venerdì, Ottobre 11, 2024
Faenza nella storia - I capitoli

Faenza nella Storia _ Cap. 4.2 La reazione papale, le conspirazioni e le rivoluzioni fino all’assunzione di Pio IX al soglio pontificio (1815-1846)

Cap. 4.2 La reazione papale, le conspirazioni e le rivoluzioni fino all’assunzione di Pio IX al soglio pontificio (1815-1846)

Co’l 1815 incomincia, in quasi tutta Europa, quel tristissimo periodo in cui Chiesa e Stato, alleati contro ogni possibile manifestazione della libertà di pensiero e d’opera, cercarono con la censura della stampa, con le persecuzioni della polizia, con le carcerazioni, gli esili, i patiboli, di soffocare in germe le legittime aspirazioni de’ popoli. Cotale reazione ebbe logicamente il suo più alto grado d’intensità nei domini papali, dove Chiesa e Stato erano una stessa cosa, e dove alla subdola ferocia dei governanti si contrappose il ridestarsi più fulgido degli spiriti nell’amore della libertà.
Dal principio, però, il regno di Pio VII fu indirizzato verso una tal quale tolleranza e verso una certa evoluzione liberale dell’abile ministro card. Consalvi, il quale era persuaso che, co ‘l ritornare senz’altro all’antico, non si dava ferma base allo stato. Il governo provvisorio, stabilito in Romagna con l’editto surricordato del 5 luglio 1815, era constituito da una commissione o congregazione composta del delegato apostolico mons. Tiberio Pacca, presidente con voto decisivo, e di quattro membri con un voto consultivo, più un assessore ed un segretario. Tale congregazione risiedette dapprima in Forli, dove un commissario pontificio tenne le veci di prefetto (e fu il faentino conte Antonio Margotti); ogni antica sottoprefettura si appellò vice-commissaria, e vice-commissario di Faenza fu il conte Valerio Nani di Rimini. Nella nostra città (mentre in quell’anno stesso, il 18 agosto, pernottava in casa Gessi lo spodestato re Carlo IV di Spagna) il Comune otteneva dal Pacca sovvenzioni per ottemperare i mali della carestia, e provvedevasi al lavoro di molti operai, aprendo una nuova via dal campo vaccino al giuoco del pallone, per pubblico passeggio.

1815

Succeduto, poi, al Pacca, il 6 marzo 1816, mons. Cesare Nembrini, gli ex-frati dei Minori Osservanti abilmente ottenevano da lui di restare nel loro convento, in servizio ed a custodia del nuovo cimitero che il Comune aveva acquistato dal convento stesso, fuor della porta Montanara. Il reggimento del Nembrini cessò il 14 novembre, e la provincia fu divisa in due legazioni, sotto i cardinali Alessandro Malvasia e Giuseppe Spina, il primo di stanza in Ravenna (da cui dipendeva Faenza), l’altro in Forlì, giusta il motu proprio dato da Pio VII il 6 luglio, intorno alla riorganizzazione amministrativa di tutto lo stato. Per tale motu proprio provvedevasi anche, aboliti gli antichi statuti dei comuni, alla ricca composizione dei consigli comunali; i quali dovevano essere di quarantotto membri nel capoluogo, di trentasei, ventiquattro e diciotto ne’ luoghi minori, ed erano eletti per la prima volta dai Delegati (lo Stato era diviso in diciassette delegazioni, ma le delegazioni di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna conservavano, con a capo un cardinale, l’antico nome di Legazioni), e poi si rinnovavano da sè stessi, con l’approvazione superiore. Un Gonfaloniere (l’antico capo priore) e due, quattro o sei Anziani, constituivano la magistratura comunale, nominata dal Delegato su proposta del Consiglio. Anche in Faenza, dunque, fu ristabilito il Consiglio comunale, di trentasei membri, l’elenco de’ quali fu proposto, in segreto conciliabolo, da alcuni de’ maggiorenti (quali il conte Antonio Margotti, il can. Domenico Montevecchi, i Naldi, gli Spadini, i Gessi, etc.) e risultò composto di molti nobili. Nella prima adunanza cotale consiglio scelse i quattro Anziani ed il Gonfaloniere (che fu il cav. Pietro Mazzolani), da sottoporsi all’approvazione del cardinal legato.

1819

Al Mazzolani succedette, poi, il 23 marzo del 1819, nell’ufficio di gonfaloniere, un Lattanzio Quarantini, retrogrado e ridicolmente gonfio di sè.
Ma sotto la tranquilla apparenza dell’ ordine fermentata in tutta la Romagna il germe della conspirazione e della ribellione. L’opera riformatrice del segretario di stato card. Consalvi non era ben vista dagli zelanti, che presto ripresero il sopravvento; i legati governavano a lor posta, le vessazioni incominciarono ad esser pesanti nelle province; e tanto era l’accanimento reciproco dei due partiti, liberale e papalino, e tanta la compressione con ogni mezzo esercitata su gli spiriti, che rispuntò ben presto la mala dell’assassinio politico, nel quale trovava sfogo, da un lato la ferocia degli oppressori, dall’altro l’indole subitanea e violenta degli oppressi.

1821

Tra le altre uccisioni, divenute pur troppo comuni anche a Faenza in que’ giorni tumultuosi, sono da ricordare, su i primi del 1821, quella dell’avvocato Brunoni, perché aveva accettata la difesa d’ufficio di alcuni carbonari processati, e quella del can. Montevecchi, anima audace, che predicava in chiesa e fuori invettive e vituperi contro i liberali, e che, scampato una prima volta ad un’archibugliata la sera di s. Pietro del 1820, fu morto ora dal colpo di pistola presso la chiesa di s. Biagio. Dicesi che il gonfaloniere Quarantini, per ricondurre la tranquillità, propose alla segreteria di stato la cattura di molti cittadini e l’armamento di molte persone; onde, eccitatisi maggiormente gli animi, Fu ucciso anche il primo scheraro di lui, Sante Bertazzoli, vetturino. Al Quarantini fu sostituito allora, per maggior quiete, il nuovo gonfaloniere Carlo Zucchini, che banditi dal Comune i delatori e gli sgherri, e pubblico il 10 febbraio un proclama, esortando i cittadini a bene accogliere gli Austriaci, i quali marciavano verso il Napoletano a soffocarvi la rivoluzione constituzionale, scoppiatavi l’anno innanzi.
Ma a Faenza le notizie delle sollevazioni del ‘20 nella Spagna, nel Portogallo, nel regno di Napoli, avevano, invece, rimessa la speranza nel cuore dei liberali. Già in tutta la Romagna, e specialmente a Forlì, Ravenna e Faenza, s’erano organizzate le società segrete della Massoneria e Carboneria; e quest’ultima, le cui sezioni si dissero Vendite di carbone (il commercio del carbone era stato scelto come simbolo convenzionale), s’era largamente sparsa con le spedizioni militari di Gioacchino Murat (il quale sembra la favorisse nel Napoletano contro la fazione borbonica), e suddividevasi nella Romagna in tre specie: la Protettrice, perché reggeva le altre, la Speranza, perché composta di giovani, e la Turba, perché composta da artigiani ed operai, disposti anche all’azione. La Massoneria, instituzione essenzialmente umanitaria e democratica, mirava a riformare la società secondo i principi della ragione, ed a lei fecero capo tutte le conspirazioni intese a scuotere il gioco sacerdotale e dispolitico, novellamente imposto ai popoli dal congresso di Vienna; la Carboneria, operando più direttamente nel campo politico, mirava alla indipendenza d’Italia dallo straniero ed alla attuazione della libertà politica interna, per mezzo delle constituzioni concesse dai principi, o strappate all’oro: all’unità della patria non si poteva ancora pensare, apparendo essa per allora ineffettuabile, tra que’ sette principi appena restaurati, con l’Austria formidabile e co ‘l pontefice sovrano temporale. Nella nostra città appartenevano alla Massoneria ed alla Carboneria il conte Giacomo Laderchi, il conte Giuseppe Pasolini-Zanelli, il conte Antonio Gessi, l’ex-ufficiale dell’esercito italico Gaetano Baldi, il negoziante Vincenzo Succi, il conte Francesco Ginnasi, che fu capo della sezione carbonara degli artigiani, detta la Turba, gli ex ufficiali Luigi Montallegri E Matteo Balboni etc. Tutti costoro, con i loro seguaci, speravano che l’esercito austriaco, marciante verso Napoli agli ordini del generale Frimont, fosse sconfitto, e preparavano segretamente la rivolta, mentre il governo rimaneva quasi inerte. Giunsero, invece, le dolorose nuove delle sconfitte di Guglielmo Pepe a Rieti e ad Antrodoco, e allora i liberali scaddero, e si rinfrancarono i clerico-austriacanti, de’ quali il capo era quel Lattanzio Quarantini che abbiamo ricordato di sopra.
Frattanto, nel Lombardo-Veneto la polizia austriaca appena scoperte le fila d’una congiura carbonara per la quale erano arrestati, nel 1820, Pietro Maroncelli di Forlì, residente a Milano, Camillo Laderchi da Faenza, figlio del conte Giacomo, e studente all’Università di Pavia, Silvio Pellico, e poi Angelo Canova, Alfredo Rezia, il professor Adeodato Ressi, e il Confalonieri, e il Pallavicino, e il Castiglia, e L’Arese, etc. etc. Camillo Laderchi era stato affiliato alla carboneria nell’autunno del ‘18 in Faenza, appena diciottenne; e il Maroncelli aveva in quella seduta fatto da oratore, tenendo un discorso “ su le virtù che doveva praticare il Carbonaro e su l’amore di patria “. Poi il giovane Laderchi aveva a Milano prestato un catechismo ed “ un quadro carbonico “per la iniziazione di Silvio Pellico; e gli era stato assegnato il compito di lavorare (o si attrarre nella sètta) Gian Domenico Romagnosi, che aveva molta benevolenza per quel giovane di precoce talento, e il prof. Adeodato Ressi dell’Università di Pavia, amatissimo dagli studenti. Quando fu arrestato, Camillo Laderchi serbò per allora una tale quale prudenza, pur lasciandosi sfuggire qualche confessione nociva al Maroncelli; poi, mentre gli altri prigionieri erano condotti a Venezia (dove il processo entrava nella sua novella, importantissima fase è caratterizzata dalla trista e pur genialmente abile opera inquisitrice di Antonio Salviotti), e quindi venivano sottoposti alla terribile tortura morale delle contestazioni, il Laderchi, prosciolto a Milano (il 6 gennaio 1821) se ne tornò in Romagna. E già stava assaporando la riacquistata libertà, quando il governo pontificio, messo forse sull’avviso dell’Austria che quel giovine in esperto poteva essere buon elemento di delazione, tornò ad acciuffarlo, per metterlo a disposizione de’ giudici di Venezia. Questi non avevano facoltà di pronunziarsi su lui; dovevano soltanto servirsene per i confronti con gli altri imputati; ma egli si ritenne spacciato e perduta la testa, “ spontaneamente e senza esservi eccitato in modo qualcuno “ fece tutte le confessioni più ampie e più dannose per il suoi compagni di sventura. Mancano nell’archivio di stato di Milano i constituti di lui, ma al difetto suppliscono ampiamente un pro-memoria ch’egli inviò al Salviotti, ed il rapporto periodico dell’inquirente in data del 5 luglio del 1821. Il Laderchi narrò la sua propria vita, rivelò particolari interessantissimi sulla Carboneria romagnola in genere e su la vendita di Faenza in ispecie; nominò i più cospicui cittadini che appartenevano alla sètta, tra cui il conte Giuseppe Pasolini-Zanelli, il conte Antonio Gessi, il conte Francesco Ginnasi; disse della propaganda carbonara in Bologna, e di quella del Maroncelli all’Università di Pavia; con vera viltà d’animo narrò d’aver discusso di Carboneria più volte co ‘l prof. Ressi, che lo accoglieva come figlio in casa sua, e come il Ressi, pur non volendo prendervi parte, vendesse di buon occhio l’azione carbonara degli studenti, e gli manifestasse il desiderio di un governo constituzionale italiano, e non gli dissimulasse la sua disaffezione all’Austria ed all’imperatore, nemico della scienza, e gli confidasse, infine, di aver saputo dal conte Porro che questi, dopo l’arresto del Pellico, era più deciso che mai nella sua azione carbonara. Le confessioni e delazioni del Laderchi determinarono senz’altro l’arresto del prof. Ressi, co ‘l quale lo sciagurato giovane ebbe il 9 luglio un penosissimo confronto, ribadendo con petulanza l’accusa mortale per il suo maestro. È noto che il Ressi, con sentenza del 6 dicembre, fu condannato al carcere duro a vita, e che, con sentenza del 21 febbraio 1822, gli era commutata la pena in cinque anni di fortezza; ma il martire professore, infermatosi gravemente, era moribondo quando fu emessa la prima sentenza, e per atroce ironia la morte lo aveva già raggiunto quando da Vienna venne notizia della seconda. Tranne, poi, le condanne, che tutti conoscono, del Maroncelli, del Pellico, del Canova e del Rezia, gli altri accusati del processo Pellico-Maroncelli furono prosciolti; il Romagnosi e l’Arrivabene scarcerati; Camillo Laderchi riconsegnato alle autorità pontificie in Romagna, dove tra poco lo ritroveremo implicato in un altro processo, che le su dette sue delegazioni e quelle anche più gravi di suo padre Giacomo (delle quali ora diremo) non mancano di provocare (cfr. Per tutto ciò LUZIO A., Antonio Salviotti e i processi del Ventuno, Roma, Società Edit. D. Alighieri, 1901, pp. 60-61, 255-269; Id., Il processo Pellico-Maroncelli, Milano, Cogliati, 1903, pp. 56, 73, 84, 90, 107-108, 149-159, 169).
Difatti l’astuto Salviotti, colpito da quadro vivace della situazione in Romagna fattogli dall’imberbe e tremante conspiratore faentino, consiglio al governo austriaco di darne direttamente l’avviso alle incoscienti autorità pontificie; ed intanto il card. Consalvi, temendo che l’Austria, co ‘l pretesto che il governo pontificio era debole e non sapeva difendersi da’ turbolenti, invadesse le Legazioni (che a malincuore avea cedute co ‘l trattato di Vienna), ordinata una retata, con successiva espulsione dallo stato, degli elementi torbidi. I legati di Ravenna e di Forlì (Rusconi, successo fino dal ‘19 al card. Malvasia, e Sanseverino), da quei reazionari che essi erano, si valsero dell’ordine del Consalvi per mettere la mano su i migliori liberali. È probabile che giungesse contemporaneamente l’avviso dal governo austriaco, consigliato dal Salviotti; e il fatto è che il 9-10 luglio del ‘21 furono espulsi dallo stato pontificio molti sospetti, tra cui i faentini conte Achille Laderchi, conte Francesco Ginnasi, cap. Sebastiano Baccarini, Giuseppe Benedetti, notaio Carlo Villa, Tommaso Albanesi, Domenico Ugolini, Sebastiano Montallegri e Attanasio Montanari; inoltre, circa quaranta persone furono carcerate, delle quali i nomi sono compresi nell’elenco de’ condannati dal card. Rivarola nel 1825, che riferiamo più innanzi; molti si salvarono con la fuga. Lo stesso avveniva in altre città romagnole: a Cesena, per esempio, nella notte 3-4 luglio furono arrestate circa tredici cittadini, tra i quali Pietro Caporali. La reazione, insomma, incominciò fiera e terribile, tra la desolazione e le lacrime dei parenti e degli amici de’ perseguitati. A tanto si giunse che lo stesso gonfaloniere di Faenza zucchini inviò al papa Pio VII una supplica di parte della cittadinanza e del clero, insieme con un’altra umile domanda del Magistrato, per invocare clemenza; al che seguiva una benevola risposta, e le cancellazioni e le persecuzioni ebbero qualche tregua: ma l’istruttoria del processo, che s’andò estenuendo a cinquecento e più Romagnoli, durò quattro anni e si chiuse con la severa sentenza che diremo al suo luogo.
Dopo l’arresto del Caporali, l’Austria richiese ed ebbe dal governo pontificio il conte Giacomo di Ludovico Laderchi, padre di Camillo, e del quale più volte sopra abbiamo fatto menzione come di giacobino ardente a’ tempi del dominio francese e della monarchia napoleonica (anzi, aggiungeremo ora qui che esso Giacomo fu viceprefetto napoleonico a Camerino ed a Ascoli); e dal governo toscano, poi, l’Austria richiese ed ebbe Scipione Casali, tipografo, ed il conte Orselli di Forlì, esuli in Toscana per essere stati anch’essi espulsi nel luglio del ‘21 dallo stato pontificio. Il governo papale pose per condizione che Giacomo Ladechi non venisse condannato dai giudici austriaci, ma venisse soltanto adoperato come elemento di delazione, e fosse, dopo la chiusura del processo, restituito insieme con la copia de’ suoi constituti.

