Ennio Dirani
Cicloturismo romagnolo: 1894-1994
Per i cento anni della bicicletta di Oriani
Alla dolente ombra di “Ottone di Banzole” che dalla bicicletta ebbe ore di libertà
1. Sulle strade di Romagna (con Indurain e Sancho Panza)2. Dalla bicicletta borghese alla bicicletta proletaria3. E' viazz di Stecchetti4. La bicicletta di Oriani5. Sul pedale tra Romagna e Toscana 1897-1989
1. Sulle strade di Romagna (con Indurain e Sancho Panza)
«Voglio bene alla Romagna anche perché non ha rinnegato la bicicletta», ha scritto una volta un raffinato giornalista e scrittore riminese, ma nato a Ravenna, in anni in cui sembrava che l’ala della morte planasse con giri sempre più avvolgenti sulla elegante macchina senza motore che ha sedotto il cuore e l’immaginazione dei romagnoli negli ultimi cento anni.
La leggenda della bicicletta, iniziata nell’ultimo decennio del secolo scorso (1894: nasce il Touring Club Ciclistico Italiano e Oriani impara ad andare in bicicletta) e culminata, come fenomeno di massa, nei primi sessant’anni del Novecento, pareva conclusa. Per certi versi, conclusa in effetti era. Erano ormai lontani i tempi in cui le due umili ruote avevano costituito un prodigioso strumento di locomozione, di lavoro, di divertimento per milioni di europei, particolarmente per le classi più povere. Émile Zola, che assieme al nostro Oriani si può considerare il cantore e profeta della bicicletta ai suoi albori, aveva addirittura scritto nel romanzo Paris (1897: negli stessi mesi in cui Oriani faceva il suo solitario viaggio in bicicletta attraverso la Romagna e la Toscana e scriveva al «Cardello» le pagine più belle del libro La bicicletta): «Un giorno l’emancipazione della donna passerà attraverso la bicicletta». Era un visionario, come E’ matt d’è Cardèl, ma a modo suo aveva visto giusto. La profezia, da non prendere alla lettera come tutte le intuizioni profetiche, non si è avverata del tutto ed ovunque, ma in Romagna ha trovato, tra braccianti ed operaie, forse la sua più bella affermazione.
A ripensarci, può apparire paradossale che l’orizzonte storico in cui si inscrive la nascita, l’affermarsi, il trionfo poi il declino della più modesta, essenziale, geometrica, pulita, innocua macchina inventata dall’uomo nell’ultimo secolo, coincida col cinquantennio che ha visto due guerre mondiali di sterminio e regimi politici resisi responsabili di carneficine di massa. Paradossale certo non è, a guardar meglio, e senza dubbio tutto si tiene all’interno della grandiosa rivoluzione tecnologica del nostro tempo. Ma a noi, fedeli cavalieri della bicicletta, resta almeno il conforto di poter dire che di tutte le strepitose invenzioni degli ultimi cento anni essa è la sola del tutto innocente, quindi la più umana: tutte le altre si sono rivelate armi a doppio taglio, convertitesi senza soluzione di continuità in strumento di morte e di distruzione dell’uomo e del suo ambiente.
Il lettore di questa pagina non me ne vorrà, se veramente ama la bicicletta ed il ciclismo, per questa breve e punto allegra divagazione «storica» sul destino delle due ruote. Me l’ha suggerita, senza sua colpa s’intende, Sergio Zavoli, nella pagina richiamata in apertura, un elogio della bicicletta scritto quando sembrava proprio che su di essa si potessero scrivere solo epicedi e fare discorsi retrospettivi. E lui li ha fatti da par suo, con quella vena di malinconia e di elegante retorica che caratterizza l’uomo. Pensate: l’americano Armstrong (non quello che il 29 agosto ’93 ha umiliato gli «azzurri» e gli altri sul circuito di Oslo, grazie al freddo ed alla pioggia, s’è detto qui, come se lui venisse dal Polo Nord e fosse un ciclista subacqueo) aveva messo piede sulla luna ed aveva inaugurato l’era dei viaggi interplanetari con vettori non propriamente sospinti da gambe umane. Ebbene, in quell’orgia di entusiasmi una penna romagnola, tenuta dalla mano d’un uomo sensibile a tutte le novità ed abituato a vivere, come i suoi conterranei, ad occhi ben aperti, si volge indietro e fa l’apologia della piccola macchina che aveva reso possibile la realizzazione del sogno antico (come l’aveva chiamato Oriani), secondo solo a quello del volo, di correre sulle ruote, alla velocità della rondine, senza l’aiuto di un animale o di un motore.
Che cosa sia stata, e sia tornata ad essere, per fortuna, la bicicletta in questi cento anni, sotto il profilo economico, sportivo, del costume, è cosa troppo nota perché la si debba richiamare. Varrà invece la pena di ricordare, nel centenario della prima bicicletta del grande cicloturista romagnolo, che se altrove la sua diffusione ha costituito una rivoluzione silenziosa nei mezzi di locomozione, in Romagna come in poche altre aree è stata qualcosa di più. Con qualche esagerazione (ma alle parole del ciclismo, come a quelle dell’amore, les sienta bien su poquito de exageratión, secondo che raccomanda Antonio Machado), si potrebbe dire che l’incontro del romagnolo con la bicicletta è stato fatale e definitivo. Come i centauri della mitologia sussistevano solo nella compresenza delle nature umana ed equina, il romagnolo (e la romagnola) non sono più concepibili senza la bicicletta. Si è trattato in qualche modo non solo di una rivoluzione nel costume, ma di una vera e propria mutazione antropica, la maggiore da quando 1’homo romandiolus ha assunto la posizione eretta.
Alcuni decenni fa, il forestiero che capitava nelle nostre città e nei nostri paesi restava colpito dal numero inverosimile di ciclisti che vedeva in giro. È sorprendente, perché è un’eccezione, che un osservatore attento come Guido Piovene non registri il fenomeno, tra cose meno rilevanti che pure non gli sono sfuggite, nel suo Viaggio in Italia fatto e scritto alla metà degli anni ’50. In questo caso è stato un cattivo osservatore ed un mediocre testimone. Ancora adesso, in mezzo al devastante e paralizzante traffico automobilistico, la presenza della bicicletta è un tratto connotante delle città romagnole, destinato a subire incrementi, se il buon senso prevarrà alfine sulla follia e sulla pigrizia. Probabilmente è un primato nostro, di cui abbiamo buone ragioni per andar fieri.
È invece sicuramente un primato romagnolo il connubio letteratura-ciclismo (chiedo scusa a Giovanna Bosi Maramotti, grande esperta anche di questo tema), che rende meno peregrino il fatto che l’elogio della bicicletta di cui sopra, né primo né ultimo, per la verità, sia uscito dalla penna di uno di noi. Anche qui, non c’è nulla da scoprire, perché è ben noto che sono stati Oriani, Stecchetti, Panzini, Serra a scrivere le prime e forse le più belle pagine sulla bicicletta. Non per nulla, in un’antologia di scrittori della bicicletta pubblicata nel 1985, dei primi otto scrittori e poeti, disposti in ordine cronologico, ben sette sono romagnoli.
Se ricordo che Domenico Berardi scriveva, quasi vent’anni fa, quando era poco più che un ragazzo, che «una nutrita “squadra” regionale di scrittori ciclisti potrebbe iscriverla al Giro, o al Tour, soltanto la Romagna» un non-romagnolo potrebbe obiettare che l’affermazione è poco significativa, perché Berardi è di Russi e il suo bell’articolo è uscito sulla rivista del romagnolismo più sospetto, «La Piê» (potrebbe anche aggiungere, infierendo, lui, non io, che Berardi è un ottimo storico ed un invidiabile letterato, ma di ciclismo poco sa e nulla capisce). Se però aggiungo che un fine letterato pavese, prete per giunta e quindi poco propenso a simpatizzare per i romagnoli, autore nel 1948 di una francescana pagina sulla bicicletta, la sua «rondine d’argento», ha dovuto ammettere che «pare dunque che la gente di Romagna sia stata la celebratrice della bicicletta», allora questo nostro primato assume i connotati di una verità accettata non solo tra ‘l Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno. Diventa cioè un primato omologato. Di più non dico su questo punto, perché il tema letteratura della bicicletta compete, in questa domestica (di «Casa Oriani») divisione dei ruoli, a Giovanna Bosi Maramotti, che a me ha lasciato ciò che solum è mio, e che io nacqui per lui: il ciclismo propriamente detto, sotto il profilo strettamente sportivo e sotto quello turistico-sportivo. Sia pure obtorto collo, essa ha dovuto riconoscermi una maggiore esperienza in materia. Ed io le sono riconoscente, perché so quanto le è costato.
Tornando alla Romagna della bicicletta, mi guardo bene dal voler correre il rischio di riaprire qui la fastidiosa querelle sulla «romagnolità»; né vorrei passare per uno che presume di poter aggiungere un piccolo tratto allo stereotipo del romagnolo su cui hanno scritto pagine non dimenticabili Andrea Emiliani e Piero Camporesi. Metto anzi le mani avanti e mi dichiaro scettico nei confronti di chi ha preteso di dirci chi è il romagnolo e che cosa è laRomagna, perché mi pare evidente che vi sono molte Romagne e più d’un modo di essere romagnoli. Più d’un modo anche con la bicicletta e in bicicletta, per tornare al nostro tema, per quanto io non abbia difficoltà a dire che, in generale, i romagnoli degni di tal nome hanno, più o meno tutti, con la bicicletta un rapporto sfacciatamente erotico. Parlo dei maschi, naturalmente, quindi restiamo sul terreno del più tradizionale etero-erotismo, visto che la bicicletta è, se non proprio femmina, femminile (o vogliamo insinuare che è un transessuale, perché all’origine si chiamava bicicletto?).
Vi sono, scriveva mezzo secolo fa Manara Valgimigli (che era un tosco-romagnolo), due Romagne: quella «della intimità recondita, della confidenza discreta, della bontà assoluta, dell’amicizia sicura, […] dell’antiretorica, dell’antioratoria», della malinconia, interpretata da Pascoli, da Serra, da Panzini, da Marino Moretti; e l’altra, meglio nota, della spavalderia, della rumorosità un po’ becera, dell’oratoria mussoliniana, del senso dell’onore» inteso come in certe aree del Mezzogiorno. Meglio nota, ma meno vera. Anzi, per nulla vera, se il grande umanista arriva a dire che quella non è la Romagna, come non è vero romagnolo lo «spavaldo che passa di galoppo sul calessino per le vie del paese, e non bastandogli, al richiamo delle ragazze, il rumore dell’acciottolato, vi aggiunge quello del manico della frusta tenuto fermo sui raggi delle ruote correnti».
L’ho ricercata, questa celebre pagina, ed ho voluto citare quest’ultimo, gustosissimo passo dello «spavaldo dal calessino», per una perfida malizia, che ammetto senza vergognarmene. L’ho voluto riportare perché mi fa gioco, in un ragionamento che non vuole essere preso alla lettera e che lascio al libero giudizio del lettore, sperando che nessuno di coloro che non lo condividano abbia ad offendersi. Il ragionamento, chiamiamolo così, è questo. Se mai fosse vero che esistono due Romagne, e non più di due, come invece credo, non si potrebbe allora dire, parafrasando ed aggiornando Valgimigli, che c’è quella della bicicletta e c’è quella d’è mutòr? Che c’è il romagnolo che va in bicicletta e c’è quello che va in motocicletta? Aggiungendo, s’intende, che tertium non datur, per un romagnolo schietto.
Se accettate per un attimo la metafora ed il cliché, vi prego di essere indulgenti con la malizia che la sottende, perché non sfuggirà ad alcuno che chi scrive assimila il romagnolo sul mutòr allo spavaldo fracassone dal calessino, e riconduce il romagnolo ciclista alla Romagna della discrezione, dell’intimità, della gentilezza. Con qualche per nulla disinteressata forzatura, s’intende. E con l’omaggio di una piccola informazione storica agli amici motociclisti, sperando che essa, per quello che vale, li induca a perdonarmi l’impertinenza di cui sopra. L’informazione è questa: nel 1893, giusto un secolo fa, l’ingegnere veronese Enrico Bernardi montò, a Padova, un motore a benzina su di una bicicletta. Inventò insomma la motocicletta, come forse tutti sapevate. Per noi ciclisti, che non siamo dei parassiti e che non accetteremmo mai l’onta di essere sospinti passivamente da uno starnazzante congegno, abituati come siamo ad udire, per le solitarie stradine di collina, solo il fruscio delle nostre gomme; per noi, dicevo, l’invenzione del Bernardi costituì l’adulterazione e la disumanizzazione della bicicletta ancora in fasce. Diciamo pure che fu una castrazione, con l’eliminazione dei pedali, la riduzione della bicicletta ad una macchina eunuca. Per voi motociclisti invece, con cui la natura fu avara quando distribuì a ciascuno i muscoli ed altro, egli fu un benefattore, e sarebbe giusto che ne celebraste il centenario. Magari con un raduno di moto d’epoca, che appesti la città e rompa i timpani ai suoi abitatori. Cosa, del resto, che accade ogni giorno (ed ogni notte), anche senza centenari.
Chiusa questa parentesi, di cui i cascuti amici centauri compatiranno la scherzosa impertinenza perché sanno bene che v’è dentro veleno leggero, che irrita al massimo l’epidermide, voglio ricordare, tornando al tema della bicicletta in Romagna, che manca a tutt’oggi un libro che ricostruisca la storia del ciclismo nella nostra regione. Un libro, voglio dire, non solo ben documentato, ma letterariamente vivace, degno della nostra cospicua tradizione in materia, scritto da una penna elegante e da una mano che conosca la metodologia della ricerca storica, nelle versioni più affinate. Mi appello a Dino Pieri, che nel 1981 ci ha dato il bellissimo Uomini in bicicletta (Faenza, Publialfa), limitato però all’area cesenate, ed a Stefano Pivato, autore di La bicicletta e il sol dell’avvenire (Firenze, Ponte alle Grazie, 1992), una splendida storia sociale del ciclismo in Italia nella Belle Époque, perché da loro ci può venire il libro che ci manca, un affresco che comprenda sì i campioni, dal bertinorese Ettore Pasini, primo autentico fuoriclasse di cent’anni fa, a Davide Cassani ed a Roberto Conti, ma che recuperi anche i minori, i dilettanti, gli allievi, spesso dimenticati: quelli che ebbero solo un’ora di gloria, o che neppur quella ebbero, ma che sulle bianche strade di Romagna o sull’asfalto spesero i giorni roventi della loro giovinezza, ed infiammarono la nostra.
Scritto da studiosi di questa levatura, romagnoli e sportivi per giunta, ne verrebbe fuori un libro di autentica storia, se questo termine, oggi forse sottoposto ad eccessive dilatazioni semantiche, non lo si voglia riservare, magari con l’iniziale maiuscola, ai noiosi manufatti dei roditori che passano la vita negli archivi e nelle biblioteche, senza mai inforcare la bici e correre nel vento e nel sole. Sarebbe un libro di storia perché ricostruire il quadro dell’attività ciclistica nella cornice di massa in cui si è svolta, narrare le corse più importanti che per decenni appassionarono la nostra gente, significa fare opera di storico della società, non solo dello sport. Intorno ad un soggetto, poi, certo minore rispetto ad altri temi della storiografia (che oggi in verità ha ben scompaginato le gerarchie della ricerca storica tradizionale), ma non minimo, particolarmente per la Romagna.
