamente scolpita e rigidamente distesa su’l sepolcro, dorme tra i fiori e le trine il sonno eterno, non sembra davvero nel gentile aspetto avere albergato un’anima subdola e fiera. Tal monumento le fu dedicato, con una inscrizione nella quale sono parole di profondo dolore, dal marito Pino: tarda ed ipocrita pietà, se è vero che Pino stesso la uccidesse di veleno, o per cause a noi ignote, o per crudele sospetto, o per destino fatale, che fa vittima il colpevole del suo stesso delitto.
Dopo tali fatti, Astorgio II, da amico divenuto nemico di Pino, con Caterina Rangoni madre degli Ordelaffi ordì una secreta congiura per riporre la signoria di Forlì in mano dè figliuoli del morto Cecco; ma la trama finì in nulla. Mortogli in quest’anno medesimo il fratello Gian Galeazzo II (il quale non lasciava figliuoli), e rimasto così solo ed unico signore di Faenza, Astorgio continuò in quel suo mestiere del condottiero, dal quale traeva danaro e potenza.

1467

Dobbiamo anzi or qui registrare un fatto che dimostra la rozza malafede di lui; chè assoldato co’l nipote Taddeo dalla repubblica fiorentina contro Bartolommeo Colleoni che, ad instigazione dè fuorusciti antimedicei, Venezia aveva mandato ai danni di Firenze nel 1467, Astorgio II, dopo avere con violenza carpita à Fiorentini certa parte dovutagli dell’assegnato stipendio, sollecitato dai Veneziani con la profferta di più pingue paga, vilmente disertava le bandiere medicee per passare al soldo del Colleoni (cfr. Malipiero, Annali veneti, in Arch. stor. Ital., tomo VII, parte II). Il Colleoni ebbe così aperta la via della valle d’Amone, donde s’avanzò su l’imolese; e seguì poscia la famosa battaglia della Molinella, d’esito incerto, cui tenne dietro, per intromissione di papa Paolo II, la pace.

1468

Temendo di non esservi compreso, Astorgio corse a Venezia, dove, con la lieta conferma dè suoi desideri, ebbe ben 10000 staia di grano, a ristoro dè guasti patiti in Val d’Amone; e la pace fu alla perfine ratificata e pubblicata dal pontefice, il 25 aprile 1468.
Frattanto Astorgio II Manfredi moriva (12 marzo) senza neanche aver compiuto i 56 anni, essendo nato l’8 aprile 1412. aveva egli fino dal 22 decembre 1466 fatto testamento, co’l quale ordinava d’esser sepolto nella chiesa dè Minori Osservanti, e dopo alquanti legati pii od a favore di privati, istituiva eredi universali i suoi figli Carlo, Galeotto, Federico, e Lancellotto; e sebbene egli li nominasse nell’ordine seguente: “d. Federicum prothonotarium, d. Carolum, d. Galeotum, equites, et d. Lanzalotum”, pure il primogenito fu certamente Carlo, attestandolo Astorgio medesimo nel testamento, là dove chiama a succedergli “in dominio et redimine civitatis Faventie dominum Carolum, primogenitum suum”. L’aver dunque nominato di sopra, per il primo, il figlio Federico, dipese, senza dubbio, dall’ufficio ecclesiastico di protonotario apostolico che quegli aveva ricevuto dal pontefice Callisto III,fino dal 1457 (vedine il sigillo a p. 131); al che è da aggiungere che nel febbraio del’63, essendo morto il vescovo di Faenza Alessandro Stampetti da Sarnano (al Silvestro della casa, che ricordammo a pag. 143, erano succeduti un Giovanni IV da Faenza, dell’ordine dei Minori, nel 1428; un Francesco II pure da Faenza, dell’ordine dei Servi, nel ’38; un Giovanni V da Siena, anch’egli dell’ordine dei servi, nel ’55; ed infine il predetto Alessandro, nel ’58), il Capitolo della cattedrale elesse a succedergli nella dignità episcopale, ad ananimità di voti, Federico Manfredi, già canonico almeno fin dal 25 giugno del ’62; ma questi, per la sua troppo giovanile età, non fu confermato dal papa. Nel testamento, invece, di Giovanna Vestri, moglie del defunto Astorgio, in data 3 settembre 1468 (riferito, come quello di Astorgio, dal Valmigli, XI, 51-58, 67-70), i figli maschi sono nominati in quest’ordine “d.Carolum, d.Galeotum, d.Federicum et d. Lanzalotum”; il che ci induce a credere che di essi Federico fosse il terzogenito, e nascesse dunque dopo il 1440, se è vero che in quest’anno Giovanna diè alla luce Galeotto (cfr.il mio G.M., p. 67, n. 2). Fu, inoltre, Federico il primo commendatario dell’abbazia di s.Maria foris portam, già de monaci di fonte Avellana: e poscia sostituì a sé, nel ’69, Girolamo Utili, canonico faentino.
Simile agli antenati suoi nell’ardimento, nel valore e nella doppiezza astuta, Astorgio II Manfredi, di carattere prepotente e di temperamento violento, fu non di rado in rotta co’ suoi consanguinei. Ed il figlio primogenito Carlo ebbe a provarne duramente la terribile ira quando, per non ben note ragioni, Astorgio lo cacciò di Faenza, e quegli ebbe a rifugiarsi alla corte del duca di Milano, nel 1459; ne valse che Cecco Ordelaffi, accolto dipoi a Forlì il fuggiasco, interponesse presso l’adirato Astorgio i suoi buoni officii, per ottenere a Carlo il perdono, nel ’61: che anzi nell’anno di poi “ il signor Astorre operò (narra l’Ubertelli) che il duca di Milano facesse imprigionare per correttione Carlo suo figliuolo, et così fu preso in Piacenza, e menato prigione in castello a Lodi”, ove stette alquanti mesi, fin che fu rimesso nella grazia paterna il 10 ottobre del’62.
il poeta faentino Angelo Lapi, che di sopra ricordammo, celebrò, come già di Guidantonio, così anche le virtù di Astorgio II nel seguente epitaffio, riferito dal Valmigli (XI,60): “Hic Manfredeiaces Astor, cui splendida virtus – inter semideos contulit esse duces – Mars alter bello vivens et pace Licurgus – lux et gentis eras gloria magna tuae”.
Dopo la morte d’Astorgio, il popolo faentino acclamò, a gran voce, signore di Faenza Carlo II Manfredi.

 

 

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