1822

Il conte Giacomo fu arrestato in Faenza la sera del 27 maggio 1822, fu interrogato la prima volta il 21 giugno, e poi altre nove volte nei giorni 28 giugno, 1, 5, 10, 11, 20, 28 luglio, 6 e 26 settembre; ebbe inoltre un confronto co ‘l Caporali il 27 settembre; e tutt’i suoi constituti trovansi nell’archivio di stato di Milano (Processo dei Carbonari, VI). Un sunto copioso di essi si ha nel “ Rapporto del vicepresidente del supremo Senato di Giustizia lombardo veneto von Plencig, in data 27 luglio “, parte finale, inedita, mentre la prima parte fu pubblicata dal D’Ancona ne’ documenti al suo “ Confalonieri “. Giacomo Laderchi, assai più ampiamente e cinicamente del figlio Camillo, espose l’ordinamento della Carboneria romagnola ed inspecie faentina: disse di essere stato fatto carbonaro fin dal 1813, quand’ era vice prefetto in Ascoli, e previo consenso del direttore generale della polizia, conte Luini, il quale ve lo incoraggiò perché potesse scuoprire l’indole e i fini di quella sètta incipiente; narrò come, dopo aver seguito nel ‘15 il Murat nella sua ritirata ad Ancona, tornasse a Faenza, dove il governo pontificio gli negò un impiego. Le percussioni papali costrinsero i liberali a raccogliersi nelle società segrete; ed allora — continuava il delatore — il dott. Luigi Montallegri promosse in Faenza la Società Guelfa, dipendente dal consiglio centrale di Bologna e da un capo supremo a Milano; ma declinando tale società, il Montallegri importò da Bologna il Latinismo, co ‘l quale essa si fuse, e che non ebbe miglior fortuna. Allora, sempre per iniziativa del Montallegri, fu fondata la Carboneria, che si diffuse negli anni ’17 e ‘18 in tutta la Romagna, e della quale fu istituito un comitato direttivo composto di quattro deputati: Giacomo Laderchi per Faenza, Vincenzo Gallina per Ravenna, il conte Giuseppe Orselli per Forlì e Mauro Zamboni per Cesena. Il Comitato introdusse — narrava sempre il Laderchi — il metodo delle sezioni, specialmente di gruppi popolari subalterni, a ciascuno dei quali era preposto un carbonaro; la riunione dei gruppi popolari si chiamava la Turba, e a Faenza ne fu a capo prima il Montallegri e poi il conte Giuseppe Rondinini.
E come se queste perfide rivelazioni non bastassero, il traditore Giacomo Laderchi aggiunse la seguente lista di nomi dei carbonari faentini: conte Francesco Ginnasi, dott. Luigi, Sebastiano ed Antonio Montallegri, Carlo Villa, Domenico Ugolini, Giuseppe Benedetti, conti Giuseppe ed Ercole rondinini, conte Roberto Zauli, Francesco Rondinini, ex-capitano Paolo Giangrandi, conte Giuseppe Pasolini-Zanelli, Antonio Morri, Francesco Morri, ex-capitano, conte Giuseppe Tampieri, Antonio Bucci, Brunetti, Martini, Silvestro Utili, medici, Bondi, ex-luogotenente, Zambelli, ex-luogotenente, Ferdinando Rampi, Baroncelli del Borgo, Succi, negoziante, Foschini, scrivano di casa Rondinini, Gregorio e Giuseppe Strocchi, conte Francesco Naldi, Angelo Strocchi, Ballanti, celibe, Giuseppe Gardi, Domenico Montanari, ingeniere, Giuseppe Liverani, giureconsulto, Giuseppe e Mario Mengolini, Filippo Regoli, impiegato di dogana in Ferrara, Baccarini, ex-maggiore, conte Girolamo Severoli, Filippo e Carlo Ducci, Gallo Mareucci e un suo fratello ammogliato, Lapi, chirurgo, conte Antonio Gessi, Agostino Venturi, Alberico Alberghi, Buonaccioli, di capelli rossi, Treves, israelita, don Romualdo Polidori, Giuseppe Azzalli, don Baccarini, Michele Pasi, Luigi Marcolini, Biagioli, orefice, Bellenghi, armaiuolo, Spada, sensale, conte Severoli, fratello del cardinale.
L’Annunzio della rivoluzione di Napoli — continuò il delatore —mise in fervore la Carboneria; e in varie riunioni a Cesena ed a Ravenna, nell’agosto del 1820, fu studiato il modo di arruolare parecchi armati di formare a suo tempo una giunta di governo rivoluzionario; ma la mancanza di concordia e la mala sorte della rivoluzione napoletana impedirono l’esecuzione di cotali disegni.
L’Orselli, il Caporali, il Casali, stretti dalle infami testimonianze del Laderchi, sbalorditi dalle prove più evidenti, avviliti dalle torture morali e dai patimenti fisici, dovettero confermare molti particolari; ed insomma tutte queste rivelazioni, o fossero perfide e spontanee come quelle del traditore faentino, o fossero invece necessarie conferme come quelle degli altri, fornirono i più gravi elementi al successivo processo del card. Rivarola.
Frattanto il gonfaloniere Zucchini faceva in Faenza utili provvedimenti amministrativi; ma dopo il duodecimo assassinio avvenuto nella nostra città, il card. Rusconi scriveva a Roma “ non potersene scuoprire gli autori, essere intimoriti gli ufficiali di polizia, i giudici processati; non trovarsi testimoni a deporre; tutti temere uno stile una schioppettata “ (TIVARONI, storia critica del risorgimento italiano, Torino – Roma, Roux, 1893, V, 139).

1823

E sotto l’amministrazione del Rusconi, essendo in Faenza al gonfaloniere Zucchini successo fino da’ primi del 1823 Antonio Margotti, si cercò di diminuire ai comuni il peso dei debiti, contratti a cagione del passaggio delle armate austriaca e napolitana.
Morto Pio VII il 20 agosto di quell’anno stesso, gli successe il 28 settembre quell’Annibale Della Genga che, sotto il nome di Leone XII, si mostrò capace d’ogni più turpe eccesso contro la civiltà e l’umanità; ed il papa novello manifestò subito le sue tendenze reazionarie licenziando il Consalvi, e pubblicando editti che ordinavano la chiusura de’ teatri prima della mezzanotte in certe sere, Imponevano il precetto pasquale, vietavano alle donne le vesti attillate, richiamavano i Gesuiti al Collegio Romano, e proibivano perfino l’innesto del vaiolo! Nuove e più afferrate persecuzioni contro i liberali si iniziarono nelle Romagne, a governar le quali (sembrando troppo debole e mite il Rusconi) papa Leone XII inviò ben presto, come legato a latere in Ravenna, quell’altro tristissimo uomo che fu il card. Agostino Rivarola.