Non può definirsi un soggetto minimo per noi, amici conterranei, se è vero che per tre o quattro generazioni, a partire dalla fine del primo decennio del secolo, non v’è stato forse adolescente e giovane che con la bicicletta non abbia sognato, sulla bicicletta non si sia cimentato coi propri coetanei, a soffrire ed a gridare ai margini di una strada su cui si svolgeva una corsa ciclistica non abbia trascorso molte delle sue domeniche, e forse le più memorabili. E chi è stato adolescente con la passione del ciclismo, con essa è poi invecchiato, perché le altre malattie dell’età evolutiva passano e non si ripetono, ma quella del ciclismo ci resta nel sangue e con essa conviviamo finché le gambe ci sorreggono.
Dire questo non significa fare del giovanilismo di maniera. Significa ricordare che il ciclismo e la bicicletta, anche se praticati nella maturità (e oltre) con un pizzico di salutare ironia e senza patetici fanatismi, sono una passione tenace, non una moda, né l’entusiasmo di una stagione della vita. E sono percepiti, nel linguaggio del sano buon senso romagnolo, come una innocua, forse benefica «malattia». L’a la malatèia, si diceva al mio paese tanti anni fa di un ragazzo che corresse in bicicletta, oppure l’è malê e basta. E la gente capiva e non chiedeva di quale malattia si trattasse, né se era stato ricoverato in ospedale.
Il ciclismo, dunque, non l’andare genericamente in bicicletta, né il cicloturismo anche di rispettabile livello, dovrebbe essere il soggetto del libro da scrivere. Un libro che escluda quindi noi che da ragazzi correvamo per diletto nostro, e che magari ancora adesso, numerosi e spavaldi come non mai, ci ritroviamo sulle strade delle nostre colline, da Bertinoro e da Faenza in su, a fare del salutare (sarà poi proprio salutare?) cicloturismo, a fianco spesso di amici che in gioventù sono stati valorosi corridori. Od a tentare, più spesso, di staccarci a vicenda, perché non si va su di una bicicletta da corsa, a qualsiasi età, in Romagna e altrove, se non resta da qualche parte, celato ma sempre in agguato, il virus dell’agonismo. Pericoloso finché volete, cari amici che tenete i glutei ben incollati alle sedie del bar, ma fonte di insospettabili emozioni, se vissuto come gioco e diluito con appropriate dosi di autoironia.
So bene che su questo punto si può registrare un certo disaccordo, anche tra noi cicloturisti o cicloamatori, perché l’agonismo, spinto oltre certi limiti, è sicuramente un fenomeno pericoloso e per nulla apprezzabile. Dal momento però che ho evocato il suggestivo tema dei romagnoli in bicicletta, cosa ben diversa dai «corridori» romagnoli, mi corre l’obbligo di spendere almeno qualche parola sull’agonismo o meno dei romagnoli, appunto, che amano la bicicletta.
Si direbbe che c’è una latente frattura, nel microcosmo dei cicloamatori romagnoli, tra, diciamo, i contemplativi e gli agonistici. Tra chi si affida pacificamente alle due ruote e va per campagne e colline, si ferma a qualche fontana e a tutte le osterie, visita le pievi ch’erbose hanno le soglie, poi se ne torna a casa giulivo, gradevolmente ebbro di aria e di Albana; e chi invece salta sul sellino, raggiunge il luogo convenuto dove si unisce agli altri, e via a testa bassa per ore e ore a velocità folli, tra scatti, allunghi e inseguimenti, salite strazianti e discese da far perdere la testa per l’emozione e il rischio, per tornare poi sfinito, ma anche lui felice, se non ha subito l’onta di essere seminato per strada, e senza nulla aver visto se non la schiena e la ruota del compagno che gli stava davanti.
Quale dei due è il vero ciclista? Ognuno di voi ha la risposta pronta. Io invece no, perché credo che le cose siano un po’ meno semplici di come le ho rappresentate, o di come vengono solitamente percepite, salvo il caso, meno frequente di quanto si creda, del contemplativo e del fanatico allo stato puro.
Sarà perché partecipo volta a volta dell’una e dell’altra natura, e professo l’una e l’altra «filosofia», a seconda dei giorni, degli umori, delle compagnie, io non mi sento di irridere a nessuno dei modi, tutti legittimi, di vivere con la bicicletta. Se fosse consentito di scomodare per un attimo il grande Segretario fiorentino (su cui il nostro «Ottone di Banzole» scrisse oltre cent’anni fa un saggio che non dispiacque al Croce), oserei dire che anche sulla bicicletta bisogna saper essere volta a volta «respettivi» e «impetuosi», se non addirittura «golpe» e «lione». E aggiungerei, spingendomi più avanti in questo impudente trasferimento della metafora machiavelliana al mondo del ciclismo, che, potendolo fare, sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la bicicletta è femmina, si diceva, ed è necessario, volendola tenere sotto (e dove altrimenti?), batterla e urtarla, essa che, come donna, è amica dei giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano, e la cavalcano.
Tra il «respettivo» che va per cicloraduni, ove l’unico premio è una fetta di ciambellone (ma non per quella vi va), e l’«impetuoso» che partecipa alle corse, dove non so cosa si dia in premio, o pedala comunque sempre con l’occhio al tachimetro, posso avere un grano di simpatia in più per il primo, almeno quando non impugno il manubrio; ma capisco anche il secondo, e da lui spesso mi lascio trascinare.
E poi del ciclismo amatoriale e del cicloturismo anche questo mi piace: che non vi sono gerarchie, se non nella testa di qualche sempliciotto, e ci sfottiamo in allegria. E ognuno va alla velocità cui può andare, oppure, in certe ore di bonaccia, si sta insieme, in democratica promiscuità di età, dai venti ai settanta, e di morfologia, da chi ha il fisico di Indurain o di Merlene Ottey (se è donna, mi raccomando) a chi richiama simpaticamente lasilhouette dell’arguto Sancho quando sull’asino andava, contagiato dal sublime hidalgo, a buscar las aventuras, e diceva che ognuno è come Dio l’ha fatto, e anche peggio molte volte.
Volete che mi confessi fino in fondo su questa questione del «vero» ciclista? Io non dimenticherò mai più l’incanto del Falzarego o del Giau scalati in solitudine, di primo mattino, nell’ora in cui ancora dormivano gli intrepidi escursionisti lamierati che da lì a poco avrebbero appestato l’aria e cancellato la magia di quel silenzio; e neppure la maestosità e la severità del Fedaia fatto con Gabriele e Martino (la somma degli anni, equamente ripartiti, dà 186) in giugno, col vento e la pendenza che pareva avessero stretto un patto per ributtarci a valle, verso Malga Ciapela, e noi avanti, veloci… come buoi che vanno a giogo. Mi resterà fitto nella memoria, ma questa volta per la vergogna, anche il giorno in cui, ricattato da un caro amico entrato in crisi a trenta chilometri da casa, accettai l’umiliazione di stare con lui per mezz’ora nel risucchio di un rimorchio di bietole trainato da un trattore. Mi sarà, spero, perdonato, perché l’atto impuro lo commisi per solidarietà con un letterato della Bassa Romagna, al tutto privo di etica ciclistica, e per il quale anzi solo in senso molto figurato si potrebbe parlare di ciclismo.
Ma il divertimento più allegro, più infantile, lo provo quando lascio la «mutua» e mi imbarco con quelli della «formula uno», e c’è sempre quello che ad un certo punto grida: «Dove siamo, a un funerale?» e sfreccia via, e si scatena la bagarre. Oppure un altro, trentenne o quarantenne, dà uno «scossone al prugno», poi Arnaldo o Hermes si mettono a «fare della legna», e chi resta resta, e le prugne mature ed i rami secchi cadono. Mi diverto da matto anche quando io, che ramo verde da qualche mese non sono più, sono tra i primi a staccarmi, a dispetto dell’alato corsiero che cavalco, l’orgogliosa «De Rosa» che scalpita, e per me di pianto e di rossore macchia la guancia, per la rabbia e la vergogna. Perché non capisce che per umiltà, non per impotenza, ho lasciato andar via quegli scatenati energumeni. Per tornarmene poi a Ravenna sui 30-32 col grande Minghì (classe 1924, ma capace di farsi rispettare anche dai quarantenni), mirando l’uva che imbruna sui tralci, favoleggiando dei Troiani, di Fiesole e di Roma, e ricordando quando il forno si scaldava coi sarmenti, e il pane veniva più buono.
Ma, si obietterà, il genuino cicloturismo romagnolo delle origini è stato più una «filosofia» ed un loisir che uno sport. Sì, rispondo, finché è stato privilegio di nobili e di borghesi; e sì per Panzini, bucolico e professorale ciclista da chiostri e da fontane (nelle osterie si pagava); e sì per Stecchetti, ameno e faunesco ciclista da bettole e da battone; ma no per Oriani, pedalatore rodomontesco, se volete, ma di grande talento ed affascinato anche dal momento agonistico (vedrete la volata col fiorentino, più giovane di vent’anni, sulla salita di Serravalle) e che ha scritto pagine ancora leggibilissime sulle competizioni, che voleva però leali e senza premi che non fossero simbolici.
Insomma, sarà pur lecito scrivere che il ciclismo agonistico non è una forma degenerata di ciclismo. O vogliamo ridurre la Romagna della bicicletta ad un’Arcadia in cui i «pastori» vanno in giro sui pedali solo per ammirare i fiori? Vi risulta o no che il più puro, il più affascinante dei letterati-ciclisti romagnoli, il gentile Renato Serra, non era solo un contemplativo? Rileggete pure il ritratto che ne ha fatto una penna inconfondibile ed inimitabile: «Amava la sua città campagnola, con le sue case modeste, i portichetti bassi, le straducole erbose, i caffè oziosi, e mai se ne sapeva staccare; passava per quelle strade in bicicletta, vedeva a una finestra a terreno un volto di persona cara, lasciava pendere la bicicletta, appoggiava il braccio sul davanzale, e li si indugiava, indolente e svagato. Si allungava di là dal ponte sul Savio, tra quei colli così scarniti e magri di erbe, ed ecco, un mattino, in un ripiano ancora brullo, presso l’acqua del fiume, una fila di peschi che all’alba hanno buttato la loro fioritura, fragili e coraggiosi; e ne ha l’anima consolata». Ma non dimenticate che Serra fece e vinse delle gare ciclistiche, e che un giorno, passando il Giro da Cesena, si affiancò a Gerbi, il «diavolo rosso», e gli stette alle costole, con impertinente aria di sfida, fino a Sant’Arcangelo.
Chi non ha mai sentito svegliarsi in sé il demone dell’agonismo, ha il diritto di pensarla diversamente, e di andare in bicicletta come gli aggrada, rimanendo ciclista vero. Ma, in Romagna almeno, è improbabile che esista un cicloamatore che non abbia mai ceduto all’impulso di misurarsi con gli altri. Che non abbia conosciuto quello che il grande Roger Caillois, nel classico Les jeux et les hommes, ha chiamato l’agôn, il gioco competitivo, patrimonio genetico di tutti gli animali, non maledizione dell’homo ludens.
Nel ciclismo, particolarmente in Romagna, questo istinto si esprime in forme meno adulterate che in altri sport, perché è uno sport povero e nobile, dove vince chi è più forte e chi sa soffrire senza arrendersi. Se ciò è vero in generale, lo è particolarmente nella terra che non ha visto nascere un Girardengo né un Binda né un Bartali né un Coppi, ma che ha pur dato e dà grandi campioni. E in cui, anche nella lunga notte delle nebbie, basta un’ora di sole perché le strade si riempiano di maglie d’ogni colore, curve nella gioia della corsa.
2. Dalla bicicletta borghese alla bicicletta proletaria
Ma è tempo che, dopo queste divagazioni e confessioni di un vecchio e mediocre cicloamatore romagnolo di oggi, il discorso si stringa intorno al grande atleta («atletico scrittore» lo defini, con evidenti intenti derisori, Luigi Russo quasi cinquant’anni fa) che a Faenza, nel vecchio circo fuori Porta Imolese, alle quattro del mattino, apprese ad andare in bicicletta, avendo a maestro un ragazzo, or è giusto un secolo.
«Cominciai tardi, a 42 anni», vale a dire appunto nel 1894, scrisse Oriani in una lettera al giornale «La Bicicletta» datata 21 maggio 1897, non compresa poi nell’Opera omnia né nelle Lettere che Piero Zama pubblicherà nel 1958. Si tratta quindi di un testo praticamente inedito, il primo a soggetto ciclistico oltretutto, che vale la pena di riprodurre per intero.
Signor Direttore de «La Bicicletta».
Solamente adesso ricevo a Faenza la vostra lettera, che mi ha indarno cercato ieri nel mio romitorio di Casola Valsenio. Mi chiedete una professione di fede ciclistica per un’occasione che nel vostro gentile proposito dovrebbe per me significare un onore. Eccola.
Era la mia chimera, ora è la mia libertà, giacché dal primo giorno che inforcai la sella della bicicletta, mi sentii come un evaso, e voi sapete che solamente i prigionieri hanno della libertà una profonda passione e la più lirica idea.
Sciaguratamente non sono più giovane; i capelli mi si sono rarefatti sulla fronte quasi come su quella della fortuna; cosicché nemmeno con un gesto disperato potrei in un tragico momento afferrarne parecchi; le mie gambe e il mio spirito, come nei prigionieri rimasti troppi anni in carcere, serbano quel malinconico intorpidimento, che nessuna letizia di strada o speranza di meta saprebbero ormai ravvivare. Nullameno quando monto la mia bicicletta nel sole del meriggio, sulla strada bianca, mi pare sempre di fuggire dal mondo, nel quale caddero i miei capelli e le idee mi si fecero così cupe, per andare non so dove, all’eco di appelli inintelligibili, sollecitato dai sorrisi che i fiori aprono fra le siepi, seguito dai profumi che i campi si barattano con benevolenza fraterna, mentre laggiù, dove l’aria bolle come un vapore e la polvere si solleva come una nuvola diafana, ondeggiano effimere figure dalle vesti trasparenti come un riverbero e dagli occhi lucenti come un lampo. Non posso dirvi che siano donne, perché il loro sorriso non sarebbe per me: a 45 anni i sorrisi femminili ci passano dileguando molto al di sopra della fronte; ma sono figure ideali senza specie e senza sesso, come quelle chimere, che mi accolsero un giorno sulla soglia già lontana della mia giovinezza, e che non riuscii mai a montare cavaliere vittorioso ed amato.
Non sono e non fui poeta, e la più sconsolante delle prove sta appunto in un mio libro, meritatamente dimenticato, di versi.
Ma in sella sulla bicicletta, parmi sempre di diventarlo, giacché un orgoglio mi esalta, e i campi e i paesaggi che mi sfuggono ai fianchi sorridono gettandomi il loro segreto come usarono sempre coi veri poeti.
Cominciai tardi, a 42 anni.
Troppo povero per possedere da giovane un cavallo da sella, soffersi sempre di dover compiere da pedone il mio cammino; ma quando la bicicletta mi cangiò in cavaliere, le strade meno tristi mi restavano già alle spalle. Il mio maestro fu quasi un fanciullo, adesso tristamente malato di un male sottile, che ha dato alla sua magrezza un’espressione più acuta e malinconica. Egli fu il giovane Chirone di un Achille invecchiato al di là del poema d’Omero. Quando, accanto al suo letto, parliamo di bicicletta, il suo occhio scintillante sulle guancie arrossate dalla febbre pare uno di quei lampi che solcano appunto i sanguigni tramonti di questa fine di maggio.