1824

Primo atto di costui fu quello di ordinare che, Durante la notte, chiunque uscisse di casa dovesse recar seco una lanterna accesa (uso, questo, vigente prima [1824] del 1797), e ciò per impedire i malefici notturni; con editto, poi, del 12 luglio 1824 ordinò la chiusura di tutte le osterie e bettole; e per ricomporre l’animo dei borghigiani e dei cittadini a pace, egli impose, con un metodo addirittura medioevale, dodici matrimoni, e ciò è di sei donne della città con sei borghigiani, scegliendo gli sposi e le spose tra la peggior genta, cui fece gola la promessa dote di 50 scudi, oltre ai vestimenti donati, i dolci, le feste. Contali matrimoni furono celebrati l’8 settembre in duomo dal vescovo, e i commenti in Faenza furono vivi e vari, e curiosi i raffronti con scene di altri tempi. La speranza concordia, del resto, ben poco si ottenne; chè il 12 decembre 1824 certo Tommaso Querzola, brutale caporione de’ sanfedisti, il quale con le percosse e con gl’insulti intendeva di spaventare i liberali, per questione personale e più specialmente per avere assassinato certo Tommaso Cantagalli, fu a sua volta ucciso.

1825

Ma l’astuto cardinale, dopo aver carezzate le sue vittime, non tardò a metter fuori le unghie. Nella [1825] notte 12-13 marzo 1825 furono arrestati nelle loro case i giovani Raffaele tassinari, Giuseppe Orioli, Vincenzo Ancarani, David Liverani, Eugenio Baldini, Vincenzo Tanfini, Pietro Runcaldier, Girolamo Cinti, Antonio Carroli, imputati d’avere, correndo nottetempo per le vie della città tra schiamazzi e canti, bruttato di fango un’immagine della madonna in terracotta, posta nel muro di fianco al duomo, dietro il fonte pubblico. La mattina del 14 il Rivarola, venuto a Faenza, si recò con il gonfaloniere e gli Anziani a far pubbliche preghiere dinnanzi all’offeso simulacro, mentre i poveri spensierati giovani erano trasportati, tra le sonore fischiate de’ borghigiani, nel forte di s. Leo, dove scontarono con lunga prigionia, seppure erano dessi i colpevoli, il loro atto irriflessivo. Le carrozze per il trasporto furono pagate dalle famiglie loro, ed è notevole che il governatore di Faenza, Paolo Maria Basvecchi di Montelupone, avrebbe voluto che fossero scoperte ed i cavalli procedessero al passo. Al solo Antonio Carroli fu concesso, perché ammalato, di scontare la pena in Faenza.
Intanto, finiti i processi contro i Carbonari, già iniziati dal Rusconi, il Rivarola fu a Roma per tre mesi ad accordarsi co ‘l governo su la gravità de’ misfatti e su le pene da infliggersi; ritornò, poi, il 28 agosto, tra suoni e feste e accoglienze de’ magistrati, e il dì dopo, pro tribunali sedendo, pronunziò la terribile sentenza, che fu pubblicata il 14 settembre, contro i prigionieri politici e gli esuli accusati. Nella esposizione de’ motivi della sentenza stessa co constatavasi esistere ne’ domini pontifici la società massonica, “ retaggio infausto del passato regime “, la società carbonara, “ che insidia la tranquillità delle Marche e della Romagna, profittando degli sconvolgimenti prodotti dai Carbonari di Napoli e del Piemonte, nel 1820-21 “, e molte altre unioni segrete, che sono diramazioni delle su dette, e che si appellano dei Guelfi, Adelfi, Maestri perfetti, Latinisti, della Turba, dei figli di Marte, degli Ermolaisti, etc., etc. Onde, ad estirpare cotal peste, dei più che 500 accusati, sette furono condannati a morte, sei alla detenzione perpetua in un forte dello stato, tredici alla detenzione per venti anni, dodici alla detenzione per anni quindici, venti alla detenzione per anni dieci, uno alla detenzione per anni sette, tre alla detenzione per anni cinque, tredici alla galera in perpetuo, sedici alla galera per venti anni, quattro alla galera per quindici anni, quindici alla galera per dieci anni, tre alla galera per sette anni, uno alla galera per cinque anni, uno alla galera per tre anni, due alla detenzione in un forte per due anni, due furono espulsi dallo stato, diciotto assoggettati al precetto politico di prim’ordine, molti altri al precetto politico di second’ordine; ed altri e altri erano lasciati in libertà purché esigliassero, e non pochi fuorusciti erano abilitati a rientrare nello stato purchè si presentassero alla polizia e si sottoponessero al giudizio; e contro altri era spiccato mandato d’arresto. Il precetto di prim’ordine consisteva nella proibizione di allontanarsi dalla città, di associarsi a persone sospette etc., e nell’obbligo di ritirarsi a casa ad un’ora di notte e non uscire prima della levata del sole, come pure di presentarsi ogni mese alla polizia con l’attestato di essersi confessati, di avere adempiuto al precetto pasquale, e di aver fatto gli esercizi spirituali, per tre giorni ogni anno, in qualche ritiro o convento. Il precetto di second’ordine proibiva di allontanarsi dalla Legazione senza permesso, di associarsi a persone sospette, co ‘l solito obbligo di presentare alla polizia ogni mese l’attestato della confessione, dell’adempimento pasquale e degli esercizi spirituali. Fu, come ognun vede, un vero flagello; e noi riportiamo qui sotto dal cronista Tomba l’esatta nota che si riferisce agli accusati faentini:
conte Giacomo Laderchi, convinto di Massoneria e Carboneria, di tentata rivolta e di essere uno de’ quattro membri del Consiglio supremo carbonaro (carcerato); Giovanni Baldi, ex ufficiale italico, convinto di Carboneria e di correità nell’omicidio premeditato del vetturino Sante Bertazzoli, avvenuto la sera del 29 dicembre 1820 (carcerato); Vincenzo Succi, negoziante, convinto di Carboneria e di mandato dell’omicidio di un Francesco Gamberini (contumace): condannati a morte, commutata in venticinque anni di fortezza.
A questi tre che sono i principali colpiti (ma della speciale indulgenza usata ai Laderchi, padre e figlio, in premio delle loro delazioni, diremo tra breve) segue la lunga lista de’ colpiti minori, tutti accusati press’a poco di Carboneria, Massoneria o liberalismo, e ciò è:
dott. Luigi Montallegri e Matteo Balboni, ex ufficiale: detenzione perpetua in un forte; Mariano Salvini: detenzione in un forte per venti anni, ridotti a quindici ; Spada Gabriele, sensaale: cinque anni di detenzione, ridotta a tre e tre quarti ; conte Camillo Laderchi (il delatore di Venezia), Sebastiano Montallegri, Andrea Baroncelli, ex gendarme, Teodoro Tabanelli, oste, Battista Tabanelli, oste, Francesco Baldassarri detto Chiccoia, Domenico Profili, caffettiere: quindici anni di detenzione, ridotta ad undici e un quarto ; Domenico Monti, maniscalco, Giovanni Bandini, detto della Pozza, Giacomo Sangiorgi, detto dei Boschi, Bartolomeo Venturini, mugnaio, Giuseppe Boesmi, falegnamie: dieci anni di detenzione, ridotta a sette e mezzo ; Giuseppe foschi, detto il Rosso della Topa, Giovanni Morini, detto Morinino, Pietro Tonducci, detto il figlio di s, Orsola, Giuseppe Marini, scrivano, Girolamo Berlenghi, archibugiere, Pietro Berti, sartore: galera in perpetuo, ridotta a venti anni ; Giuseppe Gardenghi, sartore, Natale Mattarelli, Cuoco, Francesco Caldesi, spacciatore di sali e tabacchi: galera per dieci anni, ridotta a sette e mezzo; Antonio Morri, possidente, Giovan Battista Orioli, Angelo Baldini, sartore, Francesco Bettoli, Giuseppe Rusconi, imbianchino, Michele Bettoli, calzolaio, Francesco Borghi, merciaio, Francesco Mantellini, appuntatore, Giosuè Monti, calzolaio: galera per venti anni, ridotta a quindici; Angelo Emiliani, tintore, Carlo Berti, calzolaio, Paolo Poggi, causidico, Baldrati Giuseppe, detto Titiro, calzolaio, Giuseppe Conti, oste, Vincenzo Sangiorgi, oste, Giovanni Caselli, oste, Sebastiano Placci, scrittore: puniti co ‘l sofferto carcere e soggetti al predetto di prim’ordine; Pio Sangiorgi, negoziante, Angelo Lassi, domestico: dimessi per mancanza di prove; conte Achille Laderchi, Tommaso Albanesi: provvisoriamente abilitati dal carcere, e allontanati già con le misure del 10 luglio 1821; conte Francesco Ginnasi, Giuseppe Benedetti, Sebastiano Baccarini, ex ufficiale, notaio Carlo Villa, Giuseppe Garoli: abilitati a rientrare nello stato e presentarsi alla polizia entro le 24 ore che vi saranno pervenuti, affinché si proceda su i loro addebiti, etc.; Antonio Biffi, vetturino: abilitato provvisoriamente dal carcere, con precetto di presentarsi, novesi del non novis; Attanasio Montallegri, Giuseppe Strocchi, Francesco Rondinini, ex ufficiale, Francesco Morri, conte Pietro Laderchi, Carlo Marii, Antonio Lapi, chirurgo, Carlo Martini, medico, Filippo Regoli, impiegato di dogana, conte Giuseppe Tampieri, Francesco Strocchi, oste: soggetti al precetto di prim’ordine per due anni, cui succederà per un anno il precetto di secondo ordine; Carlo Giangrandi, Luigi Marcolini, parrucchiere, Francesco Piazza, sartore, Giovanni Tosi, finanziere, Giuseppe Liverani, Domenico Sangiorgi, ex ufficiale, Francesco Sangiorgi, impiegato, avvocato Luigi Baldini, Antonio Panzavolta, Luigi Ermucci, Bernardo Biagioli, setacciaro: soggetti al precetto di prim’ordine: Antonio Bucci, medico, Angelo Strocchi, Francesco Fanti, medico, Natale Foschini, scrivano, Giuseppe Foschini, ingeniere, Carlo Traversari, maestro di ballo, Gallo Marcucci, Luigi Bonazzoli, Francesco Biagioli, orefice, Ignazio Mengolini: soggetti al precetto di second’ordine per due anni; Michele Nanini, sensale, Marco Mengolini, Giuseppe Azzalli, Pietro Martini, conte Francesco Naldi, Carlo Gardi, Alberico Alberghi, Antonio Bucci, Luigi Baldi, negoziante, Carlo Barziga, macellaio, Giuseppe Orioli, vetraio, Andrea Tabanelli, oste, Michele Fregnani, detto Michelotto, Sebastiano Caselli, Ferdinando Rampi, conte Giuseppe Pasolini-Zanelli, Michele Pasi: soggetti al precetto di second’ordine.
Si ordinava, inoltre, il mandato di arresto contro il conte Giuseppe Rondinini, Francesco Zambelli, Luigi Ghinassi ed Angelo Querzola, carrozzaro, concedendosi a quest’ultimo il beneficio di due mesi di tempo a prestarsi e giustificarsi. E con editto contemporaneo, il Rivarola minacciava di morte chi in avvenire convocasse presiedesse società segrete, e di dieci anni di galera chi ne facesse parte e custudisse armi, emblemi, danaro delle sètte. Eppure molti sfuggirono a tali minacce e le società segrete continuarono.
Ad alcuni condannati, poi, il Rivarola, per acquistarsi fama di munifico, sostituì la relegazione in un convento a quella del carcere, o comunque mitigò l’asprezza della pena; e quanto ai due traditori, Giacomo e Camillo Laderchi, essi si ebbero in tacito premio delle loro sciagurate rivelazioni non solo la commutazione delle pene, com’è detto nella sentenza, sì anche il successivo beneficio d’una breve relegazione in un convento, con libere passeggiate, a Ferrara. Quivi Camillo poi si ammogliò iniziando il ramo ferrarese della sua famiglia, e divenne illustre giureconsulto.
È facile pensare come la terribile reazione inacerbisse gli animi; e così avvenne che, mentre i dazi e le gravezze imposti dallo spendereccio gonfaloniere Margotti sfibravano ognior più la [1826] cittadinanza, due archibugiate uccidevano il 2 luglio 1826 il delegato politico Antonio Bellini, presso il campanile de’ Servi, perché reputato autore delle liste degl’incarcerati e perseguitati politici del ’21: e il 18 agosto veniva ucciso anche il parroco di s. Eutropio, Carlo Brintani. Nè il famigerato Rivarola la passò addirittura liscia: chè il 23 luglio in Ravenna, mentre egli usciva dalla casa di Gabriele Rasponi, un colpo di pistola feriva gravemente il can. Ignazio Muti, il quale era nella carrozza stessa del cardinale; onde quest’ultimo partì presto per Genova, e il papa gli sostituì, come vice-legato, mons. Lavinio de’ Medici Spada. Ma a punire le nuove ribellioni il papa nominava il 22 agosto una Commissione speciale, mista di ecclesiastici e di secolari, presieduta da mons. Filippo Invernizzi, la quale giunse a Ravenna con milizie sue proprie e pubblicò subito un editto promettendo 10.000 scudi, l’impunità e il passaporto al sicario che attentò alla vita del legato, se manifestasse il mandante, o al mandante se manifestasse il sicario, o a chiunque altro aiutasse la giustizia a scoprire i colpevoli. Inoltre ordinò nuovi rigori contro i carcerati, e promise perdono ed assoluzione a qualunque settario abbandonasse spontaneamente la sètta; ma nessuno rispose al turpe appello, anzi il numero degli affiliati alle società segrete andò crescendo.

1827

Il 28 marzo 1827 la commissione speciale, sentendosi poco sicura in Ravenna, si trasferì in Faenza, stabilendo la sua residenza nel palazzo pubblico, mentre il col. Ruvinetti (uno de’ commissari) prendeva alloggio nel palazzo Ferniani, ed i carabinieri della Commissione, co ‘l loro tenente Vincenzo Utini, si stanziavano nella casa di Gallo Ricciardelli, di fronte al palazzo de’ conti Cavina. Iniziati subito i lavori, la commissione incominciò co ‘l condannare a morte il primo agosto certo Domenico Zauli, detto Tiberietto, garzone di osteria, qual presunto autore dell’assassinio del parroco Brintani. Il povero giovine, non confessò, e condannato anzi senza prove, fu decapitato il 13 agosto su la piazza, dinnanzi al popolo inorridito. Il 7 settembre, poi, furono incarcerati Giuseppe Cordosi, calzolaio, i fratelli Pietro e Vincenzo Violanti, benestanti, Tommaso Antolini, oste, e poi, il giorno 11, Nicola Benedetti di Gubbio, cameriere del vescovo e Scipione Ferlini, sartore: tutti presunti rei dell’omicidio del querzola nel ‘24. Bartolomeo Romagnoli, ricercato, si sottrasse fuggendo per le vie Borghidoro, Bondiolo e Giulio Cesare Scaletta. Dei catturati alcuni furono lasciati liberi; altri, tra cui il Cordosi, furono rilasciati mediante danaro; e i fratelli Violanti, convinti che il Romagnoli fosse ormai al sicuro oltre il confine, cercarono salvarsi da un duro carcere preventivo, compromettendolo. Ma il Romagnoli era nascosto in una casa di via Orfanotrofio, presso la moglie di un altro condannato, certo Teodoro Tabanelli; ed un Giovanni Bandini, soprannominato della Pozza, già condannato nel ‘25, dalle carceri di Civita Castellana scelleratamente denunziò, per avidità di denaro, l’asilo di quell’infelice (dopo averlo saputo egli stesso dalla moglie sua, che aveva potuto vedere il rifugiato in casa Tabanelli, guardando dal buco della serratura); onde la sera del 29 decembre i carabinieri catturarono il giovane Romagnoli, il quale, trasportato nelle carceri, temendo forse non riuscissero i suoi aguzzini a strappargli confessioni compromettenti per altri, chiese gli fosse rasa la barba, e mentre il barbiere Emiliani compieva tale operazione, gli tolse rapidamente di mano il rasoio e si segò il collo, trà lo spavento de’ carabinieri. A lungo, poi, nella chiesa di s. Severo, ove fu trasportato il cadavere, furono visti, nell’anniversario della morte, sparsi fiori e ghirlande; e quando, scoppiata poi la rivoluzione del ‘31, i miseri avanzi delle suicida furono trasportati alla chiesa de’ Minori Osservanti, tra immenso popolo riverente, parlò, censurando acerbamente l’opera della commissione, il prete Giuseppe Maccolini. Nè miglior vendetta (nota giustamente il MASONI, p. 29) potevano avere quelle ceneri: il governo dei preti condannato, sulle ossa di un martire, da un prete.
Ed altri arresti e processi la terribile Commissione ordinò, condannando a morte un Vincenzo Galassi, detto Cuccoletto (presunto assassino del delegato Bellini), il quale si salvò fuggendo insieme con Antonio Biffi, Carlo Filiberti, flebotomo, Nicola Benedetti, Tommaso Antolini; e intanto, per denunzia di un Giuseppe Lossada, bolognese, era scoperta la sezione carbonara detta la Speranza : onde il 12 ottobre vennero catturati Girolamo Carroli, Ercole Nannini, Carlo Sacchi e Giovanni Forlivesi; si salvarono con la fuga il dot. Scipione Zauli e il notaio Francesco Morini, che si ebbe sequestrati i beni.

1828

Nel febbraio 1828 mons. Invernizzi fu a Roma a prendervi l’imbeccata su ‘l modo di procedere contro i settari, e tornò a Faenza il 10 marzo con il còmpito di esser severo con gl’indocili; e allora il governatore di Faenza Filippo Masini di s. Arcangelo e il cav. Dionigi Strocchi (il quale, dimentico del suo passato, fece nel periodo del terrore umilianti dichiarazioni di fedeltà al governo, cfr. BELTRANI, p. 46) ebbero l’incarico di persuadere i settari a fare rinunzia alle loro associazioni; e l’eloquenza dello Strocchi fu tale che i convertiti svelarono i nomi di compagni ignoti, e poi, temendo vendette, si dettero essi medesimi a convertire altri: così parecchi catturati (Carroli, Nannini, Forlivesi, Sacchi, Spada) uscirono liberi. Successo, poi, quale legato di Ravenna il card. Vincenzo Macchi di Montefiascone (mentre si pronunziava il 13 maggio la sentenza contro i presunti autori dell’attentato al Rivarola), il Macchi attese, prima di assumere l’ufficio, che la Commissione avesse compiuto l’opera sua; e l’Invernizzi sbrigò le cose in modo che il 18 settembre potè avviarsi a Rimini (ma il col. Ruvinetti rimase in Faenza, raggiunto dalle imprecazioni delle sue vittime sotto la forma di un colpo apoplettico), dopo avere, con tardivo atto di tutta clemenza, concesso il ritorno in patria agli esiliati del ‘21, obbligandoli però a spontanee (!) ritrattazioni: onde rimpatriarono il conte Francesco Ginnasi, il conte Giuseppe Rondinini, il capitano Sebastiano Baccarini, il notaio Carlo Villa, Luigi Ghinassi. Tornò anche il notaio Francesco Morini, di recente fuggito; altri non si mossero dal loro sicuro asilo. Il conte Achille Laderchi e Tommaso Albanesi avevano già prima ottenuto di ritornare in patria.
Incontro al card. Macchi mandò la Magistratura faentina a Pesaro i due Anziani conte Alessandro Ginnasi e Dionigi Magnani, accompagnati dal segretario di Bissoni; e feste, addobbi, luminarie, fuochi artificiali, lauti banchetti, dediche, perfino un arco di trionfo ricevettero il 29 ottobre nella nostra città, tra lo scampanio delle chiese, l’eminentissimo, il quale di lì a un mese dovette togliere ai maggiorenti papaloni il dolce aspetto di sè, recandosi a Ravenna ad accogliervi il figlio del re di Prussia.

1829

Ripassò poi da Faenza nel febbraio del 1829, quando, morto finalmente l’abbietto papa Della Genga, fu convocato il conclave, nel quale riuscì eletto il 5 aprile il card. Francesco Saverio Castiglioni, che prese il nome di Pio VIII. Canti in chiesa, corse di barbieri, doti a fanciulle, illuminazioni dimostrarono, come al buon tempo antico, il servilismo di Faenza verso il nuovo padrone; e che questi ben poco differisse dal predecessore è dimostrato dalla condanna e dal sequestro di un innocente libercolo, pubblicato dal bibliotecario conte Giovanni Gucci con i commentarii di di Domenico Farini di Russi, contenente poesie, inscrizioni etc., in onore del vescovo Stefano Bonsignori. Il Gucci, il Farini, i revisori ecclesiastici furono puniti con alquanti giorni di esercizi spirituali, contenendo l’opuscolo errori morali e teologici, e perfino (orrore!) un elogio dell’imperatore Giuseppe II. Di più, con editto dato in Forlì il 14 marzo dall’inquisitore frate Angelo Domenico Ancarani, Era vietata ogni stampa e diffusione senza licenza del s. Uffizio, era proibito ai cristiani ed agli ebrei di dormire, giuocare e ballare insieme, etc., era fatto obbligo di rivelare o denunciare chi fosse eretico, o sospetto, o diffamato d’eresia, o fautore de’ riti maomettani, israeliti etc., o chi offendesse l’inquisizione e conservasse libri e scritti contenenti eresie, magie, negromanzie etc. Al che aggiungevansi, in danno della nostra città, nuove e gravi imposizioni per i lavori alle strade di campagna, mentre il municipio era costretto a vendere alla comunità di russi la rocca di quel paese, construita già da Astorgio II Manfredi.

1830

Scorreva così tristamente la vita faentina, quando il 5 agosto del 1830 giunse a Faenza l’eco della clamorosa rivoluzione di luglio in Parigi, e della caduta del re Carlo X di Borbone; il 9 si diffuse come un baleno la notizia della elezione di Luigi Filippo d’Orléans al trono di Francia, con il consenso della nazione; e in pari tempo ecco le sollevazioni del Belgio, della Polonia, del Portogallo, della Svizzera, e rumoreggiando la Prussia, la Sassonia, la Baviera. Un’alba novella sembrava sorgere su l’orizzonte d’Europa; e mentre un brivido pauroso serpeggiava tra i paparoni e i sanfedisti, un raggio di speranza, insieme con un rinnovato ardore, penetrava nel cuore de’ giovani, mal rasserenati dai consigli di prudenza degli uomini maturi, che vedevano le milizie austriache ingombrare l’Italia superiore fino al Po.