Egli amava la propria bicicletta assai più di una fanciulla, a letto dove giace infermo da tre mesi ne ricorda palpitando la libera poesia con un desiderio senza rimorsi. La bicicletta sola può nel nostro spirito lasciare così una memoria di piacere. E questo fanciullo, spero, guarirà. Io sono il suo più illustre scolaro, egli fra tutti i maestri è il solo che io abbia amato, il solo che abbia aperto al mio spirito, angoscioso fin da bambino, le porte di un altro mondo, permettendomi l’oblio di quello peggiore, che non potrò mai gittare dal mio cuore. Egli volle che io scrivessi un libro sulla bicicletta, che sto appunto compiendo. La mia più dolce speranza è che libro e maestro escano ugualmente liberi e sani al pubblico fra non molto; ma il mio libro, per quanto io mi studi di farlo bello, non varrà mai lo spirito squisitamente dolce e ingenuamente poetico del mio piccolo maestro.
Egli non riuscì a fare di me che un cavaliere pesante della bicicletta; accoglietemi dunque per tale e preparatevi a inscrivermi in una corsa di tardigradi quel giorno che il vostro brioso giornale avrà il coraggio di proporla.
Il giovane maestro, Adolfo Mergari soprannominato «Magry», sarebbe morto dieci giorni dopo, senza poter leggere il libro ma avendo letto forse la lettera, uscita sul giornale il 24 maggio. A lui Oriani dedicò, a caldo, una commossa pagina, compresa poi, col titolo Il mio Maestro, nel volume La Bicicletta. A proposito del quale va detto, incidentalmente, che in questa lettera è contenuto il primo riferimento alla sua stesura, anteriore di quattro mesi a quello, ben noto, riscontrabile in una lettera a Federzoni del 22 settembre. Dalla lettera apprendiamo anche che il primo impulso a scrivere il libro venne ad Oriani dal suo giovane maestro. Si riconosca dunque, a questo ragazzo faentino col quale la natura fu crudele e che non conobbe altro amore che quello per la bicicletta, la dignità di pioniere del ciclismo nella nostra terra. E, soprattutto, il merito di aver sollecitato il libro in cui sono raccolte alcune delle pagine più belle e serene di Oriani narratore.
Oriani scrisse quel libro, composto di pezzi di natura teorica, anzi tecnica, sulla bicicletta e di veri e propri racconti a soggetto ciclistico (compresa la descrizione di corse su pista), probabilmente nell’arco di pochi mesi, fra l’aprile-maggio e l’ottobre 1897, se il 16 di quel mese poteva scrivere al cugino Giacomo Oriani: «Fra tre o quattro giorni avrò finito di ricopiare il libro». Resta l’enigma della data 14 agosto 1899, apposta in calce al racconto più bello del libro, la descrizione, col titolo Sul pedale, del viaggio compiuto nell’agosto 1897. Tale data figura nella prima edizione, non sappiamo se ripresa dal manoscritto perché questo è andato perduto nel corso delle ultime vicende belliche (nell’Opera omnia, notoriamente scorretta, si legge addirittura «agosto 1889»). Non si esclude però che si tratti di un errore dello stesso Oriani, visto che è certamente inesatta anche la data iniziale del viaggio, domenica 30 luglio 1897: in realtà, quella data non è mai esistita, in quanto la domenica, dato certo perché ripreso anche nel racconto, cadde il 1 agosto, quell’anno.
Il libro restò a lungo inedito, malgrado gli sforzi dell’autore per interessarvi Pirelli, Prinetti, il Touring, Sonzogno, Bemporad («Un libro come questo dovrebbe avere un avvenire», aveva scritto al cugino Giacomo). Uscì, come è noto, nel gennaio 1902 da Zanichelli, pochi mesi dopo il libretto di Olindo Guerrini. E non ebbe il successo che l’autore s’aspettava, a causa, così egli credette, dell’ostilità della stampa: «Bicicletta, giudicata hai visto come da De Amicis […], non è pel “Carlino” nemmeno un libro d’arte, nemmeno un avenimento sportivo, degno di essere segnalato co me una corsa. Se invece di Oriani l’avessero scritta Stecchetti o Panzacchi allora sarebbe stata un avvenimento. Per fortuna loro né Panzacchi né Stecchetti erano capaci di scriverla» (ad Antonio Cervi, 28 febbraio 1902).
Per intendere il riferimento al De Amicis bisogna sapere che alla metà del febbraio 1902 questi aveva scritto una breve ma en tusiastica lettera ad Oriani, tanto più significativa in quanto veni va da uno scrittore amante dello sport, ma non appassionato della bicicletta. Eccone i passi più importanti:
Ho piantato là i miei ferri di bottega per leggere il vostro libro.
Eccovi il mio giudizio: — Siete un superbo originale —. Mi avete fatto godere, stupire, soffrire e volare sulla vostra bicicletta, con così viva e prolungata illusione della mente e dei sensi che ne sono ancora tutto rimescolato e meravigliato. Le prime pagine del libro, Il piacere, […] Il mio maestro, quel tremendo racconto, Il Ciclo, e il viaggio in Toscana (che povera parola viaggio per quel piccolo poema!) sono cose che ricorderò per tutta la vita con un senso di ammirazione e di invidia.
Indipendentemente da questi privati giudizi di De Amicis, quello di Oriani è il libro più bello e originale sulla bicicletta e sul ciclismo in Italia. Non è certo il primo, visto che già nel 1884 D. Bonacini aveva pubblicato a Modena L’abbaco dei velocipedisti, un arido manualetto sull’uso del velocipede, come già ve n’erano in Francia e altrove (un Manuel du vélocipédiste, Paris, Delarue Editeur, senza autore e senza anno, è ancor’oggi nella biblioteca personale di Oriani). In Francia L. Baudry de Saunier aveva addirittura già pubblicato, nel 1891, quando al velocipede era ormai subentrata la bicicletta vera e propria, una Histoire générale de la vélocipédie, per dire quanto interesse suscitasse allora il tema. Ma La Bicicletta fu e resta il libro letterariamente più notevole di quegli anni, e non solo di quelli. Non per nulla il suo più perspicace lettore, Serra, ha potuto dire che «Oriani non ha antecedenti letterari se non in senso molto generico: in Francia».
Sul libro, o meglio, su alcune parti di esso, si tornerà, non per sottoporlo ad un esame critico di cui non si avverte la necessità, dopo i tanti che si sono aggiunti al primo e migliore, quello di Serra, bensì allo scopo di trarne elementi per un giudizio su Oriani cicloamatore. Giacché, come s’è anticipato, non di letteratura qui si parla, ma di bicicletta e di ciclismo. E se l’ombra del gigantesco «Ottone» avesse ad adirarsi perché qui si antepongono i suoi garùn, come diceva Binda, ed i suoi polmoni alla penna che ha scritto trenta volumi, noi diremmo in piena libertà ciò che abbiamo da dire, a carico ed a discarico del ciclista. Sperando magari che egli, nella sua laudum immensa cupidine (Croce), ci perdoni l’insolenza, pago del riconoscimento che abbiamo già anticipato: che egli, cioè, è stato non solo il maggiore scrittore della bicicletta, in Romagna e in Italia, ma anche un grande ciclista, non un «tardigrado,» come si definì, con troppo sospetta umiltà e con evidente civetteria, nella lettera del 1897.
Oriani esordisce come ciclista capeggiando, il 23 giugno 1894, una protesta contro l’ordinanza del sindaco di Faenza, del 6 giugno, che vietava ai «velocipedisti» l’accesso alla città in sella al loro ferreo cavallo. Non era il primo divieto in materia, né si può dire che fosse del tutto ingiustificato, perché un qualche pericolo per i pedoni quei ciclisti, ancora inevitabilmente maldestri, lo costituivano effettivamente, come documentano le cronache del tempo. Del resto, gli antenati della bicicletta avevano provocato analoghi interventi da parte dell’autorità. Per quello che consta, il primo editto contro l’uso del celerifero («cheval de bois») in città era apparso a Parigi, nei giardini del Palais Royal, nel giugno 1791. Al di qua delle Alpi si conosce un’ordinanza della Direzione Generale di Polizia di Milano del 26 giugno 1811. Come si vede, erano provvedimenti emessi da governi non particolarmente reazionari, il che rende meglio comprensibile il fatto che l’ordinanza di Faenza fosse stata emessa da un sindaco, Giuseppe Masoni, che capeggiava una giunta radical-massone-repubblicana. Inutile dire che quei provvedimenti nulla avevano in comune col decreto di Bava Beccaris, del 10 maggio 1898, che vieterà fino a nuovo ordine la circolazione delle biciclette, dei tricicli e dei tandem in tutta la provincia di Milano; né, tanto meno, con analoghi provvedimenti adottati da Kesselring nel 1944 per rendere più difficile l’attività delle SAP e delle staffette nella guerra di liberazione.
Ma lasciamo la parola, per una circostanziata descrizione della manifestazione faentina, al giornale «Il Lamone», repubblicano e quindi schierato col sindaco ma sicuramente attendibile nella parte informativa.
Ieri sera sulle 7 pom. circa settanta ciclisti, di cui appena una ventina di Faenza, entravano in città da Porta Pia quasi in massa per venire in piazza. Altri separatamente venivano da altre porte. […] Appena le biciclette entrarono in città il pubblico cominciò a fare un’accoglienza ostile e in piazza scoppiarono fragorose salve di fischi e di abbasso che coprivano qualche applauso isolato, anche di preti in veste. La gente che usciva dalle botteghe ingrossava sempre più, unendosi al primo nucleo dei controdimostranti e spesso alle grida di abbasso e di fuori contro i biciclisti, si univano gli evviva alla giunta. Mentre i dimostranti ciclisti trovavansi a banchetto alla Corona (un albergo), sotto questa radunavasi una folla numerosa, provocata anche un poco dal contegno di alcuni dei velocipedisti. Il grande sfoggio di forze fatto dall’autorità impedi l’ingresso alla folla e ci fu un momento in cui la forza cominciò ad adoprarsi un po’ bruscamente per disperdere il pubblico. […] I ciclisti erano sempre assediati alla Corona dilettati da un coro assordante di fischi, e, visto che non v’era mezzo di allontanare pacificamente la folla, l’autorità politica fece venire uno squadrone di cavalleria colle sciabole sfoderate in mezzo al quale, a piedi, col lume acceso, alle 11 di notte, i dimostranti [ciclisti] reclutati nei paesi circonvicini furono accompagnati fuori di città, pure ai due lati scortati da guardie e carabinieri e dai fischi di una folla immensa che sempre ingrossava (n. 25, del 24 giugno 1894).
Che Romagna è mai questa, in cui i popolani fischiano i ciclisti? L’episodio, per nulla eccezionale, potrebbe produrre qualche sconcerto, visto che qui si sta celebrando la Romagna ciclistica. Il fatto è che, da noi come altrove, la bicicletta ed il ciclismo diventano popolari solo con l’inizio del secondo decennio del nostro secolo. Prima, per ragioni economiche innanzitutto, ma anche per ragioni politiche ed ideologiche, almeno nei dirigenti dei partiti rivoluzionari, la bicicletta è un passatempo delle classi agiate, o meglio, degli elementi più spregiudicati ed anticonformisti di quelle classi, comprese le donne. I giovani contadini, operai, artigiani hanno altro cui pensare. O magari la bicicletta cominciano presto a sognarla, ma dovranno attendere quasi un ventennio perché per molti di loro il sogno si avveri. Stefano Pivato, nel libro citato, ha magistralmente ricostruito questa storia, spingendosi fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Noi, prima di tornare al nostro Oriani, possiamo solo accennare a quelle vicende ed a quel dibattito. All’origine del quale c’è anche, in qualche misura, la «filosofia» che pervade le pagine de La Bicicletta.
I fischi anticiclistici di Faenza si ripeterono a lungo nell’area della sinistra italiana, e non investirono solo le due ruote, per allora monopolio dei borghesi, ma tutto il versante dell’attività sportiva. Per documentare la lunga persistenza di questo atteggiamento antisportivo nel campo della sinistra rivoluzionaria, si è soliti citare un volantino, non datato ma collocabile intorno al 1910-12 perché vi si deplora il «miserevole spettacolo d’incoscienza e di sperpero d’energie che offrono tutti quei giovani ciclisti del Giro d’Italia», uno dei «tanti tranelli che l’attuale sistema di governo plutocratico e borghese, ha teso alla inconsapevole dabbenaggine delle moltitudini». Il foglio volante, firmato «I giovani Mazziniani, Socialisti e Anarchici», si apre con un perentorio «Deplorate lo sport» e si chiude con un non meno fermo «Abbasso lo sport!». Era espressione delle correnti più radicali dell’antisportismo rivoluzionario, e non rifletteva dunque l’atteggiamento di tutta la sinistra, ormai molto differenziata anche su questo punto, all’inizio del secondo decennio del secolo.
Erano stati i repubblicani, circa dieci anni prima e proprio in Romagna (il primo convegno ciclistico regionale ebbe luogo a Cervia, il 26 luglio 1903), a rivedere le schematiche posizioni anticiclistiche delle origini. Per la verità, non si trattò tanto, in un primo tempo, di una «conversione» di natura sportiva quanto piuttosto di una scoperta della bicicletta come strumento di lotta politica, particolarmente per le popolazioni dei centri minori e delle campagne, che fino ad allora avevano potuto partecipare solo marginalmente alle manifestazioni ed ai grandi comizi delle città. Fu poi la volta dei socialisti, intorno al 1910, ad adottare la bicicletta come mezzo di proselitismo e come strumento nella lotta di classe, soprattutto nel corso degli scioperi nelle campagne. Nacquero così i celebri «ciclisti rossi», proprio in Romagna, ad Imola precisamente, in occasione del Congresso Socialista Regionale del 16 giugno 1912. Esattamente un anno dopo, sempre ad Imola, si costituì la Federazione nazionale dei «ciclisti rossi», con intenti rigorosamente politici, non sportivi. Le potenzialità della bicicletta come strumento di lotta politica si sarebbero poi rivelate nella forma più spettacolare dodici mesi più tardi, in occasione della «Settimana rossa». A quell’epoca, già erano prodotti e propagandati sulla stampa socialista il «Ciclo Avanti!» e il pneumatico «Carlo Marx», «pneumatico dei socialisti italiani».
L’accettazione del momento propriamente sportivo fu più controversa e tardiva, almeno da parte della dirigenza socialista, comprensibilmente diffidente nei confronti di un fenomeno quanto meno sospetto per le sue origini borghesi, nonché pericoloso nel senso che avrebbe potuto distrarre la gioventù dai suoi primari doveri rivoluzionari. Il dibattito fu lungo ed aspro, fra l’ala rivoluzionaria, decisamente ostile allo sport, e l’ala riformista, prima possibilista poi fermamente favorevole ad uno sport, il ciclismo, che stava conquistando le masse. Chi voglia saperne di più, si rivolga al libro di Pivato. Qui ci si limita a ricordare l’articolo di Ivanoe Bonomi sull’«Avanti!» del 29 settembre 1910, dal titolo Lo «sport» e i giovani, in cui si può leggere una pagina degna della migliore letteratura sulla bicicletta:
Oh pomeriggi domenicali nell’immenso verde della campagna lombarda, lungo gli argini del Po o sulle vie bianche e pulite, snodantisi come infiniti nastri tra il verde tenero delle robinie! Passano a decine i ciclisti, giovani, vecchi, uomini, donne, contadini, operai, signori. Corrono riempiendo l’aria dello squillo dei campanelli, sollevando a stormi le rondini sul loro passaggio. I vecchi vanno adagio, i giovani vanno veloci. La gara nasce spontanea su quella gran pista ch’è la strada. Uno, due, tre: ecco che partono di corsa, curvi sui manubri, pedalando con i forti muscoli turgidi. Chi arriva primo al paese? Tra poco saranno tutti giù dalle macchine a discutere, a rinnovare le sfide, a dare e a ricevere consigli. Galletti, Ganna, Gerbi, Verri, ecco i nomi che corrono su quelle bocche accese e sorridenti. Gli eroi del pedale sono popolari come erano gli eroi del circo nella antica Grecia.
Eppure, o giovanetti rivoluzionari, questi contadini che leggono la «Gazzetta dello Sport» non sono poi il gregge indifferente che voi supponete nei vostri schemi mentali.
E concludeva, l’allora autorevole esponente del socialismo riformista, con facile sarcasmo: quei contadini, con le loro lotte, nel mantovano, nel Ferrarese, nel bolognese, nel ravennate, «hanno saputo conquistarsi un tenor di vita più alto, tanto alto da poter appassionarsi allo sport. E voi giovanetti pallidi della rivoluzione, quale rivoluzione avete compiuta?» Di fronte a queste affermazioni, formulate negli stessi mesi in cui i giovani repubblicani, socialisti e anarchici emettevano la condanna che s’è citata, è futile chiedersi chi avesse ragione. Limitiamoci a constatare che le cose sono andate nella direzione opposta a quella preconizzata dai «giovanetti pallidi della rivoluzione», senza pronunciarci sulla improponibile questione se siano andate nel migliore dei modi possibili. Che è poi, per tornare in Romagna, quel che faceva il disincantato Serra nel 1912, quando scriveva:
leggono meglio [i giovani romagnoli] la «Gazzetta dello Sport» che l’«Avanti!»; cantano piuttosto una canzonetta che l’inno dei lavoratori; non corrono più, come un tempo, per Mirabelli o Comandini che passi; sono ancora nelle leghe, nelle società, che, infine, servono a qualche cosa; ma non gli danno più il peso di una volta […]; e pensano a lavorare e a fare all’amore e a correre in bicicletta, senza aspettare il cenno preciso della sezione o del circolo (Partenza di un gruppo di soldati per la Libia).
L’«Avanti!» cui si riferisce Serra poteva essere quello del riformista Treves o quello del rivoluzionario, già segretario della Camera del lavoro di Ravenna, Giovanni Bacci, che si avvicendarono nella direzione del giornale socialista proprio nel corso del 1912. Quando scriveva, il grande saggista cesellate non sapeva che l’anno successivo l’«Avanti!», sotto la direzione dell’ultrarivoluzionario, e romagnolo, Benito Mussolini, avrebbe raddoppiato la tiratura e sarebbe tornato ad essere letto con interesse dai giovani socialisti romagnoli, senza magari riuscire a distrarli dalla lettura della «Gazzetta dello Sport». Non ci risulta che se ne sia rallegrato, quando s’è poi trovato sotto gli occhi le argomentazioni ed il linguaggio del mistico della rivoluzione nato non lontano da casa sua.
3. E’ viazz di Stecchetti
La «professione di fede ciclistica» di Oriani, contenuta nella lettera del maggio 1897, ha un seguito, anzi un approfondimento, nella prima parte dellaBicicletta. Prima di esaminarla è forse il caso di richiamare analoghe professioni, come quella di L.V. Bertarelli, scritta nello stesso 1897, e quella di Stecchetti, di poco posteriore, anche per coglierne consonanze e differenze.
Il Bertarelli, dirigente poi presidente del TCCI (che nel 1900 perderà la seconda C in ossequio all’incipiente turismo automobilistico), fece un viaggio ciclistico, da solo come Oriani, in Calabria e Basilicata, un mese prima che Oriani affrontasse le salite del Carnaio e dei Mandrioli. Si trattò di soli cinque giorni, per un totale di quasi cinquecento chilometri, fatti però in condizioni per noi difficilmente immaginabili, su strade impraticabili, in mezzo a gente sconcertata per quella incomprensibile apparizione («Venite’ dall’America?», gli chiese una donna che forse aveva il marito emigrato). Lo scritto, pubblicato a puntate sulla «Bicicletta» poi raccolto in volumetto (Calabria e Basilicata. Cinque giorni di escursioni cinematografati da un ciclista), non ha pretese letterarie (per questo lo cito, sicuro che la mia presidente, veramente Giovanna, non vorrà accusarrni di invasione di campo) ma costituisce un documento di elevato interesse e contiene una «professione di fede» nella bicicletta un po’ ingenua, se si vuole, ma rappresentativa dell’entusiasmo che animava quelle avanguardie. Questo è il passo che meglio documenta lo spirito del diario:
Scrivo per voi, ciclisti, che del tourismo serio, che dà nerbo al pensiero per lo meno quanto ai muscoli, avete fatta un’abitudine, e troverete perciò, nel mio, un riflesso del vostro pensiero.
Scrivo per voi, neofiti, che una vigorosa spinta aiuterà a prendere la buona via.
Scrivo anche per voi, o ciclofobi di diverso grado, anche se consiglieri e sindaci: le mie parole vi faranno inarcare le ciglia vi troverete qui un mondo morale per voi nuovo e un po’ incomprensibile, ma chissà mai, che questa possa essere punzecchiatura che sgonfi il pneumatico dei vostri pregiudizi?
Stile a parte, sono accenti che ritroveremo nelle pagine di Oriani. Il quale avrebbe condiviso anche questa affermazione di Augusto Guido Bianchi, redattore del «Corriere della Sera» e prefatore di Bertarelli: «La bicicletta dovrebbe contribuire a formare la conoscenza nazionale in un paese che, benché unito, non ha che la coscienza della sua disunione».
Stecchetti, che come scrittore della bicicletta compete a Giovanna Bosi Maramotti, formulò la sua professio fidei negli scritti raccolti in volume nel 1901 sotto il titolo In bicicletta (Catania, Giannotta). Il taglio e il timbro del suo credo, inconfondibili, sono di questa natura:
Non c’è arte al mondo che possa esprimere il piacere, direi quasi la voluttà, della vita libera, piena, goduta all’aperto, nelle promesse dell’alba, nel trionfo dei meriggi, nella pace dei tramonti, correndo allegri, faticando concordi, sani, contenti.
Ahimè, poeti e gobbi si nasce e non si diventa. […] Mettetevelo in mente voi che vi guardate la lingua, vi tastate il polso, seccate il medico e ingrassate il farmacista. Andate in bicicletta coi figli e dopo un mese digerirete le cipolle crude.
Ve lo dico io.
Oriani, sempre sostenuto, non apprezzava questo modo scanzonato di scrivere, neppure intorno ad un soggetto leggero come la bicicletta. A noi il vecchio Olindo piace anche così (come scrittore, s’intende, perché come ciclista non ci pare proprio recuperabile), anche se il meglio è altrove, come ben sa ogni romagnolo. Il meglio, s’intende dire, anche per quanto riguarda il viaggiare in bicicletta. Che poi egli abbia vinto il concorso bandito dal Touring per un inno dei cicloturisti, è cosa che pertiene più alla storia della camorra letteraria, o turistica, che ad altro. Gli amici santalbertesi non mi inviteranno più a cena, ahimè!, ma io non potevo esprimermi diversamente su di un testo in cui si leggono scempiaggmi come questa:
0 terra degli eroi,
Madre di sol vestita,
Abbi dai figli tuoi
Valor, fortuna e vita,
Pensiero ed energia…
Avanti, avanti: via!
Al tutto degne di quelle di un concorrente sconfitto e protestante, Vittorio Betteloni:
Oh gioia de ‘l trascorrere
In un dì tanta terra!
Oh gran gioia di porgere
Utile in pace e in guerra,
Molteplice, fulmineo,
Il nostro alto valor.
Posso tentare di farmi perdonare aggiungendo subito che, almeno per noi cicloamatori romagnoli, il vero, grande inno dei ciclisti è contenuto nelle due quartine del sonetto Da Ivrea a Vercelli, XXVIII dei 54 di cui si compone il leggendario E’ viazz (Il viaggio), non prescelto da alcun sodalizio né premiato da alcuna accademia, ma infinitamente più icastico e vero dei 24 settenari dell’inno ufficiale:
Che bell andè, burdell, che bell andè
In bicicletta cun la maia adoss
Cun un bel dé, cun una bella strè,
L’anma contenta e l’alegrì in t’agl’oss.
Us passa d’i pais e dal zitè
Us lez i foi ch’us trova icsè a l’ingross
Us capess cossa ch’l’è la libartè
E us chega a l’eria averta in t’e’ premm foss (1)
Le lettrici, se ve ne saranno, mi perdoneranno la mancata espunzione dell’ultimo verso. È dovuta a imprescindibili esigenze metriche (che quartina sarebbe una strofe di tre versi?), ma anche al fatto che non voglio passare per un braghettone che censura Stecchetti.
Giacché ci sono, voglio riconoscere ad Olindo Guerrini un altro incontestabile merito: quello di aver messo a soqquadro il mondo dell’ermeneutica dantesca dimostrando una volta per tutte che Dante il suo viazz, almeno per le prime due tappe, l’ha fatto in bicicletta, pedalando senza risparmiarsi («forte springava con ambo le piote») dietro Virgilio («due che si volgeano a ruota»). Non solo: è riuscito a trovare le prove del fatto che la corsa era truccata, decisa a tavolino prima della partenza: «Io sarò primo e tu sarai secondo», aveva stabilito il mantovano, forte della sua maggiore età e col pretesto che già conosceva il percorso, e il toscanaccio, che era alla sua prima esperienza, aveva dovuto accontentarsi. Convinto magari che la seconda posizione sia sempre onorevole, anche in una gara a due.
Ma qui io debbo soffermarmi, prima di tornare ad Oriani, su Stecchetti cicloturista, non su Guerrini scrittore della bicicletta. E fornire un qualche fondamento agli irriguardosi giudizi che ho anticipato.
L’epopea d’ E’ viazz, si dice. Certo, a leggere i sonetti ed a mettere in fila le località toccate (Ravenna-Bologna-Milano-Val d’Aosta-Brescia-Verona-Trieste-Venezia-Ferrara-Ravenna) non si può non esclamare: Chapeau!, sapendo poi che Olindo aveva 58 anni quando fece quel viaggio (il figlio Guido scrive che era il 1901, e tutti l’hanno ripetuto, ma resta il fatto che le cartoline illustrate spedite dalle varie località toccate portano tutte, nel timbro postale, date dell’agosto 1903). Se fate i conti dei chilometri, l’ammirazione cresce. Ma già si ridimensiona se sottraete quelli, non s’è mai saputo quanti, fatti in treno. Perché quello era un viaggio organizzato dal Touring, cari amici, non un’avventura solitaria come quella di «Ottone». Organizzata a tal punto che sulle salite alpine non solo si smontava, come era inevitabile, ma ci si faceva portare le biciclette. Da chi? Da sherpa, direte. Nossignori! Da ragazze, per colmo di vergogna, da Ch’al burdeli ch’purteva al biciclett / Par ch’i sintir d’muntagna. E mentre Catarena è curva sotto il peso del ferreo cavallo, l’appiedato fellone, vecchio satiro impenitente, si rifà gli occhi sulle sue tette (Cun dal tett i mi fiul… Queli agl’i’ è tett!). Non solo. Tornato a casa, l’âgécavalcatore scavalcato ripensa alla tettuta portatrice, e le invia un messaggio in codice, una vera e propria proposta: T’arcordat ch’la matena? / Vut turnem a purtè la bicicletta? (Ti ricordi quella mattina? Vuoi portarmi ancora la bicicletta?) Gli occhi di Olindo dovevano essere proprio insaziabili. Ma è proprio questa, sia detto tra noi cicloturisti, l’attitudine che ce lo rende caro, e ci fa chiudere un occhio sulle sue scandalose carenze sportive ed atletiche.
Del resto, che Stecchetti fosse ciclista da portare la bandiera del Touring nei raduni domenicali e poco più (vedremo che ne dirà Oriani di quelle parate) è cosa nota. Cosi come sono noti i suoi interessi culturali di cicloturista. Che razza di turismo fosse quello di Olindo, ed a che prestasse attenzione, delle bellezze d’arte e di natura disseminate lungo il percorso, lo sa chi conosce E’ Viazz. Qui si ricorda solo, per memoria, un paio di versi. Quello conclusivo del sonetto dedicato a Milano, intanto: Mo l’è un gran bel paes. Sol al puttann! (Ma è un gran bel paese. Solo le puttane!). Che gli abbiano fatto una gran bella impressione ch’al donn ch’al ten butega averta (le ragazze che fanno il loro commercio sulla strada), lo prova anche un’annotazione sopra una cartolina illustrata raffigurante il duomo di Milano, inviata, durante il viaggio, al nipote avvocato Pino Poletti e conservata nell’archivio della Biblioteca Oriani:Quanti!! Mo coma fàli a campê totti? (Quante!! Ma come fanno a campare tutte?). Supposto, s’intende, che si riferisse a quelle che crediamo noi, non alle suore di carità.
Questo è lo Stecchetti che amiamo, vecchio ronzino del ciclismo ma cantore inimitabile del primo cicloturismo romagnolo. Che sotto la sua penna diventa, da borghese che era nella realtà, popolare ed allegramente plebeo:
A sintemia lighedi al pall d’i znocc
E andemia adesi da la gran stracona
Cvirt da la porbia e cun e’ sol in t’i’ occ.
Mo quand a fossom a la Camarlona
E a sintessom i virs d’i premm ranocc
A rugiè: «Forza da la Zabariona!» (2)
(1) Olindo Guerrini, Sonetti Romagnoli, sezione «E’ viazz», sonetto XXVIII: «Che bell’andare ragazzi, che bell’andare / in bicicletta con la maglia indosso / in una bella giornata, con una bella strada, / col cuore contento e l’allegria nella ossa. / Si attraversano paesi e città, / si leggono di sfuggita i giornali che capitano, / si capisce cos’è la libertà, / e la si fa all’aria aperta al primo fosso».
(2) Ivi, sonetto L: «sentivamo la rotule legate / e andavamo piano per la grande stanchezza, / coperti di polvere e col sole negli occhi. / Ma quando fummo alla Camerlona / e sentimmo i canti delle prime rane / io gridai: “Forza, all’osteria della Zabariona!”»
4. La Bicicletta di Oriani
Nulla di tutto questo in Oriani, che non scherzava su nulla, per sua e nostra sfortuna, nemmeno sulla bicicletta. Ma cui spetta il merito di aver scritto su di essa il primo organico libro, per unanime riconoscimento: «La precedenza spetta intanto a Oriani», scriverà, tra i tanti, Enrico Falqui, sul «Quadrivio» dell’8 agosto 1937, facendo eco a Papini, che nel 1925 aveva riconosciuto che «fra questi Pindari delle ruote nessuno può togliere a Oriani la prima corona». Inutile aggiungere che l’autore era ben consapevole di questo primato, visto che scriveva, il 27 luglio 1905: «Forse il libro è bello, forse è il solo della letteratura contemporanea sul vivo argomento».
L’apologia delle due ruote è contenuta nei primi capitoli del libro, quelli in cui Oriani dà prova di aver avuto, pur esprimendole nel suo declamatorio linguaggio, alcune acute intuizioni circa le potenzialità e l’avvenire della macchina che stava incuriosendo l’Europa. Se anche in altri campi egli avesse avuto la stessa lucidità e preveggenza, Norberto Bobbio non avrebbe potuto scrivere di lui che era un profeta che guardava indietro.