1831

Il 30 novembre moriva Pio VIII e gli succedeva il 2 febbraio del 1831 il frate camaldolese Mauro Cappellari, co ‘l nome di Gregorio XVI, nemico anch’egli d’ogni progresso. Non le solite feste salutarono in Faenza il nuovo Papa; chè la notizia giunse tra la malinconia de’ clericali, gravi di tristi presentimenti, e lo scoraggiamento de’ soldati pontifici; sotto l’ostentata allegrezza spuntava la paura, e intanto un fremito mal celato scorreva dovunque, e si preparavano occultamente coccarde tricolori ed armi, e si sussurravano voci di prossima rivolta. Il 3 febbraio era scoppiata la rivoluzione in Modena, donde il duca Francesco IV ritiravasi, dopo aver fatti prigionieri Ciro Menotti e molti altri congiurati; il 4 insorse Bologna, al grido di libertà ed indipendenza. La notizia del moto bolognese fu portata a Faenza il giorno 5, co ‘l proclama del nuovo governo, dall’imolese Niccola Fantini; e uscirono allora alla luce del sole le coccarde e le bandiere tricolori. Una forte schiera di giovani, guidata dal cappellaio Pietro Tommasini, cesenate, al grido di viva la constituzione!, assalì il corpo di guardia, e disarmò quanti ufficiali e soldati trovò, essendosi ad essa congiunta un’altra banda d’insorti, guidati dall’oste Sebastiano Caselli. Il governatore pontificio Bernardo Gasperini, per evitare il sangue, non resistette; chè anzi venne ad accordi con gli insorti, e tosto fu nominata una commissione provvisoria di governo, della quale i componenti furono indicati dal Gasperini stesso, per suggerimento di Dionigi Strocchi (i conti Rodolfo Zauoli, Girolamo Severoli, Giuseppe Tampieri, Pietro Laderchi, Francesco Ginnasi, Giovanni Zucchini, il cav. Dionigi Strocchi, Filippo Bucci e Ferdinando Rampi) : il conte Giuseppe Rondinini fu eletto comandante della guardia nazionale. Dei su detti membri solo il Ginnasi si rifiutò, e fu poi surrogato con l’avv. Antonio Guidi. L’ordine pubblico fu mantenuto dai liberali stessi, ordinatisi il dì dopo in forma militare, a’ quali la moglie del dott. Angelo Cavalli donò una bandiera tricolore. Tale fu il principio della rivoluzione faentina, non bruttata di sangue, e lieta di speranze. “ Il potere temporale, che il romano pontefice esercitava sopra questa città e provincia, è cessato di fatto, e per sempre di diritto “, diceva un nuovo proclama, emanato dal governo provvisorio di Bologna l’8 febbraio, e che doveva essere imitato dalla commissione faentina; ma lo Strocchi, memore degli effetti del suo proclama murattiano, persuasi dapprima i suoi colleghi a soprassedere. Se non che, dopo avere richiesta ed ottenuta, a garanzia propria, un’istanza firmata da moltissimi cittadini, anche la commissione provvisoria faentina dichiarò con il pubblico manifesto la caduta del governo papale.
Il 10 febbraio i Faentini, gl’Imolesi, i Bagnacavallesi, quelli di Castelbolognese, seguiti da’ Bolognesi, marciarono per Forlì, donde mossero verso s. Leo, Ancona, Civita Castellana, a liberarvi delle galere i parenti e gli amici, vittime del Rivarola e della commissione leonina presieduta dall’Invernizzi. L’incendio della rivoluzione infiamma tutta la Romagna, serpeggia nel ferrarese, si diffonde nella Marca; il faentino Giuseppe Sercognani, abitante a Pesaro, ex-tenente colonnello dell’esercito italico, è nominato comandante delle guardie nazionali, si trova a capo de’ sollevati, prende il forte di s. Leo, costringe Ancona a capitolare, pianta il tricolore a Fermo e ad Ascoli, e si spinge fino a Terni, inutilmente eccitando i Romani alla rivoluzione. Il vecchio e il forte soldato dovette poi, quando fu repressa la rivolta, riparare in Francia, e morì povero il 9 dicembre del ’44 a Versailles, in un ospedale militare: onore alla sua memoria!
Frattanto Gregorio XVI nominava legato a latere nelle province sollevate il card. G. A. Benvenuti con l’incarico di eccitare una controrivoluzione; ma il delegato della polizia rivoluzionaria in Ancona, conte Pietro Ferretti, intercettò una corrispondenza epistolare tra il Benvenuti e il card. Bernetti, segretario di Stato, ed arrestò senz’altro il Benvenuti, mandandolo con buona scorta a Bologna. Il prigioniero passo il 22 febbraio da Faenza, dove tra le feste e gl’inevitabili incidenti contro i papaloni, il governo provvisorio nominava il conte Giuseppe Tampieri e il dott. Antonio Bucci a deputati di Faenza, da inviarsi al congresso de’ rappresentanti delle Romagne e della Marca, convocato in Bologna; il qual congresso, adunatosi co ‘l nome di Assemblea Nazionale il 26 febbraio, proclamò la caduta del potere temporale e la formazione di uno solo Stato delle Province Unite. Presidente dell’assemblea fu poi eletto l’avv. Antonio Zanolini, e a capo del ministero fu posto l’avv. Giovanni Vicini.
Ma una triste nuova si diffuse per la nostra città il 7 marzo: il duca di Modena, con forte mano d’Austriaci (de’ quali il papa aveva domandato l’aiuto) aveva rioccupati i suoi domini, ne’ la monarchia borghese di Luigi Filippo di Francia s’era opposta alla restaurazione, dimentica ben presto della proclamazione del principio del non intervento, fatta dal suo re per puntellarsi il trono con l’illudere i liberali. Luigi Filippo, infatti, quando il ministro austriaco Metternich gli ebbe scritto che la rivoluzione italiana era bonapartista (Luigi e Napoleone Bonaparte, espulsi da Roma, erano entrati in Bologna), s’affrettò a dichiarare le sue intenzioni pacifiche, ed anziché favorire, secondo la promessa, i liberali italiani, denunziò a Vienna i loro intendimenti. A Ferrara i Tedeschi ristabilivano il governo papale; ad Argenta e a Cento si abbassavano le bandiere liberali e rialzavansi gli stemmi pontifici; e per Faenza passavano di continuo emigrati e fuggiaschi, diffondendo il timore che gli Austriaci piombassero su Bologna e Ravenna; e intanto il faentino col. Armandi, che già abbiamo ricordato altra volta (cfr. p. 299), è fatto generale. e poi ministro della guerra, e passa in rivista sulla piazza di Faenza 700 soldati e 500 volontari, venuti da Bologna; e molti Faentini, tra cui l’ ardita banda dell’ oste Caselli, si armano avviandosi a Forlì. Trascorrono così quattro giorni di ansietà, finchè l’11 marzo si pubblica un manifesto del gen. Grabunski, da Forlì, in cui è detto avere gli Austriaci assicurato che non occuperanno altri luoghi all’infuori di Ferrara e Comacchio. Ma la banda del Caselli invigila i loro movimenti su ‘l Po, mentre nella città il governo provvisorio riduce alla metà il prezzo del sale, abolisce la tariffa doganale e il dazio delle carni, congeda e rinnova impiegati. Quaranta liberali, che si adunavano in casa del dott. Martini, e componevano la così detta società del buon ordine, sorvegliavano ogni atto del governo, esercitando quel che oggi si dice un “ sindacato “; per questo il conte Rodolfo Zauli-Naldi rinunziò all’ufficio, e gli successero prima il medico Girolamo Sacchi, per tre giorni, e poi il medico Antonio Bucci; a quest’ultimo si aggiunsero anche Bernardo Morri, il notaio Francesco Morini, il medico Girolamo Brunetti, e così la commissione provvisoria di governo in Faenza risultò composta di dodici membri.
Ma gli Austriaci decidono di procedere oltre nell’invasione; ed allora il ministro della guerra, gen. Armandi, pensa di dirigere metà del piccolo esercito di 7000 uomini (del quale lo stato delle Province Unite disponeva, e che era comandato dal gen. Carlo Zucchi) verso Roma, agli ordini del Sercognani, e metà trattenerne a difesa della Marca e delle Romagne; e intanto il governo nomina e manda nelle province prefetti e sottoprefetti (il conte Francesco Ginnasi di Faenza è fatto prefetto di Forlì) a mantenervi lo spirito rivoluzionario. Vani sforzi: da Milano, il 19 marzo, il capo supremo degli Austriaci, barone di Frimont, annunzia con un proclama a’ popoli dello stato romano che le milizie imperiali, “ chiamate in soccorso dal papa, indegnamente tradito, vengono a ristabilire il governo legittimo e a liberare i sudditi dagli orrori dell’anarchia “; e mentre l’aquila austriaca spicca di nuovo il volo su Bologna, i membri del governo delle Province Unite, vedendo impossibile un’onorata resistenza, si ritirano su Ancora, e passano da Faenza la mattina del 20, proprio quando i due deputati faentini, Tampieri e Bucci, stavano per partire per Bologna, a parteciparvi all’Assemblea Nazionale, convocata per quel giorno stesso. Il dì dopo ecco l’Armandi in compagnia del card. Benvenuti, sempre prigioniero, e il gen. Zucchi con 3000 uomini; il terzo giorno la città è sgombra. La faentina commissione provvisoria di governo si scioglie e si ritira, dopo aver composto, a tutela dell’ordine, un’altra commissione di cittadini e sacerdoti, sotto la presidenza del vescovo; e il 23 marzo 4000 Tedeschi entrano dalla porta Imolese, il 24 ne entrano altri 8000, avviati a Forlì, ad inseguire i ribelli. Con essi torna il governatore Gasperini che ristabilisce l’antica magistratura, scioglie i corpi militari, ordina la distruzione delle coccarde, bandiere, emblemi di libertà, impone che tutti cittadini depositino qualunque arma. La reazione prorompe violenta: i briganti del borgo d’Urbecco, organizzati in novella guardia civica, agli ordini del conte Girolamo Battaglini, commettono ogni sorta di eccessi, instigati dai tre famigerati parroci (di s. Savino, di s. Lorenzo e della Magione) Babini, Bertoni e Campidolori, e dall’agente di polizia papale Andrea Ballardini; la caccia ai liberali, gl’insulti, le percosse, le carcerazioni, gli assassini funestano la città, essendo impotente ad impedire cotali infamie la rinnovellata magistratura.
La fine dell’impresa liberale s’affretta ormai. Il gen. Zucchi si sostenne ancora con qualche vigore a Rimini, poi dovette cedere il passo agli Austriaci soverchianti, ed Ancona cadde ne’ loro artigli. Il gen. Armandi, perduta ormai ogni speranza nella Francia, consiglia i suoi colleghi a trattare co ‘l card. Benvenuti ritornato libero, e il 26 marzo l’accordo è concluso, e per esso il governo delle Province Unite si scioglie e passa nelle mani del Benvenuti stesso, il quale impegna la sua sacra parola, in nome del papa da lui legalmente rappresentato, che tutti gli estranei allo strato pontificio se ne andranno inllesi, e sarà concessa generale amnistia. Ma il papa, appena gl’insorti, rispettosi dei patti conclusi, hanno deposto le armi, dichiara che gli atti del Benvenuti sono nulli, essendo costui prigioniero del nemico e perciò avendo perduto la facoltà d’essere interprete del governo papale; e viola odiosamente la capitolazione, ordinando processi, persecuzioni, esili, carcerazioni e supplizi. In Faenza i papaloni del Battaglini gareggiano nella ferocia, e il 5 aprile, fingendosi bugiardamente assaliti, aggrediscono, feriscono, uccidono, invadon le case de’ liberali; e la gazzarra orribile dura finché non giungono gli Austriaci del Geppert a rimettere un po’ d’ordine, verso la metà del mese. Ma, partiti costoro per Bologna, si riaccende la zuffa, fortunatamente interrotta dal suono dell’ora di notte, che i briganti scambiano per una chiamata del popolo alle armi. È doveroso ricordare qui come il vescovo della città Giov. Nicolò Tanari (succeduto fino dal ‘27 al Bonsignori) ed il governatore Gasperini si adoperarono a dominare i malviventi; ma costoro non furono tenuti veramente a freno, se non dall’arrivo di un grosso drappello di Croati (29 aprile), mentre fuggivano in Toscana il gonfaloniere Pietro Mazzolani (20 aprile) ed il segretario Bissoni (4 maggio). Anche molti liberali dovettero fuggire in Francia, per non esser colpiti dalle vendette papali; se non che, a limitare quest’ultime giunse il Memorandum delle potenze allo stato pontificio (10 maggio), che invitava alla clemenza ed alle riforme; onde, nel tempo stesso che un editto del 5 luglio riordinava le province e i comuni, le potenze, con protocollo del giorno 10, garantivano la sovranità temporale del papa (la Francia subordinava tale garanzia alla esecuzione degli atti di clemenza e delle riforme): un breve papale del 12 luglio, poi, accordava l’invocata amnistia generale, ma escludeva da essa trentotto persone condannate all’esilio, fra cui il gen. Armaudi, il gen. Sercognani, e i due Montallegri, dott. Luigi ed Attanasio, di Faenza. Già il card. Opizzoni, legato straordinario per le province prima ribellatesi, aveva instaurato un governo piuttosto equanime e umano, quando, cessata l’amministrazione di lui, e risolte le quattro legazioni con i rispettivi capoluoghi di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, il su ricordato editto del 5 luglio stabiliva che ogni provincia dovesse essere amministrata da un Delegato (ecclesiastico) o Legato (se cardinale), e che presso ogni Delegato vi fosse una congregazione governativa di quattro consiglieri, nominati dal sovrano e con voto deliberativo su i bilanci, consuntivo su ‘l resto; stabiliva, inoltre, che i comuni fossero amministrati da consigli composti da sedici a quarantotto consiglieri, secondo la rispettiva popolazione, nominati per la prima volta da’ rispettivi Delegati, e in seguito dal consiglio stesso. Detto consiglio dovea essere composto per un terzo di nobili possidenti, per un terzo di possidenti non nobili, e per l’altro terzo di professionisti, e doveva rinnovarsi di un terzo ogni biennio. La magistratura comunale era composta di tre a nove anziani, e di un loro capo o Gonfaloniere, eletti per la prima volta dal Delegato, ed in seguito rinnovati ogni biennio dal consiglio. In ogni provincia, poi, dovea adunarsi annualmente un consiglio provinciale, composto di membri scelti dai consigli comunali (uno ogni 20000 abitanti), per deliberare su i lavori pubblici e su i conti della provincia. Altri editti provvidero a migliorare le finanze e l’esercito.
Ma cotali riforme non contentarono affatto i liberali, essendo chiara in esse l’ingerenza del governo nell’amministrazione dei comuni, e la preponderanza della casta sacerdotale. A Faenza la magistratura era stata dal prolegato di Ravenna riformata così: conte Alessandro Ginnasi, gonfaloniere; Vincenzo Carroli, Pietro Violani, Luigi Rondinini e Pietro Guidi, anziani; quand’ecco la malattia del 23 scoppia una zuffa tra i “ briganti “ del Borgo e la guardia civica, rimanendo ucciso il capo-brigante Domenico Ballanti. Entrò nei liberali il sospetto che quest’ultimo fosse stato segretamente favorito e protetto dal gonfaloniere e dagli anziani; onde della sera del 30 tumultuarono, costringendoli a dimettersi, e il dì dopo inviarono otto deputati al prolegato, i quali ottennero l’approvazione della seguente novella magistratura: corte e Girolamo Severoli, gonfaloniere; Giuseppe Emiliani, Paolo Giangrandi, Pietro Laderchi, Marco Mengolini, anziani. Per dissensi e rifiuti d’alcuni, poi, Antonio Bucci e Domenico Marcucci furono nominati in luogo dell’Emiliani e del Giangrandi, e il Laderchi accettò invece del Severoli il difficile ufficio di gonfaloniere. Se non che, le agitazioni non cessarono, altre zuffe si ebbero, altri “ briganti “ furono morti; e intanto la nostra città fraternamente univasi a Bologna, a Ravenna, a Forlì, ad Imola, nell’inviare messaggeri al pontefice, a chieder riforme veramente proficue, ed a supplicarlo perché togliesse gli ecclesiastici dal governo delle province, e sopra tutto non inviasse milizie papali (tristemente famose per le loro infamie) in luogo delle austriache, che ormai aveano sgombrate le legazioni, bastando a tutela dell’ordine le guardie civiche. La risposta fu tale da non lasciar dubbio su le tiranniche intenzioni del governo; e in questo mezzo, tra nuovi timori e dissensi e agitazioni, il prolegato, ad affrettare l’esecuzione del decreto del 5 luglio, componeva gli elenchi de’ nuovi consigli comunali, tra cui quello di Faenza tenne la sua prima seduta il 25 novembre. In tale seduta fu deliberato rinnovare, insieme con le altre città, le domande di riforma “ da umiliarsi al trono pontificio “; e nel decembre, poi, si recarono a Bologna gli ex-deputati dell’Assemblea Nazionale dott. Antonio Bucci e conte Giuseppe Tampieri, per intendersi suo un’azione comune contro le temute milizie pontificie, se queste si avanzassero minacciose.