Ciò che colpisce in queste pagine è innanzitutto la singolare compresenza o alternanza di lirismo e attitudine all’analisi tecnica, di tono apologetico e critica dei limiti del mezzo.
Chi sarà il poeta che scriverà l’ode alla bicicletta, si chiede, magari con la segreta speranza che quell’ode, certo in prosa, la stia componendo proprio lui, dal suo eremo di Casola Valsenio. Inutile precisare che egli sta pensando a cosa ben diversa dall’inno stecchettiano di tre anni dopo, che non avrebbe degnato neppure di un sorriso di compatimento. Sarà un poeta che, liberatosi dai vecchi ritmi e dalle rovine letterarie del passato, guarderà al futuro:
fidente e fremente parrà a lui, nel tenere la penna, di stringere ancora il manubrio lucido della sua bicicletta, spiccando il balzo lieve, e di correre col vento sulla fronte, col sole negli occhi, coll’anima dilatata, nell’impeto improvviso ed instancabile, come rondine abbandonata al capriccio di una fuga per la distesa del cielo.
Ritornerà più volte questa similitudine della rondine. Ma ricordiamoci intanto di quell’idea di fuga, di viaggio come fuga, come evasione (già incontrata nella lettera del maggio ’97) perché è sotto questo segno che pochi mesi dopo Oriani si abbandonerà al capriccio dell’avventura sulle strade di Romagna e di Toscana.
Poeti antichi e moderni hanno celebrato il cavallo, il pallone aerostatico, il treno, la nave, ma nessuno ancora la bicicletta, «eppure né il cavallo, né il pallone, né il vapore, né la nave resero all’uomo più facile il trasportarsi ovunque una qualche necessità lo richiami, lasciandolo più signore di se stesso». È su questo fondamentale punto del potenziamento dei mezzi individuali, dell’allargamento della sfera delle libertà, che batte insistentemente il recluso del «Cardello». Ma non c’era, da millenni, il cavallo? Certo, ma il cavallo non siamo noi: è un altro essere vivente che ci impone i suoi limiti, un servo cui ci si affeziona e che richiede doverose cure. Che limita dunque, inevitabilmente, la nostra libertà. Quanto al treno, tutto vi è prestabilito: «l’ora, la linea, la velocità, la partenza, l’arrivo, il posto, i discorsi che udrò, i contatti che dovrò subire, le faccie alle quali non potrò sottrarmi». Esattamente come nella nave, che, potenziandosi, ha eroso i margini del nostro capriccio: «Dal fondo della sua piroga il selvaggio può ancora drizzarsi libero dinanzi all’oceano per aprirvisi una via coi remi; sull’alto ponte di un piroscafo, ogni passeggiero non guarda il mare che come dagli sportelli di un vagone sui campi». La nave non può essere che una fuggente abitazione sul mare, il treno che un mobile carcere sulla terra. Con la bicicletta invece il «viaggio umano è entrato nel periodo della liberazione».
Voi potete muovere a queste apodittiche affermazioni le obiezioni che volete, e dire, e dimostrare, che Oriani esagerava, semplificava, presentava i problemi ed i fatti in modo unilaterale. Non potete non cogliere quel tanto di vero che è contenuto nel suo entusiasmo, e che fu percepito, anzi vissuto, dalla sua generazione e da quella successiva, prima che mezzi di locomozione individuali, a motore, fossero a disposizione di tutti, rendendoci più liberi. Più liberi fino a quando non produssero lo stato di semiparalisi e di avvelenamento in cui ci stiamo dibattendo, impotenti e disperati.
Comunque la vogliate pensare, voi sentite che sulle pagine di Oriani si è riversato l’entusiasmo di un misantropo e individualista che sa, ora, di poter evadere dal suo carcere meglio e più spesso di quanto non potesse farlo prima. In questo senso, il libro, se non è l’auspicata ode alla bicicletta, è forse qualcosa di più, almeno nelle sue parti migliori: è un inno alla liberazione.
Ma per tutta questa parte, chiamiamola lirico-celebrativa, non c’è parafrasi né analisi critica che valga: bisogna leggerla, quanto meno nel passi più rappresentativi.
Il nostro orgoglio più vittorioso sarebbe di poter rapidamente trasportarci di paese in paese, liberi e leggieri, superando solamente colle nostre forze ogni distanza e ogni ostacolo. Partire alla ventura, attendere dal capriccio l’ispirazione, essere più rapidi di un cavallo senza sentirci mai stanchi, arrestarci dappertutto, su qualunque strada, e giunti non serbare alcuna preoccupazione del viaggio compito e del come ricominciarlo, ecco il sogno.
La bicicletta è così.
«Solamente colle nostre forze»: su questo tornerà insistentemente il narratore che aveva scritto No, perché ciò corrispondeva alla sua ideologia individualista (fino agli estremi più pericolosi) e libertaria, e perché la bicicletta, almeno nei limiti delle sue potenzialità, proprio questo offriva:
la bicicletta […] è una scarpa, un pattino, siete voi stessi, è il vostro piede diventato ruota, è la vostra pelle cangiata in gomma, che scivola sul terreno, allungando il vostro passo da settantacinque centimetri ad otto metri, cosicché ogni chilometro non è mai più lungo di due minuti.
Ritorneremo su quelle misure e su quelle velocità, date con qualche comprensibile eccesso. Qui si vuole enfatizzare l’orgoglio dell’uomo che non si affida ad una forza estranea, né animale né meccanica: è autosufficiente, dunque libero. E felice, almeno nell’ebbrezza della corsa:
Il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà, forse meglio di una liberazione. Andarsene ovunque, ad ogni momento, arrestandosi alla prima velleità di un capriccio, senza preoccupazioni come per un cavallo, senza servitù come in treno. La bicicletta siamo ancora noi, che vinciamo lo spazio ed il tempo; stiamo in bilico e quindi nella indecisione di un giuoco colla tranquilla sicurezza di vincere; siamo soli senza nemmeno il contatto colla terra, che le nostre ruote sfiorano appena, quasi in balia del vento, contro il quale lottiamo come un uccello. Non è il viaggio o la sua economia nel compierlo che ci soddisfà, ma la facoltà appunto d’interromperla e di mutarlo, quella poesia istintiva di una improvvisazione spensierata, mentre una forza orgogliosa ci gonfia il cuore nel sentirci cosi liberi. Domani la carrozzella automobile ci permetterà viaggi più rapidi e più lunghi, ma non saremo più né cosi liberi né cosi soli.
Autosufficienza e libertà. Ma anche altro, si diceva: evasione, ebbrezza, gioia di correre nell’aria, di ammirare il paesaggio circostante, di percepire gli odori della campagna con un’intensità nuova. Di tutti gli scrittori della bicicletta, Oriani è il solo che ne ha colto il fascino in tutti i suoi molteplici aspetti, sportivi, turistici, culturali, ludici.
C’è una dimensione su cui la critica non s’è soffermata quanto essa merita, perché è la meno appariscente. La bicicletta consentiva al «solitario del Cardello» di evadere dalla sua prigione, di tuffarsi nel vento e nel sole, di vedere gente, paesi, città, di portare i suoi muscoli a sprigionare potenzialità insospettate. È tutto vero: è quella che egli ha chiamato la «letizia di strada». Ma c’è dell’altro. C’è la scoperta di una nuova solitudine, diversa da quella del suo studio, la stessa che qualche anno più tardi Renato Serra andava cercando quando abbandonava la Malatestiana e montava in sella. Oriani ha sentito come nessun altro il fascino dell’alone di silenzio che avvolge il ciclista, un silenzio sconosciuto anche al cavaliere. Lo ha sentito e lo ha cercato, se è vero che amava uscire di notte, da solo, col fanale all’acetilene, e fare corse folli, inebrianti su per le strade di collina, dove non incontrava nessuno, o al massimo sfiorava qualche ombra silenziosa. E intanto l’aria fresca della notte gli procurava una sensazione mai provata con tanta voluttà.
Credo che anche sotto questo profilo Oriani sia il vero scopritore della bicicletta, quello che ci ha insegnato ad amarla. Anche per questo sfondo di silenzio che placa ogni inquietudine e libera l’immaginazione («le moelleux arrière-plan de silence qui pacifie», di cui parla Proust, sia pure in riferimento a più elevato soggetto). E che forse il cicloamatore di oggi apprezza più di quanto non si potesse farlo cent’anni fa perché l’automobile, e il resto, lo hanno reso più raro e prezioso.
Di tutto ciò, Oriani conosce ed esprime l’incanto, tra i primi:
Volare come un uccello, ecco il sogno; correre sulla bicicletta, ecco oggi il piacere. Si torna giovani, si diventa poeti: i fanciulli vi ammirano, le donne vi guardano. Alla mattina il fresco dell’alba pare più fresco in sella, la strada ha una bianchezza opaca, e voi passate fra un risveglio; i campi, gli alberi, le siepi, gli uccelli, i fiori, tutto si scuote, sentite l’umidore dei suoi aliti, il soffio delle loro voci, rapidamente dileguando. E il sole prorompe. Il suo primo raggio è come un urlo che scrolla la natura: la strada muta colore, i verdi cambiano, le foglie balenano, le voci ingrossano. Nel sole, che vi batte sugli occhi, le vostre idee si rischiarano; sotto la maglia, attraverso la quale passava il fresco dell’aria, i primi raggi vi forano la pelle e il sangue si riaccende.
I fanciulli ammirano, le donne guardano, ma non ammirano. Era vero allora, quando il ciclista vestiva in modo goffo; è vero anche oggi che qualche pretesa di eleganza magari l’avremmo. Il nostro pioniere dice onestamente la verità, ma si sospetta un acuto rammarico, già emerso nella lettera del ’97 («il loro sorriso non sarebbe per me»: a 45 anni!). Insiste: «Nessuna donna seguirà mai con lungo, involontario sguardo di ammirazione il ciclista ignoto, che le sfiora quasi la gonna per strada, o passa correndo sotto le sue finestre». Peccato!, sembra esclamare sconsolato l’atletico ciclista. E noi con lui, s’intende. Ma cosi è: le donne, al cavaliere della bicicletta (il ciclista «L’ultima degradazione moderna del cavaliere», farà dire ad un personaggio femminile nella tragedia Dina) preferiscono sempre quello del cavallo, sapranno ben loro perché.
Del rapporto donna-bicicletta, che avrà tanta rilevanza nella storia sociale del primo Novecento, particolarmente in Romagna, Oriani sembra cogliere solo aspetti marginali. La «profezia», di Zola, citata in apertura, relativa al ruolo della bicicletta nell’emancipazione delle donne, gli è estranea. Della donna ciclista sembra gli interessi appunto solo il momento erotico: «vestita da uomo con quell’abito da ciclista, che confonde i sessi in una prima promessa di voluttà» (Al mare, al mare!, in Ombre di occaso). Se quella era una promessa di voluttà, mi chiedo di quale promessa avrebbe parlato se avesse visto l’Anna di Porto Fuori (il lettore ignaro può pensare a Sofia nel 1955, anno più anno meno) in body e coi capelli legati a coda di cavallo al vento, come l’abbiamo vista, in un caldo meriggio, pedalare davanti a noi. Noi, dico, della razza di chi rimane a terra, annichiliti da quella mirabile visione.
Pur essendosi definito un ciclista tardigrado (per civetteria, abbiamo insinuato), Oriani tardigrado non era. Ed era tutt’altro che indifferente all’aspetto agonistico, come mostrano i racconti che descrivono gare in pista. Come mostra, soprattutto, quanto dice di sé, talora con ironia, ben rara in lui. La velocità lo attrae, che corra da solo o in compagnia. In fondo è sempre una gara, magari con se stessi.
La bicicletta è più seduttrice della donna; la sua velocità diventa una carezza, alla quale è impossibile resistere: facciamo tutti come i cavalli sotto la striglia, che paiono cedere il dorso per evitarla e invece ci si strofinano più fortemente. Vi proponete di andar piano, ma le ruote vi sfuggono cosi fra le gambe che vi accorgete di correre preso già nel vento inebbriante della corsa; una carrozza vi è davanti, un cavallo stringe dietro di voi la battuta del trotto, e allora raddoppiate di celerità; curvate leggermente la testa sul manubrio, felice come un fanciullo che scappa di scuola.
Questa storia della gara col cavallo, che a noi dice poco (ma ricordate, in certe riprese televisive dal Tour, il cavaliere che si misura coi corridori, come la carducciana leggiadra schiera di polledri con la vaporiera?), richiama in realtà, per almeno vent’anni, uno scontro quotidiano sulle strade di Romagna. Con implicazioni sociali anche, quando gli agrari ed i loro fattori, i soli a possedere un calesse ed un cavallo con qualche pretesa, frustavano il corsiero per dare la polvere ai braccianti in bicicletta, subendo quasi sempre, invece, l’onta della sconfitta. Per prendersi poi la rivincita più tardi, quando, con le automobili, il confronto diventerà del tutto sleale. Anche a questo modo, sulle strade, si è manifestata da noi la lotta di classe.
Ma non solo col cavallo si gareggia. Ci si misura con gli altri ciclisti, e si scommette con se stessi se si è soli, perché a questo induce la bicicletta, questo è il gioco. Per vincere che cosa? Nulla, naturalmente: «La corsa per la corsa, la stessa formula che la vita per la vita». L’atto gratuito, insomma, vale a dire libero, senza cause e senza fini al di fuori di se stesso. L’atto stolto per eccellenza, potete obiettare, se siete saggi. Ma attenti a non farvi sentire da «Ottone», perché tuonerebbe contro di voi e vi accuserebbe di filisteismo borghese.
Più tollerante di lui, io mi limito a fornire, a voi ragionevoli utilitaristi ed a tutti quelli che di tanto in tanto ci gridano: «Mo indò Curìv, sgrazié!» (per gli italofoni: «Ma dove correte, disgraziati!») una citazione autorevole, pur sapendo che potete ritorcerla contro di noi. Ricordate tutti quali stramberie fece sulla Sierra Morena l’eroe innamorato che in una calda mattina d’estate era uscito da un innominato villaggio della Mancha e si era avviato verso il campo di Montiel. Il saggio scudiero, muy grande hablador e impenitente razionalista, gli fece osservare, come potreste fare voi, che non aveva alcuna ragione di fare tutte quelle niñerias, visto che la divina Dulcinea non si era mai coricata con un cristiano, e tanto meno con un moro, che si sapesse. Qui sta il punto, rispose il cavaliere errante, perché di fare pazzie per una buona ragione son capaci tutti: el toque está en desatinar sin ocasión, il bello sta nel farle senza una ragione al mondo.
Chiusa questa digressione punto orianesca, debbo fornire le prove della competenza di Oriani in materia di bicicletta. C’è un capitolo del libro, il terzo, che si intitola «Gli ultimi difetti». Soprattutto in esso, ma anche nell’ottavo, sono concentrate le osservazioni critiche che fanno del nostro grande oratore un tecnico, non solo un cantore, della bicicletta. Ricostruita, con qualche incertezza a dire il vero, la storia del manufatto, dalla draisina al celerifero al velocipede al bicicletto fino alla bicicletta vera e propria (pedali, catena, cuscinetto a sfera, pneumatico: queste le componenti fondamentali, l’ultima delle quali, decisiva, era stata aggiunta nel 1889 da Dunlop), Oriani indica i punti deboli della macchina. Che sono pochi, al di fuori dei limiti congeniti alla natura stessa del mezzo, limiti che non possono essere superati.
Sono innanzitutto la vulnerabilità delle gomme, che appiedano troppo spesso il ciclista, e lo espongono, oltretutto, alla derisione degli ostili, pedoni o cavalieri che siano. Noi sappiamo che la soluzione non sarebbe venuta dall’adozione di materiali imperforabili, e questo lo sapeva anche Oriani. Egli però non poteva prevedere, cento anni fa, che un rimedio, non totale ma efficace, sarebbe venuto dall’evoluzione del manto stradale e da una serie di piccole invenzioni che, se non prevengono le forature, consentono comunque di porvi rimedio con facilità e rapidità
Poi il peso complessivo della bicicletta, che il nostro autore, pur veggente e di spirito profetico dotato (secondo l’opinione di chi avrebbe poi fatto di lui un precursore), non vede però come possa sensibilmente essere ridotto: spero che nessuno gli muova il rimprovero di non aver previsto, da Casola, le fibre di carbonio e altre diavolerie del genere, che inducono certi miei amici a cambiare la bicicletta ogni sei mesi.
Infine la sella, migliorabile, dice, perché alla lunga fa male. Noi sappiamo che è stata migliorata, ma non resa più comoda, visto che quella di Oriani era anatomica, composta di due cuscinetti con uno spazio vuoto in mezzo.
Come vedete, i punti critici della bicicletta erano stati tutti individuati. Tutti meno due, direte. È vero: Oriani ed i ciclisti della prima generazione non hanno previsto l’avvento del cambio e della ruota libera, che non per nulla tarderanno ad essere introdotti, ultime, veramente strutturali e rivoluzionarie innovazioni, perché tutte le altre verteranno su aspetti non essenziali. Non l’hanno previsto, ma hanno ben individuato il limite costituito da un solo rapporto, non modificabile durante la corsa o il viaggio, una volta prescelto. Del resto, come avrebbero potuto non denunciarlo, visto che la più modesta salita li costringeva a smontare, a ridiscendere al livello dei comuni mortali?
Giacché ci siamo, aggiungerò un paio di annotazioni tecniche, ad uso degli addetti ai lavori. Oriani non dice quale rapporto prescelse per il viaggio che vedremo. O meglio, lo dice, ma in una forma che potrebbe apparire non chiara, per noi abituati ad indicare il rapporto sulla base dei denti della moltiplica e del pignone. Questa procedura non era praticata, e sarebbe per noi di difficile comprensione, in ogni caso, perché, come sapete, le moltipliche avevano allora i denti più radi. Si adottava allora un criterio diverso, probabilmente più elementare e chiaro, perché si indicava il rapporto con un numero, non con una formula quale potrebbe essere 53 x 15. Quando Oriani scrive che aveva montato una moltiplica di 2,30, non intende indicare con quel numero lo sviluppo lineare della pedalata, che sarebbe una miseria per una bicicletta da corsa, non da passeggio, e per un atleta del suo rango. Intende indicare proprio il rapporto. Dice insomma che ad ogni giro dei pedali corrispondono 2,30 giri della ruota posteriore. E questo è il rapporto vero e proprio. Sì, si osserverà, ma come si faceva a conoscere lo sviluppo? Esattamente come facciamo noi: conoscendo la circonferenza della ruota. Che era allora, almeno per la bicicletta di Oriani conservata al «Cardello», un po’ maggiore delle nostre. Nel caso del rapporto indicato da lui, sono pervenuto alla conclusione, dopo un elementare calcolo suffragato da una prova pratica (meglio non fidarsi dell’aritmetica e della geometria), che vi corrispondeva uno sviluppo di circa sette metri. Lo anticipo perché non vorrei che qualche spocchioso ciclista avesse a dileggiare il grande «Ottone», quando tra poco dirò che si fece a piedi il Carnaio ed i Mandrioli.
«La cinta è stata davvero una buona invenzione», scrive Oriani. Cos’era mai? Ce lo spiega lui stesso: sulle prime pendenze, fra Meldola e Cusercoli, «aggancio l’anello della cinta mandatami dal giornale la “Bicicletta” per le salite»,. Serviva dunque a rendere più efficace lo sforzo in salita, legando il ciclista alla bicicletta. Il vantaggio di quell’espediente non deve essere stato indiscutibile come Oriani credeva, visto che lo sviluppo successivo della bicicletta e del ciclismo lo ha trascurato. Che poi, in anni recenti, il quartetto italiano abbia vinto il campionato mondiale sui 100 chilometri avendo adottato un cavetto che aveva la stessa funzione della cinta di Oriani (ci fu anche un ricorso, respinto peraltro), non prova nulla, perché se il vantaggio fosse indiscutibile, tutti lo avrebbero adottato. Ciò che stupisce è che nessun giornalista, che io sappia, ha ricordato allora che quell’espediente altro non era che un recupero dagli incunaboli della bicicletta, un ritorno alle origini: forse lo hanno ritenuto un particolare non degno di notizia. O più semplicemente lo ignoravano.
Sempre per gli addetti, vorrei fare qualche riflessione e fornire alcuni termini di riferimento sulla velocità che Oriani qua e là dice di praticare. Egli afferma, per esempio, che veniva a Ravenna da Casola battendo i trenta chilometri all’ora. Altrove parla di «due minuti al chilometro», poi di 1′ 40″, corrispondenti a circa 43 kmh. In piano, naturalmente. Sono valori credibili? Io dico di no, per il 1897 e per un quarantacinquenne che usava seriamente la bicicletta, ma che non aveva allenamento nel senso proprio del termine.
Una stima dei fattori che concorrono a determinare la velocità di crociera di un ciclista induce alla conclusione che tra la situazione attuale e quella di un secolo fa ci sia uno scarto di almeno il 20%, a nostro favore ovviamente. Ceteris paribus (età, forza, allenamento del ciclista), le condizioni delle strade di allora, tutte bianche, la larghezza delle gomme, la minore scorrevolezza ed il maggiore peso del mezzo non consentivano di andare oltre la soglia che abbiamo indicato. Del resto, se non possediamo dati attendibili per i cicloamatori di allora, perché non portavano ancora sul manubrio il maledetto congegno che non ti consente di farti illusioni sulla tua velocità, disponiamo però di significativi termini di riferimento.
Due giorni prima che Oriani intraprendesse il suo viaggio più lungo, vale a dire il 30 luglio 1897, il belga Maurice portava il record dell’ora a km. 39,240, dai 35,325 di Desgrange. Era un professionista, anzi il più forte del mondo su quella misura. E correva in pista, con un attrito di rotolamento inferiore di almeno il 10% a quello della strada. Negli stessi giorni, Maurice Garin, il futuro vincitore del primo Tour (a 25,283 kmh. di media), vinceva la seconda Parigi-Roubaix alla media di 28,124, superiore, sia detto per inciso, a quella con cui Binda avrebbe vinto il primo campionato del mondo su strada trent’anni più tardi, nonché a quella con la quale Lucien-Georges Mazan, meglio noto come Petit-Breton, avrebbe vinto la prima Milano-San Remo nel 1907.
Raffrontate questi valori con i corrispondenti attuali e giungerete alla conclusione che la differenza è superiore al 25%. Insomma, potete credere ad Oriani se siete disposti a credere ad un cicloturista di mezza età e poco allenato che dichiari oggi di marciare abitualmente sui 40, da solo, non in gruppo. Quanto a noi, siamo scettici. Ma anche indulgenti: riconosciamo al nostro grande antenato il diritto al su poquito de exageratión di cui s’è detto all’inizio. Tanto più che è stato lui stesso, in un momento di rara autoironia, a metterci sulla strada di una corretta interpretazione dei dati dichiarati: «arrivando mentirete forse cogli amici […]; ma quella menzogna puerile, alla quale finirete lentamente col credere voi stesso […]». Sappiamo come vanno queste cose… vogliam dire come andavano nel secolo decimo nono.
Sempre in tema di velocità, non più praticate da Oriani ma citate nel libro, è il caso di fornire un’ultima informazione, forse non priva di interesse per i miei confratelli ciclisti.
Scrive nel settimo capitolo del libro: «il recente annunzio americano della bicicletta capace di coprire collo sforzo normale un miglio inglese in un minuto e mezzo mi ha lasciato indifferente». Ammirevole freddezza! Io non sono stato in grado di controllare questa notizia, né so chi fosse l’americano cui si riferiva Oriani. So, come tutti, che il miglio inglese corrisponde a m. 1,609. Fate il conto e avrete una velocità inverosimile. Il miglio inglese fu percorso nel 1912, da Goullet, in un minuto e 51 secondi, che è cosa un po’ diversa, a parte il fatto che sono passati intanto quindici anni. E allora? Vaneggiava forse il nostro scrittore, sempre alla ricerca di formule ad effetto? Non proprio. Citava ad orecchio, come faceva spesso anche quando scriveva di storia, ed arrotondava per eccesso, perché voleva épater. Ma dimenticava di precisare che quel tempo, o un tempo di poco superiore, era stato realizzato dietro allenatore umano, vale a dire dietro tandem. In effetti, proprio nel 1897 Stocks raggiunge, sui dieci chilometri, la velocità di oltre 57 kmh., dietro allenatore umano. Un dato che rende meno stupefacente quello fornito con disinvolta imprecisione da Oriani.
Va però aggiunto, a suo discarico, che questo particolare, non proprio trascurabile, dell’allenatore, poteva allora essere sottinteso, perché le corse in pista si svolgevano dietro allenatore umano (poi verrà quello a motore, ma allora si raggiungeranno i 100 kmh., come nel caso di Paul Guignard, che il 15 settembre 1909, un mese prima della morte di Oriani, percorse nel velodromo di Monaco di Baviera ben 101,623 chilometri in un’ora). Quei tandem non partecipavano alla corsa in proprio, ma solo al servizio del corridore singolo, che veniva lasciato allo scoperto solo negli ultimi giri, per la volata finale. Naturalmente c’erano, come adesso, gare di tandem, con macchine un po’ diverse. Il romagnolo Pasini, in coppia con G.F. Tommaselli, è stato il dominatore di quelle corse, negli ultimi anni del secolo. Oriani ha descritto con grande vivacità gare di questo genere, che seguiva da competente a Faenza ed a Bologna, urlando il suo incitamento o la sua riprovazione.
Se non ha previsto taluni aspetti essenziali della futura evoluzione della bicicletta, Oriani ne ha però intuito le potenzialità, come pochi altri.
Aspettate ancora venti o trent’anni, lasciate che le strade finiscano di congiungere i paesi e avrete davvero l’intimità di tutti con tutti: non vi saranno più stranieri. […] Chi non viaggerà? E la bicicletta non ha raggiunto ancora tutta la propria bellezza, né sprigionata tutta la forza.
Sopravvalutava il ruolo della bicicletta in questa sconvolgente rivoluzione, né poteva sapere che da lì a pochi decenni essa sarebbe stata travolta dalla motorizzazione. Ma aveva capito in quale direzione si stava andando. E se pure egli va annoverato, ma soprattutto per la posteriore Rivolta ideale (si veda in particolare il cap. VI della parte I, «Trionfo e degradazione industriale»), fra i critici spiritualisti della società industriale, quindi fra i conservatori, o reazionari, non credo che si debbano sottovalutare questi suoi slanci di modernità. Quando prevede che tra non molto un padre dirà al figlio che ha appena superato gli esami di maturità: eccoti quattrocento lire: monta in bicicletta e percorri la ‘Francia nelle vacanze. Poi aggiunge: «Passano più idee per una strada in un giorno che non ne escano da una università in un secolo: cento libri non vi daranno di un popolo quella conoscenza, che vi otterrete consultandolo a viva voce in un mese», abusa delle sue solite iperboli, ma esprime una verità allora meno scontata di oggi, e percepisce in quale direzione, e con quale vertiginosa accelerazione, si sarebbe proiettato il secolo che stava per decollare.
Sotto questo profilo, le pagine della Bicicletta costituiscono l’integrazione, l’altra faccia di Giano, quella rivolta al futuro, delle pagine memorabili scritte dieci anni prima su La via Emilia (in Fino a Dogali), tutte rivolte al passato: «Quanti popoli, quanti individui, quante vicende erano passate per quella strada? Quanti mutamenti di natura intorno ad essa […]. Tutti sono passati, e secondo il proverbio di Salomone non vi hanno lasciato più traccia del fumo nell’aria, del serpente sulla pietra, della nave sul mare, dell’uomo sulla donna».
Ma torniamo a cose più umili, alla nostra bicicletta come mezzo di locomozione e di pratica sportiva. Per aggiungere ancora due annotazioni, entrambe tendenti a riconoscere ad Oriani la lungimiranza che gli va riconosciuta.
E’ esplosa anche da noi la questione delle piste ciclabili, con incomprensibile ritardo perché la Romagna è, almeno in Italia, la terra della bicicletta per antonomasia. Alla buon’ora! Era proprio necessario attendere la paralisi del traffico urbano per scoprirla, quando poi ben poco si può ormai fare? «Provatevi oggi a sostenere in un consiglio provinciale che costruendo una strada bisogna lasciarvi un margine per le biciclette: e tutti i vostri colleghi si crederanno seri non ascoltandovi». Sapete già a quale anno corrisponde quell’oggi»: 1897. Potete dunque fare il calcolo delle strade costruite in quasi un secolo, senza piste ciclabili, a Ravenna e nel ravennate, perché Oriani non faceva un’ipotesi astratta: riferiva la sua esperienza di consigliere provinciale. Proporrei di recuperare, almeno per una volta e su questa questione, l’appellativo «veggente del Cardello», di infausta memoria.
Ancora:
Dite con un medico che alla salute della nostra razza, nell’impossibilità di rinnovare in noi la passione ginnica degli antichi, la bicicletta avrà giovato più che tutte le grandi scoperte di Pasteur, e vi risponderà sorridendo che il vostro è un ragionamento da corridore, e che i mammiferi più veloci sono appunto quelli dal cervello più piccolo.
Sorvoliamo sulla «nostra razza», che appartiene al linguaggio del tempo, e sul fatto che la passione sportiva degli antichi non era poi impossibile rinnovarla, come dimostra la situazione attuale. Ciò che conta è lo spirito di affermazioni di questa natura, di cui il libro è pieno e che fanno di Oriani il più organico e rigoroso interprete della bicicletta, negli anni della sua allegra infanzia. Quanto alla risposta di quel medico, col riferimento ai mammiferi più veloci e dal cervello più piccolo, forse meriterebbe un approfondimento. Non però da parte di noi corridori, s’intende: che non avesse a rivelarsi una teoria corretta!
Nel primo paragrafo ho spezzato una lancia in favore dei ciclisti che vanno per raduni: quelli del ciambellone e del Sangiovese, per intenderci. Sono stato, anche in questo, più benevolo di Oriani. Sentite cosa scriveva in proposito:
A che pro le escursioni e le gite a branco dei clubs ciclisti, quasi sempre di domenica, annoiandosi, impolverandosi, in un solazzo [sic] di seminaristi, o per la vanità di una entrata trionfale in un villaggio? Per allargare l’uso della bicicletta? Triste pretesto: la bicicletta è troppo vera per averne bisogno e, qualora non lo fosse, tali passeggiate carnevalesche non potrebbero giovarle.
Dilettantismo, null’altro che dilettantismo. Una piccola fiera delle vanità, un motivo di esistenza per i piccoli clubs, uno sfogo infantile di pappine, di targhette, di calzoni corti, di maglie bianche, di berretti variopinti, di goffi atteggiamenti e di corpi mal costrutti.