1832

Il papa ed il suo degno ministro card. Bernetti, non soltanto non ascoltano le preghiere, ma, appena trovati i milioni necessari all’impresa, raccolgono 6000 mercenari ribaldi, agli ordini de’ colonnelli Barbieri e Zamboni, nominano il famigerato card. Albani a commissario straordinario nelle quattro Legazioni, e il 10 gennaio 1832 partecipano a’ rappresentanti delle potenze l’avanzarsi de’ pontifici nelle Legazioni stesse. Trà lo spavento generale le misere città minacciate s’apparecchiano alla difesa: l’11 gennaio passano per Faenza le guardie civiche bolognesi, dirette a Cesena, ed inviano aiuti anche Imola, Castelbolognese, Russi, Forlì. Più adagio va a Faenza, dove la magistratura (Giuseppe Emiliani, gonfaloniere, conti Girolamo Severoli, Francesco Ginnasi, Giuseppe Rondinini, Antonio Gessi, dott. Antonio Bucci, Domenico Marcucci, Paolo Giangrandi, Marco Mengolini, anziani), negando le armi e i danari, e i papaloni, rialzando baldanzosamente il capo, spengono l’ardore e il coraggio de’ liberali. Sono vane le suppliche de’ faentini Rodolfo Zauli e Girolamo Sacchi, inviati dal Comune al card. Albani, perché trattenga le masnade dei predoni; l’Eminentissimo risponde esser necessario ripristinare l’ordine e la pontificia autorità. Dopo due ore di combattimento (20 gennaio) presso la Madonna del Monte, fuor di Cesena, le 2000 guardie civiche agli ordini del faentino Montallegri si sbandano, sopraffatte dal numero de’ pontifici comandati dal Barbieri (lo Zamboni presidiava Ferrara), e seguono gli orribili saccheggi di Cesena e di Forlì. Gli eccessi sono tali e tanti che gli Austriaci, comandati dal gen. Radetzky, debbono nuovamente intervenire, e da Modena marciano a Bologna, e da Bologna un distaccamento di Croati occupa Faenza; e così la città nostra fu salva dai saccomanni per opera e virtù dello straniero! E, del resto, a tanto di ferocia s’era ormai assuefatti in Romagna, che i Croati ed i loro uffiziali parvero benigni e cortesi a’ Faentini, i quali furono perfino da loro invitati alla festa del 12 febbraio, giorno natalizio dell’imperatore. Dal canto loro i francesi sbarcarono il 7 febbraio ad Ancona e la presidiarono, com’è noto.
Da Bologna, frattanto, dove s’era recato, il card. Albani governava le quattro Legazioni, instituendo tribunali straordinari, ordinando prestiti forzati, provocando ribellioni e zuffe co ‘l popolo infuriato; e alla fine di maggio mandata a Faenza una nuova lista di consiglieri comunali da lui imposti, fra le proteste di tutti, mentre dimettevansi il Gonfaloniere e gli Anziani. E tra lotte cittadine, e nuove minacce di briganti del Borgo, e arresti, e cambiamenti provvisori di magistrati, e arrivi di Tedeschi chiamati a ristabilir l’ordine, trascorreva miseramente la vita faentina, quando l’11 giugno passò di Faenza il card. Albani stesso, circondato da milizie, donde proseguì per Forlì e poi per Roma, sostituito nel governo straordinario delle quattro Legazioni da mons. Brignole. Nella nostra città era difficile la installazione del nuovo Consiglio (papalone), imposto dall’Albani e contrastato dai liberali; onde intimazioni della segreteria di stato, lettere anonime, minacce di morte il giorno della seduta, in cui dovevansi nominare il Gonfaloniere e gli Anziani (21 luglio); nè cessarono le vicende, i cambiamenti e le ambizioni battagliere. Ma il 15 agosto i neo-eletti del Magistrato vollero far pompa di sè, prendendo occasione dall’arrivo del nuovo vescovo Giov. Benedetto Folicaldi, succeduto al Tanari: e tutti in gala, il gonfaloniere conte Alessandro Ginnasi, gli anziani Bernardino Ginnasi, Antonio Carroli, Virgilio Cavina, Battista Carroli, Tommaso Montanari, Pietro Guidi, Antonio Caldesi ed Angelo Abbondanzi, il gonfaloniere, gl’impiegati accompagnarono co’ canonici e co ‘l clero il novello presule nella cattedrale.
Altri tristissimi tempi, come se le sofferenze passate non bastassero, si preparavano e s’iniziavano ora nella nostra città, non soltanto per il rinnovato rigore fiscale (ristabilimento del dazio su la carne, nuovi dazi su ‘l pesce, su le arti e mestieri etc.), sì anche, soprattutto, per l’intolleranza e la sopraffazione politica, divenuta una vera e propria guerra civile. Nel riordinamento militare, effettuato dal card. Bernetti perché non vi fosse più bisogno del presidio austriaco e francese, fu compresa anche la instituzione di una milizia di volontari pontifici, scelti fra i più zelanti dell’altare e del trono, i quali, essendo divisi in centurie, presero il nome di centurioni. L’ordinamento di questo corpo fu affidato ad un Bartolazzi nella Marca, al barone Giov. Batt. Della Noce ed al parroco Bambini di Faenza nelle Romagne; e questi centurioni, spinti ed instigati da’ preti, furono i più scellerati persecutori dei liberali. Tutti gli storici sereni ed imparziali sono concordi nell’affermare che le città, i borghi, le campagne ne sopportano danni gravissimi, e il sangue chiese il sangue, e gli oltraggi provocarono le vendette, e per molti anni fu diffuso l’orrore ed il lutto tra le popolazioni. Quasi tutti gli abitanti del borgo d’Urbecco, d inveteratoiviso dalla città per un miserabile e inveterato odio di padre, si erano aurolati nelle centurie; ed armati di pistole, stocchi e coltelli, scorrazzavano come barbari in terra di conquista per le vie, tanto che, concluse il Vesi (Rivol. Di Romagna nel ’31, p. 12) “ quando quella sporca ed orrenda labe cessò, nella sola Faenza tra feriti ed uccisi si contarono più di ottocento fra i migliori cittadini “. Il non andare alla messa, il lasciarsi crescere la barba, il portar fuori da’ colori vivaci bastava per esser creduti liberali, e percossi, feriti o magari assassinati. Talvolta le prepotenze generavano scatti di ribellioni; e il 20 agosto, per esempio, celebrandosi la festa di s. Elena nella chiesa de’ Domenicani, le provocazioni di due “ briganti “accesero una zuffa, nella quale fu ucciso un carabiniere; ma quasi sempre i liberali erano sopraffatti. Narra il Vesi che a que’ giorni tre persone dominavano in Faenza, un tal Brunetti, governatore, Alessandro Ginnasi, gonfaloniere del Comune, un Giuseppe Coppi, liberale rinnegato ed ispettore di polizia; ai quali aggiungevasi una certa Anna Zauli, soprannominata la Mora, rivenditrice di frutta e notevole per pinguedine e per orridezza di forme. Costei, stretta di parentela con gente di malaffare, ed arbitra de’ centurioni, divenne l’idolo di essi, che ne’ giorni di festa, quand’erano avvinazzati, la portavano in trionfo per la piazza, acclamando alla Nina Mora, al papa, all’imperatore d’Austria, a Gesù ed a Maria. Il 19 settembre certo Zoli, professore di retorica, accusato di irreligione, fu, per ordine della Sacra Consulta, destinato e cacciato; un Francesco Marcolini, detto Chiccoia, stampatore d’immagini sacre, fu, perché liberale, gettato da’ centurioni sur un rogo, e poi ucciso; non poche donzelle e signore furono violate e percosse.