Non sono certo che questa pagina derisoria non ci riguardi. Anche se Oriani non certo ai raduni della Ciclaza pensava, bensì quasi sicuramente al grande Olindo da Sant’Alberto, capo console del Touring di Bologna, che da una ben nota fotografia, scattata nel 1903, ancora ci sorride giulivo alla testa di un corteo di cicloturisti bolognesi. A quella foto in un recente patinato volume di quattrocento pagine dal titolo L’uomo a due ruote, che la riproduce a tutta pagina, per colmo di ironia viene apposta, vendetta postuma dell’«eroe ciclista» Pulinera, questa didascalia: «Il poeta Alfredo Oriani apre la sfilata». Lui, che poeta non era e che non sfilò mai con nessuno, né a piedi né in bicicletta, né alla testa né, tanto meno, nella coda dei cortei.
5. Sul pedale tra Romagna e Toscana (1897-1989)
Viaggiava sempre solo. Una volta, per «il primo viaggio vero della sua vita, intrapreso così senz’altro scopo che di viaggiare», aveva trovato un compagno. O meglio, credeva di averlo trovato, perché Aldo Orlandi, tornato due giorni prima dalla battaglia di Domokòs, non si presentò all’appuntamento al Caffè Orfeo, impedito dai familiari o spaventato dalla prospettiva di dover reggere da solo, per due settimane, le tirate oratorie del terribile Alfredo. Il quale non battè ciglio: attese qualche minuto, poi partì solo, con la valigia appesa alla canna della bicicletta. Sarebbe stato un viaggio memorabile, di «un migliaio di chilometri in dieci o dodici giorni» (saranno in realtà di meno, i chilometri, ma non vi dirò quanti, per la ragione che vedrete): Faenza, Forlì, Santa Sofia, Carnaio, Mandrioli, Camaldoli, La Verna, Arezzo, Siena, Pisa, Lucca, Pistoia, Collina, Porretta, Bologna, Faenza. Alla fine, un racconto, Sul pedale, che contiene pagine molto belle, un piccolo classico del cicloturismo, al punto che i ciclisti romagnoli si potrebbero dividere in due classi gerarchicamente ordinate: la prima comprendente quelli che l’hanno letto, la seconda, una vera e propria gogna, tutti gli altri.
Ha scritto una volta Renato Serra, a proposito di Ombre di occaso e più precisamente delle pagine che anche in quel libro sono dedicate al viaggiare in bicicletta:
Anche le sue [di Oriani] debolezze diventano commoventi. Fate che ei ritorni sconsolato alla propria villa, in bicicletta, quando il sogno di un viaggio al Polo col Duca è fallito! Uno spirito che voglia congedarsi in pace dallo scrittore tormentato non saprebbe scegliere momento più caro di questo: quando appoggia la bicicletta al muro della casa in cui il suo pensiero è invecchiato.
Qui invece noi sceglieremo un altro momento, non meno suggestivo, crediamo, sicuramente meno malinconico: quello in cui, con l’animo non sconsolato ma eccitato per l’avventura che sta per intraprendere, Oriani impugna il manubrio della sua «Prinetti», tira su i calzoni a mezza coscia, spinge all’indietro il berrettino e si avvia pedalando lungo la via Emilia, oltre il ponte sul Lamone. È un momento irripetibile, nel senso che egli non sarà mai più, dopo la fine del viaggio, così felice, nel cuore e negli occhi. Lo seguiremo da lontano, anche noi in bicicletta, con poche e rapide annotazioni, pertinenti più al viaggio che al racconto, se questo è possibile, visto che il viaggio è arrivato fino a noi solo attraverso il racconto.
Lo seguiremo da lontano anche nel senso che quel viaggio l’abbiamo rifatto nel 1989, certo in condizioni radicalmente mutate ma sullo stesso percorso, ricostruito sulla base delle carte stradali del tempo. L’omaggio ad Oriani ciclista, promosso dall’Ente «Casa di Oriani», l’abbiamo reso in venti cicloturisti della S.C. AVIS di Ravenna, col patrocinio dei Comuni di Ravenna, Faenza e Casola Valsenio, della Provincia e dell’APT di Ravenna, del Touring Club. L’età media dei partecipanti, assistiti da tre amici che portavano ruote di ricambio e vettovaglie (il confronto era dunque già truccato), era di 45 anni, esattamente quella di Oriani: nulla era stato lasciato al caso.
La cosiddetta 1ª Mille chilometri di Alfredo Oriani ha avuto luogo in cinque giorni, dal 21 al 25 aprile, con partenza e arrivo al «Cardello». Al termine del nostro giro eravamo ben consapevoli di aver fatto cosa estremamente divertente ma per nulla rilevante sotto il profilo sportivo, mentre il nostro antenato, lui sì, aveva compiuto un’impresa fuori del comune. E aveva fatto, soprattutto, dell’autentico cicloturismo pionieristico. Seguirlo nel suo viaggio, magari con qualche pur scontato raffronto, può avere un senso, per chi non sia indifferente all’evoluzione che in quasi cento anni hanno subito il cicloturismo ed il ciclismo amatoriale.
Oriani comincia subito, da Forlì diciamo, ad abbandonarsi alle divagazioni storiche, che se occupano piacevolmente la sua mente nel momento in cui attraversa la città sui pedali, appesantiscono invece la pagina quando, tornato alla solitudine del suo studio, impugna la penna e rivive sulla carta l’inebriante cavalcata. L’appesantiscono inutilmente, poi, perché spesso non parla di ciò che ha visto, ma di ciò che in qualche modo è legato al luogo attraversato: Melozzo, tanto per cominciare da Forlì, la vecchia metropoli di quella «Beozia italiana» che è per lui la Romagna; poi Caterina Sforza, naturalmente, di cui non ci risparmia neppure la storia del sollevamento della veste, per mostrare, madre snaturata, che non le importava più di tanto se le uccidevano i figli: «Ah, maledizione della storia cattiva, che scende dai libri mal ragionati sui gioghi dell’Appennino e sugli antichi nomi e città murate e ornate di Toscana!» (Serra).
Se tutto il viaggio fosse una rassegna di città e luoghi storici, il racconto sarebbe illeggibile. Invece c’è la campagna, ci sono gli Appennini, c’è il sole, ci sono le osterie, gli incontri, gli scambi di battute coi contadini nei campi: «Come va il grano quest’anno? E coll’uva? E i castagni?», C’è la solitudine del Carnaio e dei Mandrioli: quattro ore a piedi, sotto un sole rovente. Incontra un abbeveratoio e vi si sdraia al fresco, e s’addormenta. Poi ancora «quindici chilometri sotto un sole africano, su per un’erta serpeggiante, di una bianchezza che sfavilla»; e ancora una fontana, e ancora un abbeveratoio, «largo e lungo come una tinozza; ahimè! la tentazione è troppo forte». Ma sopraggiungono cinque ragazze, e la prospettiva del bagno nell’acqua gelida svanisce, quando già s’era levata la maglia. A mezzogiorno compra pane, formaggio, salame e vino, un fiasco («eppure in Toscana il vino è cattivo»), e mangia e beve e dorme sotto una quercia, senza chiedersi se ce la farà poi a ripartire.
Questo è, all’incirca, l’andamento della prima parte del viaggio, quella romagnola, coperta in tre giorni. Quella in cui non attraversa luoghi per lui nuovi. Nuovo è quell’andare senza un programma, senza appuntamenti, senza impegni, in solitudine, seguendo il proprio estro, come un cavaliere errante. Ma senza missioni da compiere, senza vedove ed orfani da difendere, senza giganti da abbattere. È cicloturismo autentico, disinteressato, d’evasione e di scoperta nello stesso tempo. Prima della bicicletta, nulla del genere sarebbe stato possibile: l’entusiasmo del cupo «Ottone» nei confronti delle due ruote non aveva bisogno di altre motivazioni.
E noi, come abbiamo ripercorso quelle strade, novant’anni dopo? L’accostamento è irriverente ma inevitabile, e tutto a nostro sfavore, nel senso che tutto è stato più facile e scontato. Almeno fino al Carnaio, quando il «pregno aere» da Pratomagno al gran giogo si è convertito in pioggia, poi diventata torrenziale, mista al «fummo» e al vento, sui Mandrioli, e tramutata in grandine su alla Verna, il giorno dopo.
A parte ciò, ed a parte l’asfalto invece della polvere e dei sassi, il nostro viaggio era iniziato sotto altro segno, col saluto del presidente dell’Ente «Casa di Oriani», del rappresentante del Comune di Faenza al Caffè Orfeo, e delle vecchie glorie faentine Ronconi, Ortelli, Minardi, che ci hanno scortati in bicicletta fino a Forlì, dove si sono fermati: già cotti, abbiamo detto noi per farci coraggio. Una parata, insomma, una rievocazione storica a passo sostenuto, coi più giovani che mordevano il freno (altro che cicloturismo!) ma dovevano aspettare, specialmente sulle salite, quelli nati tra le due guerre: uno in particolare, che li aveva costretti a leggersi il racconto e che andava dicendo che lui si era formato, ciclisticamente parlando, nel mitico velodromo del suo paese natale, Lavezzola, e che quindi non era tenuto, in quanto purosangue e non mulo, ad andar su per quei passi che perfino Oriani aveva valicato a piedi.
Poi la sera, a Badia Prataglia, dopo una puntata su Camaldoli (ma fatta solo da quattro, i più intrepidi: gli altri si sono rifugiati in albergo, bagnati e gelati), temendo un ammutinamento per via della pioggia, si era preparato un’«orazion picciola» per farli arrossire e per rincuorarli, modellata su quella di Ulisse, s’intende, ma soprattutto su quella con cui Nullo Baldini e Armando Armuzzi apostrofarono i braccianti ravennati che volevano abbandonare, appena giunti, le paludi di Ostia per tornare a Ravenna, nel novembre 1884 («Av cardivia da travè i què l’ustarì dla Beta? Credevate di trovare qui l’osteria della Betta?»). Ma non fu necessario pronunciarla, perché nessuno fu fellone, anche se poi s’è saputo che volevano telefonare alle mogli per farsi venire a prendere, e che non l’avevano fatto solo per un riguardo al vecchio (per paura delle mogli, in realtà, che per quei cinque giorni di libertà avevano ben’altro per la testa che andare a recuperare dei mariti bagnati).
Ma torniamo al nostro eroe, il quale, dopo il gentile episodio delle tre fanciulle che vendevano fragole lungo la salita dei Mandrioli, lasciata la Romagna sta guardando il tramonto dalle mura di Bibbiena. Domani salirà alla Verna, in pellegrinaggio francescano.
Ah! San Francesco, sono stato al vostro convento della Verna […]. La vostra carità, che fondeva in una fiamma inestinguibile tutte le anime, vi divide ora i pellegrini in classi come nelle stazioni ferroviarie […].
Adesso i vostri frati vivono alla Verna come dappertutto, senza dolore e senza pensiero.
Mi ha sempre affascinato questa lunga pagina su Francesco, con la quale Oriani presumeva di aver reso giustizia al santo meglio di quanto non avessero fatto non dico Carducci, perché questa era pretesa ragionevole, ma addirittura Sabatier e… Dante. È bella, in effetti, ma noi non siamo qui per giudicare lo storico e il saggista, bensì per seguire il ciclista. Credo che proprio il ciclista abbia raddoppiato la collera del grande moralista che ha scritto le parole sferzanti contro i fraticelli che «ingrassano della gloria» del fondatore. Aveva sofferto tutta la mattinata, sulla bicicletta ed a piedi, per salire fin lassù, e vi aveva trovato uno spettacolo che tutto poteva ricordare men che il poverello d’Assisi. L’indignazione cresce: «Non pagherò ai vostri frati il loro pranzo da bettola colla ipocrisia di una elemosina; getto tre lire nel cappello di un accattone zoppo, alla porta del primo cortile, e discendo a lunghi passi la rampa verso l’osteria, ove ho lasciato la bicicletta».
Novantadue anni dopo, l’apparato turistico non aveva l’aria di essersi indebolito, a giudicare dal numero di pullman che sostavano nel piazzale malgrado la grandine. Sono stato lì lì per chiedere ad un frate, in tutto simile ai suoi predecessori («quasi tutti giovani e quasi tuoi grassi, con delle guance da mezzina e l’occhio stagnante»), se conosceva la pagina di Oriani, e se le cose erano migliorate, da allora. Ma un mio compagno, che è un devoto e che con Francesco condivide il nome (non altro, che io sappia), mi ha dissuaso dalla grossolana provocazione.
I frati hanno guastato ad Oriani il pellegrinaggio alla Verna, ma la pioggia della notte successiva, sempre a Bibbiena, e il sole del quarto giorno, con lo spettacolo della vallata (è quella dei ruscelletti che discendon giuso in Arno, che maestro Adamo non potrà dimenticare neppure dal fondo dell’inferno), mettono le ali ai piedi e riportano la serenità nell’animo del grande turista:
La bella contrada del Casentino mi sta ancora dinanzi agli occhi come un arcipelago asserragliato da monti: colli e poggioli emergono quali isole dalla verde valle, le strade sinuose hanno il candore opaco dei canali, dalle vette lontane guatano i ruderi degli antichi castelli […]
La bicicletta vola verso Arezzo, senza bisogno della famosa cinta, che di tanto in tanto batte contro un tubo del telaio.
Arrivo in volata sono l’arco della porta, che pare un androne, la città quasi deserta nelle prime strade come un villaggio sale sempre; nella piazza del duomo incendiata dal meriggio sono solo, giacché le lastre del selciato arroventano perfino la suola troppo sottile delle mie scarpe.
Il ciclista ha fatto il suo dovere. Ora è il momento in cui deve farsi avanti il turista colto, che sa cosa c’è da vedere ad Arezzo. Eccolo infami in ammirazione davanti al duomo ed alla facciata di Santa Maria della Pieve, poi al palazzo municipale, dove sa che è conservato un ritratto di Pietro Aretino dipinto da Sebastiano del Piombo, o comunque a lui attribuito. Ma non entra: «che m’importa di quel ritratto?». Così come si sottrae alle insistenze di un vecchietto che vorrebbe mostrargli la cosiddetta casa del Petrarca, e si mette in salvo nella prima trattoria che incontra, come avrebbe fatto ogni altro cicloturista romagnolo.
E Piero della Francesca? Lo ignora, ed io a lungo gli ho tenuto il broncio per aver egli visitato Arezzo senza cercare Piero, e l’ho accusato, anche pubblicamente, nella sua patria, di essere stato un turista da facciate. Fino a quando, rifacendo il suo viaggio, sono sceso molto più in basso di lui, che almeno le facciate le aveva viste, mentre noi di Arezzo abbiamo visto solo i campanili, da lontano, perché si doveva arrivare in serata a Siena: cicloturismo culturale di oggi!
Dopo Arezzo, la Val di Chiana, col pranzo in un’osteria di Civitella, e il quasi idillio con la ragazza dagli occhi azzurri, che però non incoraggia minimamente lo strano ospite: «debbo sembrarle un mulatto incipriato dalla polvere della strada». È in questa dimensione paesana, non nelle città, che si percepisce la novità del turista in bicicletta. I ragazzi prima, gli adulti poi, si fanno attorno: «fanciulli, donne, vecchi, tutti mi circondano come il primo ciclista salito quassù». Dopo il pranzo, all’uscita dall’osteria, la scena si ripete: «Fuori mi aspetta tutta la popolazione del paese per accompagnarmi», forse fino al… cimitero».
Oriani non lo dice, ma noi sappiamo che le ore più belle del suo viaggio, quelle in cui la sua mente è più libera, più pulita, e il corpo più stanco ma vibrante e pervaso da un sorprendente senso di benessere, sono queste della solitudine dei colli e delle campagne, della corsa inebriante o affaticata sotto il sole. E sono quelle delle soste nei villaggi, nelle osterie, alle fontane. In quelle ore, la storia, le memorie patrie non lo tentano, non provocano le spesso insopportabili tirate oratorie con cui affligge anche il più benevolo dei suoi lettori.