1833

Un povero fornaio, la sera del 10 gennaio 1833, fu colpito da archibugiate; il 25 febbraio il conte Marcello Conti fu insultato e schiaffeggiato, e ventiquattro persone furono percosse la sera dopo; e il doloroso elenco potrebbe continuare a lungo. Il 9 e il 10 aprile, poi, furono colpite da precetto politico le seguenti persone: i conti Rodolfo Zavuli, Girolamo Severoli, Pietro Laderchi, Giuseppe Rondinini, Giuseppe Tampieri, Michele Pasi, Bartolomeo Margotti, Francesco Laderchi; i dottori Girolamo Brunetti, Antonio Bucci, Angelo Cavalli, Girolamo Sacchi, Francesco Morini e Martini; Ferdinando Rampi, Bernardo Morri, Giuseppe Morri, Ottaviano e Carlo Sacchi, Stefano Foschini, Domenico e Gallo Marcucci, il cap. Francesco Rondinini, Giuseppe Strocchi, Francesco Zambelli, Pietro Conti, Vincenzo Rossini, Paolo Sarti, Giuseppe Mergari, Pietro Michi, Giovanni Michi, Giuseppe Conti, Domenico Marchetti, Giuseppe Baldi, Andrea Baroncelli, Giovanni Pianori, Francesco Cavalli, Orazio e Scipione Fellini, Sebastiano e Giovanni Casella, Pietro Tonucci, Mariano Salvini, Giulio Ancrani, Luigi Gallanti e Luigi Ciceroni.
In tanta tristezza di cose e i cittadini disertarono il teatro, quando per le feste solenni di s. Pietro esso fu aperto con spettacolo d’opera, il 22 giugno; ed allora centurioni e papisti raccolsero danaro tra loro per offrire regali e fiori alla prima donna, tra la gazzarra di un popolaccio vestito a festa con abiti rubati.

1834

Frattanto Pietro Laderchi, colpevole d’aver portato in mano un bastoncino, era arrestato e poi mandato in relegazione il 5 ottobre a Casola Valsenio, ove rimase fino al 5 gennaio1834. Lo liberò finalmente il novello commissario delle Legazioni, card. Spinola, ma egli, vinto dalle persecuzioni sofferte, morì prematuramente il 23 marzo.
Troppo lungo sarebbe l’enumere qui le nuove efferatezze, delle quali furono vittime un Pasquale Petroncini il 18 febbraio, il dott. Giacomo Sacchi e Ferdinando Laghi la sera del 14 giugno, un Achille Luccarini ed un Giovanni Zanfini, sarto….; basti dire che Achille Gennarelli ne’ suoi Documenti su ‘l governo pontificio, raccolti nel 1859, fa salire a più centinaia Faentini che ha que’ giorni furono aggrediti e malconci.
Mentre la Romagna giaceva sotto una così turpe tirannia, la nuova propaganda mazziniana e la conseguente constituzione della società segreta “ la Giovine Italia “stavano, invece, preparando, negli anni che corsero dal ’32 al ‘40, una più audace ripresa del movimento rivoluzionario. E Giuseppe Mazzini, interprete della rinnovata fede, nonostante lo sconforto conseguito agli insuccessi delle cospirazioni carbonare, concepisce audacemente un sistema di resurrezione italica che risolva insieme i tre problemi della libertà politica interna, dell’ indipendenza dallo straniero e dell’unità della patria: non più per mezzo di pochi congiurati, non più fidando nell’opera de’ sovrani, ma soltanto per mezzo del popolo, educato con la propaganda delle idee fatta pure nelle classi inferiori, la salute d’Italia sarà raggiunta; e poiché la forza del popolo sarebbe deteriorata da un vincolo indissolubile fra tutti gl’Italiani, base fondamentale del pensiero politico mazziniano è l’unità. Nessun’altra via può condurre alla mèta: o schiavitù eterna unita fatale, la quale non può avere la sua sanzione ed il suo suggello se non in un governo repubblicano.
È facile pensare come cotale teoria accendesse gli animi e sollevasse i cuori in terra di Romagna. Quivi dal ‘33 in poi “ la Giovane Italia “, che doveva chiudere il periodo delle sètte vaganti nell’incerto e aventi carattere di conspirazione oligarchica, aveva fatto rapidi progressi; ma le si contrapponeva la sètta sanfedistica, che avea il suo centro in Faenza, e che vigilava ferocemente, guidata sopra tutto da Stanislao Freddi, colonnello de’ carabinieri a Bologna, da Virgilio Alpi, un faentino che fu dapprima capo de’ sanfedisti e più tardi, rinnegando la patria, poliziotto austriaco, e da un tal Conti, reggente della polizia nella nostra città “ già punito di maltolto e convinto stupratore “ (TIVARONI, V, 237).

1838

Per questo nel 1838 abortì in Faenza un piccolo moto, precursore di agitazioni maggiori (TIVARONI, ibid.); e intanto, mentre gli Austrici finivano di sgombrare le Legazioni, rimanendo soltanto al servizio del papa i ben disciplinati Svizzeri, cessava il commissariato generale delle Legazioni stesse in Bologna, ricostituendosi i quattro governi distinti di Bologna, dove restò come legato il Macchi, e di Ferrara, Forlì, Ravenna (da cui dipendeva Faenza) con i rispettivi legati Ugolini, Grimaldi ed Amat.

1842

Quest’ultimo riconobbe nella nostra città le alte virtù di mente e d’animo del conte Antonio Gessi, che già vedemmo carbonaro, e che entro ora ne’ consigli comunale e provinciale; chè anzi, nel 1842 il Gessi fu nominato gonfaloniere di Faenza, ed esplicò un’azione veramente energica ed efficace nel difendere la città dalla terribile piena del 14 settembre (dalla quale fu travolto e rovinato l’antico ponte su ‘l Lamone, cfr. p. 53) e nel cooperare alla pace pubblica durante i tumultuosi anni che seguirono, mentre era attivissimo il movimento de’ partiti politici.
Sotto l’apparenza di un sonnolento piegarsi al turpe gioco, aveva adunque, in Romagna, ricominciato ad estendersi tutto un lavorio paziente e tenace di riorganizzazione delle forze liberali. Nella nostra città era giunto fino dal giugno del 1840 il cesenate Federico Comandini, allora venticinquenne, a lavorare da orefice presso il gioielliere Righi, e che dovea esser tanta parte del risorgimento romagnolo.

1843

Dopo circa un anno il Comandini fu messo a parte del lavoro politico per i moti del 1843, ed entrò sempre più in relazione con i conspiratori faentini, tra cui i principali erano il conte Francesco Laderchi, Ludovico Samorini, detto è zighett de Ramp, Pio Figna, Stefano Foschini, Girolamo Strocchi (figlio di Dionigi), il conte Raffaele Pasi (n. nel ’19), Ludovico Caldesi (n. nel ’21) ed i suoi due cugini Vincenzo (n. nel ’17) e Leonida (n. nel 23), Luigi Gallanti, Augusto Bertoni (n. nel ’18), Antonio Liverani, fratello di Matteo detto il gobbo e di altri cinque liberali arditi, etc. etc. Tutti costoro si mantenevano naturalmente in segreti rapporti con gli altri conspiratori di Romagna, quali i fratelli Muratori di Savigno, il Tanari, il Pietramellari, il Turri di Bologna, Luigi Carlo Farini di russi, allora ardentissimo mazziniano, il conte Oreste Biancoli, e Pietro Beltrami di Bagnacavallo, Giovanni Marzari di Castelbolognese, Enrico Serpieri, Giacomo Grandi, Andrea Borgatti di Rimini, il faentino conte Pietro Pasolini-zanelli e Pietro Poggi a Cesena, etc. etc. Così, quando il governo meno se lo aspettava, scoppiò il 15 agosto il moto bolognese di Savigno, Guidato da Pasquale e Saverio Muratori, dal Marzari e dal Turri (finito con la peggio degli insorti); il 23-24 avvenne lo scontro infelice presso Castel del Rio, cui parteciparono il Turri, il Pietramellara, il Biancoli; e l’audace col. nizzardo Ribotty (eccitatore instancabile di morti mazziniani), tornando da Napoli (ove dovea organizzare la rivoluzione) a Bologna, raccoglieva al ponte di Savena un nucleo di 180 armati, tra cui Vincenzo Caldesi (che avea partecipato al moto di Savigno), con l’audacissimo proposito di sorprendere in una villa presso Imola il card. Mastai, vescovo di quella città e poi papa Pio IX, e i cardinali legati di Ravenna e Ferrara, Amat e Falconieri, tenerli in ostaggio, e poi sollevare le Romagne, la Marca e l’Umbria, e marciar diritti su Roma. Dovea cooperare a quest’ultima impresa il prete liberale di Modigliana don Giovanni Verità, ardito conspiratore e protettore degli esuli e de’ perseguitati che a lui ricorrevano per salvarsi in Toscana; ma il colpo non riuscì, perché Imola, che dovea sollevarsi, non si mosse.
Il governo papale, che sentiva il fuoco ardente sotto la cenere, pensò a’ casi suoi; e il card. legato Amat ordinava l’esilio ai conti Francesco Locatelli e Tullio Rasponi di Ravenna, a Luigi Carlo Farini, a Stefano Foschini, Girolamo Strocchi, Vincenzo e Leonida Caldesi di Faenza, e ad altri di altri luoghi. Ma non si accasciano gli spiriti.

1844

Nel giugno del 1844 giungeva a Faenza la notizia dell’avvenuto sbarco de’ fratelli Bandiera in Calabria; e quando più tardi si seppe del loro martirio, più alacremente proseguirono i liberali ne’ loro preparativi per una rivoluzione.

1845

Intorno al maggio del 1845 un comitato di azione s’era constituito in Firenze, in casa di certo Achille Fiorentini, faentino, affittacamere e cameriere colà; e nella camera di Federico Argnani da Faenza, allora giovane studente all’Accademia di Belle Arti, e che fu poi dotto e geniale illustratore delle ceramiche faentine e direttore della pinacoteca comunale, si davano convegno i patriotti romagnoli, tra cui Oreste Biancoli, l’avv. Luigi Succi, detto il Gobbo di Lugo, l’Andreini, il Colombarini, Vincenzo e Leonida Caldesi, etc. All’Argnani era diretta la corrispondenza epistolare per il comitato di Firenze, e fu egli, anzi, spedito una volta a Faenza, a portar l’ordine al conte Francesco Laderchi di partecipare co’ suoi ad un moto che doveva avere per centro Rimini, e del quale era preparatore focoso Luigi Carlo Farini. Il Laderchi, non ritenendo opportuno il momento, sconsiglio la cosa, e nello stesso modo rifiutaronsi altri capi liberali. Parimente non aderirono alcune città alla convenzione fissata nell’estate del ‘45 in un altro segreto convegno a Sinigallia; e questa mancanza di Concordia e di organica preparazione contribuì all’insuccesso. Ma il Farini, intestardito oramai di mandare avanti l’impresa, volle senz’altro il 23 settembre la rivolta di Rimini, guidata da Pietro Renzi e da altri giovani; ed i ribelli, disarmata la polizia, liberati i detenuti politici, creato un governo provvisorio, percorsero la città gridando, mentre il Farini pubblicava il celebre “ manifesto di Rimini “, co ‘l quale si dimostrava all’Europa l’abiezione del governo pontificio, e si chiedevano pace, giustizia, riforme. Senonché, il popolo non risposero all’appello, ed all’approssimarsi delle milizie papali il Renzi si rifugiò co’ suoi a s. Marino. Così finiva il moto di Rimini, di cui non rimase strascico se non nei processi provocati poi dalle delazioni dello stesso Renzi. Le altre città di Romagna non si mossero, tranne Faenza e Bagnacavallo; in quest’ultima Pietro Beltrami (avvertito de’ fatti di Rimini da Federico Comandini) promosse una sollevazione, promettendo di ribellare anche Imola e Bologna; e quanto a Faenza, ebbe essa gran parte nel moto delle Balze (su la via di Modigliana), del quale faremo il racconto il più brevemente possibile, fondandoci specialmente sulle inedite memorie autobiografiche di don Giovanni Verità, riferite in parte dal Brussi (Conferenza 3.°, pp. 22-30).
Già prima che scoppiasse la rivolta di Rimini, la polizia aveva fatti molti arresti, specialmente a Faenza; e fin dal 13 settembre il conte Raffaele Pasi s’era, come dicevasi allora, “ buttato contumace “, non per paura, chè egli era arditissimo, ma per recarsi a Modigliana, a concentrare con don Giovanni Verità una possibile sollevazione faentina. Don Giovanni acutamente consigliò di cominciare con un fatto che attirasse le milizie papali e la polizia fuori della città, per dar modo a quest’ultima di ribellarsi; e propose di sospendere e disarmare alla Balze il picchetto delle guardie di finanza, su ‘l confine tra Romagna e la Toscana. Nella notte 25-26 settembre, infatti, si trovarono nel luogo convenuto, presso la dogana, il Pasi con tredici o quattordici uomini, e don Giovanni Verità con il conte Oreste Biancoli the Bagnacavallo, e con Pietro Viarani, Giuseppe Liverani, Pietro Tramonti e Antonio Ciani di Modigliana. “ Con questi volete fare la rivoluzione? “, chiese don Giovanni; e il Pasi: “ Per quello che avete detto, siamo anche troppi; dopo verranno gli altri “. Così il drappello si mosse lungo il fiume di confine, con don Giovanni, travestito da contadino, alla testa; e giunse fin sotto la caserma, nella quale erano dodici o tredici doganieri, la più parte addormentati. La sentinella, invece che fuori dalla porta, era dentro, seduta, co ‘l fucile tra le gambe, e parlava con tre o quattro compagni. Gl’insorti piombarono nella stanza, impugnando i fucili, e don Giovanni gridò: “ Giù le armi; il papa non comanda più! “. E la sentinella, consegnando subito il fucile, rispose: “ Accidenti a quando torna! “. Per tal modo, senza spargimento di sangue, il picchetto fu disarmato; don Giovanni torno co’ suoi a Modigliana a cercar viveri e gente, e il Pasi co ‘l Biancoli, co ‘l dott. Rinaldo Andreini, imolese domiciliato a Bologna, e con gli altri compagni si diresse a Faenza, nella speranza che essa si muovesse, sostando alle “ bocche dei Canali “, presso la così detta la Rotonda. Colà si recò pure da Faenza Federico Comandini, portando seco un biglietto del Beltrami, co ‘l quale dava notizia del moto bagnacavallese e avvisava che nella notte si sarebbe trovato con la sua banda tra Imola e Castelbolognese. Fu deciso mandar subito qualcuno a Castello, ad ad annunziare la cosa a Francesco Marzari; e furono scelti a tal uopo un Francesco Mambrini, detto il matto da Lugo, ed il diciassettenne Alfonso Castellani, raccomandato loro d’esser prudenti, e di scegliere le vie traverse e non la maestra, che si sapeva battuta da Svizzeri, gendarmi e volontari pontifici, tutti comandati dal tenente di finanza Mordini, turpitissimo rinnegato. I due messi, noleggiato un birroccino a Faenza, tennero, invece, spensieratamente la via maestra, e giunti nella strada di circonvallazione attorno a Castello, ebbero l’ordine di fermarsi da una pattuglia di centurioni, comandata da certo Fabbri del borgo di Faenza, e colà appostata. I due sferzarono, invece, il cavallo, ma li raggiunse una scarica di moschetti, che li stese morti entrambi. Fu dagli sgherri pontifici trovato loro indosso il biglietto che dovevano recare a Castello, e così fu interrotta co’ ribelli di quel paese ogni comunicazione. Accortisi i campi (e ciò è il Pasi, che con la sua banda s’era recato al monte delle Corna, il Beltrami, che era nelle vicinanze di Riolo, il faentino Luigi Gallanti, che con altri insorti batteva parimente la campagna su le colline) che ormai le città non rispondevano alla generosa iniziativa, deliberarono dirigersi su ‘l confine toscano, verso Modigliana; e don Giovanni Verità mando loro Pietro Viarani, Giuseppe Campadelli e Girolamo Cicognani, detto “ Cicciolino “, con provviste di viveri. La sera del 28 giunsero tutt’insieme alle Balze, dove, in attesa di rinforzi da Firenze, da Faenza e da Castelbolognese, si fermarono a pernottare nel fabbricato della dogana, ma senz’ordine e senza precauzioni. Frattanto un parroco dei dintorni, accortosi del loro arrivo, ne fece avvertita la gendarmeria di Faenza; onde nella notte stessa buon numero di Svizzeri, di gendarmi e di volontari pontifici, guidati dal tenente svizzero Allet e dal gabelliere Mordini, si mosse verso le Balze, giungendovi all’alba del 29. Il Mordini, praticissimo de’ luoghi, profittando d’una grossa querce e di un alto fossato, dispose i suoi sgherri in modo che potessero offendere, senza quasi essere offesi; ma la sentinella Campadelli s’accorse di loro e diè il chi va là. Una salva di fucilate, dalle quali il Campadelli uscì miracolosamente illeso, fu la risposta. Gl’insorti, improvvisamente svegliati, saltarono fuori, e incominciò così lineguale combattimento. Per circa venti minuti gli assalitori furono tenuti in rispetto, soprattutto da una ventina di cacciatori di Faenza e di Bagnacavallo, finché essendo non pochi i feriti, e vedendosi i capi un ognor più accerchiati e stretti dal soverchiante numero degli assalitori, fu decisa la ritirata, protetta alla meglio dai tiratori più valenti. Ma due morti ebbero gl’insorti, e ciò è Ottavio Casadio di Faenza e un tal Camorani detto “ Painon “, muratore di Bagnacavallo; il quale ultimo, gravemente ferito ad un fianco, ebbe la forza di trascinarsi in casa, e quivi ricaricò il fucile, mentre gli altri si ritiravano, aspettò tranquillamente i papalini, e stese morto il primo che si presentò. Fu finito a colpi di baionetta dagli sgherri pontifici, che sfogarono in tal modo su di lui la loro rabbia. Due servi del conte Beltrami, rimasti indietro a prendere i cavalli del padrone, furono fatti prigionieri e incatenati. Dei pontifici fu morto uno svizzero, ed altri quattro furono feriti, de’ quali due morirono poco di poi.
Varcato il fiume di confine, le due bande Pasi e Beltrami (gli uomini del Gallanti s’erano uniti al Pasi) presero la via de’ monti, su la destra del Marzeno; ma erano giunti appena al luogo detto “ le Gessine “, quando udirono un rullar di tamburo e videro una colonna di armati calare dal monte della Bicocca. Era un rinforzo di centurioni, guidati dal cap. Pietro Zauoli, che veniva in aiuto dei vincitori; ed allora i vinti proseguirono solleciti verso il monte di Ceparano, dove sostarono e fecero l’appello. Mancavano 17 uomini; dei quali 13 furono rintracciati da Pietro Viarani, mandato a ricercarli. S’erano costoro smarriti per via: degli altri quattro ci è noto il destino. All’alba del giorno 30 le due colonne partirono per la Rocca s. Casciano, e si salvarono così su ‘l territorio toscano. Giunte, infatti, a s. Sofia, vennero a patti con le milizie toscane, quivi residenti e comandate dal col. Farduel, depositando le armi e tenendo promessa di un salvacondotto per l’estero. Dopodiché, furono lasciati liberi di recarsi a Firenze alla spicciolata; ma i tre modiglianesi, come sudditi del governo toscano, furono puniti, il Campanelli con un mese di prigione, il Viarani e il Cicognani con cinque mesi, scontati parte a Modigliana e parte a Volterra. Anche don Giovanni Verità fu arrestato e detenuto in Firenze dal 18 novembre del ’45 al 17 maggio del ‘46. Così finiva il moto delle Balze, al quale parteciparono i seguenti faentini co ‘l conte Raffaele Pasi: Angneletti (o Angeletti od Agnoletti) Santo (o Raffaele), Babini Antonio, Babini Sante, Baldi Antonio, Bandini Giuseppe, Bonazzoli Matteo, Benini Giuseppe, Bubani Lazzaro, Cappelli Ercole, Caroli Paolo, Casadio Ottavio (morto nell’azione), Castiglioni (o Cattaglioni o Cotteglioni) Francesco, Cornacchia Antonio, Donati Achille, Donati Girolamo, Fenati Vincenzo (o Farneti), Gallanti Luigi, Garavita Giovanni, Gheba Vincenzo (tuttora vivente), Macesi Giuseppe, Mamini Antonio, Mazzanti Domenico, Mazzanti Francesco, Mazzanti Vincenzo, Mazzotti Luigi, Mazzotti Natale, Merendi Giuseppe, Modi Giovanni, Montanari Angelo, Montanari Domenico, Novelli Angelo, Padovani Girolamo, Pezzi Francesco (o Pozzi), detto lo zoppo d’Agostino senz’anima, Pozzi Andrea, Pozzi Domenico, Sangiorgi Pasquale, Silvestrini Raffaele, Succi dott. Luigi, Valli Vincenzo, Versari Nicola (o Michele), Zannoni Girolamo.
È facile pensare quali repressioni e sorveglianze se tenessero dietro a questi fatti insurrezionali, instigate anche dalla così detta sètta Ferdinandea (dal nome di Ferdinando I, imperatore d’Austria dal ’35 al ’48), società austriacante portata in Romagna dal barone Baratelli, ferrarese, commissario pontificio, la quale tendeva a fare considerare il governo austriaco migliore del governo papale.

1846

Nel gennaio 1846 il governatore di Faenza cav. Luigi Tosi impose al Comandini lo sfratto dalla provincia, d’ordine del card. Massimo, legato di Ravenna; e il Comandini andò peregrinando e lavorando da orefice tra Cesena e s. Arcangelo; quando d’un tratto giunse notizia della morte di papa Gregorio XVI (1 giugno), cui successe il 16 giugno, con meraviglia di tutti, il vescovo d’Imola, card. Giovanni Mastai-Ferretti, che assunse il nome di Pio IX.

 

 

Vai al capitolo precedente Vai alla pagina indice della Storia di Faenza Vai al capitolo successivo

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d