Ma poi arriva a Montaperti, al tramonto.
Il colle è squallido, non una casa, non un filo d’erba. La strada vi sale a larghe spire senza polvere: arrivo in volata. Mi sembra di essere salito allora allora in sella, ho tirato la cinghia sino quasi agli ultimi buchi, e monto di un tale trotto che due contadini si voltano meravigliati a guardarmi.
– Guà! pare ch’ei fugga.
Invece non fugge: pensa a Farinata, alla battaglia, a Dante, alle passioni politiche di oggi, che non hanno più la potenza di quelle dei ghibellini. Tutte cose che assassinano il piacere del viaggio in bicicletta, e fanno scadere il tono della prosa che lo racconta.
Anche noi naturalmente deviamo su Montaperti, sulle orme di «Ottone». Solo che il mio esperimento, diciamo orianesco, rievocativo, finisce in vacca. Ho fatto del mio meglio, citando i cronisti, le cifre: 20.000 combattenti, 2.500-10.000 morti. Vi par cosa da poco? «E ciò fu uno martedì, a dì 4 di settembre, gli anni di Cristo 1260». Ma Arturo non si lascia infinocchiare: «Il professore ce l’ha fatta grande—ha detto il ribaldo-, ma io credo che sia stata una battaglia di tutt’altro genere. Vedete quella casa? Da lì saranno usciti due col forcone, dall’altra qualcuno con la zappa, altri col rastrello. E si son menati fino a sera. Questa è stata la battaglia di Montaperti». Ho capito subito che era stato più convincente di me, e di Giovanni Villani, e sono stato al gioco. L’Arbia colorata in rosso? Leggenda amplificata da quel mitomane che era Dante. Forse era tutto da spiegare col «Rosso d’Arbia», noto vino doc della zona, particolarmente indicato per i ciclisti. E con questi eccelsi parlari giungiamo anche noi a Siena, sempre a rispettosa distanza dal nostro grande antenato, partito con un décalage di 92 anni.
Non aveva mai visto Siena, e ne resta folgorato. Le pagine che vi dedica sono fra le più felici, anche quelle della rievocazione storica. L’intravvede da lontano, dal colle di Montaperti, biancheggiarre confusamente. Vi entra di sera:
Di notte le sue strade, le sue piazze, i suoi palagi, le sue chiese riappaiono nel sogno antico: il silenzio diviene trepido fra le ombre, si guarda incerti fra lo sbocco delle viuzze che discendono tortuosamente come sentieri […].
A quell’ora, sul Campo l’ombra oscillava mollemente, nessuna scolta guardava i cancelli neri del Palazzo, nessuna voce rompeva il silenzio […].
Un orologio suona le tre del mattino.
Anche ieri notte malgrado i cento chilometri battuti di cosi buon trotto sono rimasto lungamente alla finestra, guardando giù nel giardino e nella strada, che si inabissa e poi sale verso la spianata di San Domenico […].
Adesso invece le fontanelle della Gaia Fonte dietro e dintorno a me cantano nei bacinetti: sono lungo disteso sopra un gradino bianco, colla testa sul marmo guardando in alto; nessuno verrà a cercarmi, la piazza è deserta come il colle di Montaperti.
Le fontanelle ripetono ancora il coro della prima ora, quando Iacopo della Quercia le scoprì fra gli applausi di tutto il popolo.
Si ripensa ad una pagina dei Carnets di Camus, inedita fino a qualche anno fa, in cui lo scrittore sogna di poter rifare, a piedi, il cammino verso Siena, e di giungervi di notte, come il nostro ciclista errante:
Vorrei tornare alla fine della vita sulla strada che scende nella vallata di Sansepolcro, discenderla lentamente, camminare nella valle tra gli ulivi fragili e i lunghi cipressi e trovare in una casa dai muri spessi e dalle fresche stanze una camera nuda e una finestra da cui poter guardare la sera scendere sulla valle. […]
Ma soprattutto, soprattutto, rifare a piedi, zaino in spalla, la strada da Monte San Savino a Siena, costeggiare quella campagna d’olive e d’uve, di cui risento l’odore, attraverso quelle colline di tufo azzurrognolo che si stendono fino all’orizzonte, vedere allora sorgere Siena nel tramonto con i suoi minareti, come una Costantinopoli di perfezione, arrivarci di notte, senza denaro e solo, dormire vicino ad una fontana ed essere il primo sulla piazza del Campo in forma di palma, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande.
È penoso staccarsi da pagine di cosi alta suggestione, ma non è questo il momento di trastullarsi con la letteratura odeporica, perché dobbiamo seguire il nostro ciclista che lascia Siena e corre per la campagna in un mattino splendente d’agosto. Le gambe però lo tradiscono, come il sonno lo ha abbandonato da alcune notti:
Assolutamente la bicicletta non va: che cosa è stato? Sapete benissimo che la colpa è delle gambe pesantemente inerti sui pedali, ma si ridiventa fanciulli, si discende di sella per esaminare la catena tutta grumosa di polvere; la si unge, si ungono i perni, tutto il resto, si risale dando una spinta violenta e la bicicletta non va.
Come se non bastasse, poco più avanti, verso Poggibonsi, tre biroccie gli sbarrano la strada e una vecchia con un fascio d’erba sulle spalle lo manda a gambe all’aria. Per il ginocchio sinistro ci vuole la farmacia, con una spesa di quattro soldi; per il fermapiede, un fabbro, che gli sfila ben due lire. La prospettiva di giungere a Pisa in giornata è compromessa, anche per via del fiasco di vecchio Chianti frizzante e gagliardo, il primo vino degno di questo nome bevuto in Toscana. Arriva comunque a Certaldo, in tempo per irridere al grande certaldese che, dopo aver frustato col medesimo lazzo lo spettro della morte e il fantasma di Dio, «tornò vecchio a rabbrividire delle prime paure infantili, e nascose per morire la testa sotto il manto della religione come i bambini l’appiattano a mezzo di un racconto terribile sotto il grembiule della nonna». Ah, «Ottone», noi non vogliamo confondere la veste del priore di Valsenio col grembiule della nonna, ma se avessi previsto allora che anche il satanico autore di A Giuda di Simone da Carioth un giorno di ottobre del 1909…!
Sulla strada da Siena a Pisa in cui Oriani era stato appiedato prima dalla fatica e poi dalla vecchia, noi, nella nostra parodia di viaggio, siamo stati più fortunati. Prima però dovrei dire della nostra entrée trionfale in Siena, direttamente in bicicletta fino al Campo, in spregio a divieti che ignoravamo. Li ignorava anche il nostro accompagnatore, che s’è ritrovato in auto sotto la torre del Mangia, cosa che non si verificava da decenni, secondo il vigile che gli si è avventato contro e che, alla plausibilissima giustificazione: «Sto seguendo quei corridori», dopo un’occhiata di compatimento a noi venti già in posa per la foto, ha esclamato: «Corridori quelli! Ma mi faccia un piacere!», l’incompetente.
Dovrei anche aggiungere che, pur senza tirar fuori Provenzan Salvani, Pia de’ Tolomei e Santa Caterina, anche noi siamo stati folgorati dal miracolo del Campo, sotto il sole e sotto la luna, specie quelli che l’avevano visto solo alla televisione, per via del Palio. Ma su ciò, dopo Oriani e dopo Camus, preferisco tacere.
Mi piacerebbe invece dare una risposta all’irriguardosa insinuazione di donna Giovanna circa le giovani fanciulle dal fondo dei palchi, e raccontare per minuto cosa è accaduto alla «Grotta di Santa Caterina» prima, alla «Pensione Lea» poi, anche per sfatare la leggenda secondo la quale i ciclisti sanno solo pedalare. Ma cede la memoria a tanto oltraggio. E poi ho promesso ai miei compagni, che in fatto di figure retoriche la sanno lunga, di rifugiarmi nell’aposiopesi, nel caso avessi toccato questo aspetto del nostro viaggio. E ciò non tanto per le mogli, che sanno in quale conto tenere le nostre storie ciclistiche, quanto per il buon nome dell’ente che sponsorizzava la spedizione. Mi limito allora a dire che quella serata, come le altre, è stata all’altezza della fama di Mario, ben noto playboy della grande scuola di Godo, ingaggiato per l’occasione come addetto alle pubbliche relazioni serali e notturne.
Non posso che accennare all’irruzione in San Gimignano, tra la folla plaudente di una luminosa mattina domenicale. E sorvolo sulla sosta a Certaldo, dove, a differenza del nostro grande predecessore, non ho infierito su ser Giovanni e le sue paure senili, ma dalla gradinata di Palazzo Pretorio ho intrattenuto i miei compagni su frate Cipolla, su Masetto di Lamporecchio, che divenne ortolano di uno munistero di donne, e su Alibech, che mise il diavolo in ninferno.
Ricordo con piacere che nel primo tratto di strada fuori Siena, all’altezza di Monteriggioni, dove Oriani aveva oliato invano la catena, Siro, il nostro navigatore che portava la carta geografica sul manubrio, euforico per il primo sole dopo due giorni di pioggia, ha intonato Volta, rivolta, il canto epico degli scarriolanti romagnoli. A tutti è venuta la pelle d’oca.
Ma il momento più alto di quella tappa, ciclisticamente parlando, l’abbiamo vissuto poco dopo, e sentirete se è stato degno della disfida fra Oriani ed i quattro ciclisti fiorentini, tra Lucca e Pistoia, di cui dirò tra poco. Io ero nelle retrovie del gruppo dove, per evitare che Pilù mi sfiancasse con gli allunghi che infilava uno dopo l’altro, cercavo di distrarlo con argomenti di varia umanità. Lo avevo intrattenuto su alcuni punti della storia longobardica in Italia; gli avevo poi illustrato le deliberazioni fondamentali del congresso di Erfurt, di cui sarebbe ricorso il centenario due anni dopo; mi ero quindi assicurato la sua attenzione spiegandogli perché, per ciclisti della nostra età, la Sanseverina è molto meglio di Mathilde de La Mole. Gli stavo infine dicendo, mentre la curva dell’attenzione precipitava, che l’Immacolata Concezione non è quel che la signora Ida Magli crede che sia, quando due ciclisti toscani, che avevamo appena incrociato, sono tornati sui loro passi e ci hanno infilati con altezzosa aria di sfida. S’è udito un grido unanime: «Pilù E lui si è catapultato, li ha raggiunti, si è messo a tirare a testa bassa, «morsando», il manubrio ai 46-48 kmh. Dopo un po’ uno dei malcapitati ha chiesto: «Dove corri, Ravenna, con quel passo?» Alla minaccia: «Vi porto fino a Pisa!» si è arreso. L’altro ha tenuto duro ancora per un centinaio di metri poi si è sollevato gridando: «o bischero, fermati che sei rimasto solo!». E Pilù è tornato indietro e ci ha raggiunti sulla strada di Colle Val d’Elsa, su cui intanto noi avevamo deviato Altre provocazioni ciclistiche non vi sono state per tutto il percorso.
Più eroico di noi, che ci eravamo limitati a designare il nostro campione, «Ottone» la sfida non l’aveva trasferita su di un compagno, che peraltro non aveva. L’aveva accettata in prima persona, anche se era solo contro quattro.
L’evento, come sapete, si verificò tra Montecatini e Pistoia ed ebbe sulla salita di Serravalle il suo epilogo. Pisa e Lucca, con relative digressioni storiche ma senza episodi ciclistici degni di menzione, sono ormai alle spalle. In un’osteria di Montecatini beve con quattro ciclisti fiorentini, poi parte con loro, con l’ipocrita intesa di non alzare il passo («e invece trottiamo già da due minuti al chilometro»). Il romagnolo è il più vecchio, ma ha la bicicletta più leggera e la moltiplica più grossa. Nessuno vuole aver l’aria di lanciare sfide, ma di fatto sono in corsa:
Guida la marcia il più villano, un fabbro: al mio fianco il più elegante mi confessa subito di essere impiegato in un negozio di pannine (?) e sorride sdegnosamente del fabbro, che colla testa sul manubrio e le culatte più alte della testa comincia a perdere terreno. […]
Alla prima occhiata mi accorgo che solamente il mio primo compagno, l’elegante, è veramente agile, e non spiega ancora tutta la propria velocità rivolgendo tratto tratto il capo a guardarmi. Evidentemente egli vuole battermi e, poiché non ha forse venticinqu’anni, la pretesa è legittima.
Sarà legittima, ma l’elegante venditore di pannine ha fatto male i suoi conti, come i suoi due pronipoti con Pilù. Stanno marciando alla velocità di 1’40” per chilometro (43 kmh.!) e cosi arrivano alla salita di Serravalle, dove il fiorentino spirito bizzarro «precipita la volata staccandosi dalla sella col naso sul manubrio: è un razzo», o cosi pare ad «Ottone», che teme di non poter fare altrettanto. E invece lo fa, anche perché l’altro, imprudente e spavaldo di fronte ad un barbuto romagnolo di mezza età, ha commesso un grave errore strategico:
egli ha spiccato la volata troppo presto e troppo furiosamente; riguadagno terreno, sento già il rantolo del suo respiro, sforzo tre o quattro pedalate, lo raggiungo e mi abbino daccapo senza volerlo oltrepassare.
Sarà poi vero che non ha voluto sorpassarlo? Non sarà che anche lui era esausto e si è rifugiato nel fair play, come faccio io certi giorni, nell’ultimo tratto della salitella di Bertinoro? Comunque sia, giù il cappello, signori!: questo è ciclismo, non pacioso cicloturismo alla Stecchetti o alla Panzini.
Si vorrebbe poter continuare su questo registro, ma qui si sta facendo opera di storico ed è necessario tutto l’amore che porto alla verità per farmi proseguire fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale. Mi riferisco a quel che accadde il giorno dopo, sul Passo della Collina:
Il contadino mi ha svegliato sulla cima a pochi passi dalla locanda, ma il sollione di mezzogiorno arroventandomi così addormentato per quasi due ore su quel barroccio non mi ha nemmeno lasciato la testa pesante.
Voi avete capito come erano andate le cose, ed io non intendo far nulla per attenuare la gravità del misfatto. Aggiungo solo, a proposito del Passo della Collina, che la maggior parte dei miei compagni, giunta al bivio e non trovando il barroccio del contadino, s’è infilata nel tunnel, che ai tempi di Oriani non esisteva, ed ha evitato il peggio. Non cosi io, e Franco (il vero organizzatore della spedizione), e «Preto», l’eroe della Vuelta a España, che a Pisa mi aveva spiegato perché la pettorina della calzamaglia va sulla schiena, a dispetto del nome, e Gino, l’atleta più versatile di tutto il sistema bancario dell’ex esarcato, e «Drago», nato con me nell’anno della seconda repubblica spagnola, uomo d’acciaio, forse per via del latte di lupa che a suo tempo abbiamo succhiato, noi due soltanto, dei venti.
Omai sarà più corta mia favella…, non perché non vi sia altro da raccontare, ma perché ho già usato troppa carta e la presidente protesta. Voglio solo ricordare, dal momento che la nostra commemorazione (rivisitazione, in culturese) del viaggio di Oriani è stata un fatto turistico oltreché sportivo, un altro mio infortunio storico, dopo quello di Montaperti.
A Lucca cercavo Ilaria del Carretto, ma il primo tentativo è andato a vuoto, perché la chiesa non era quella giusta (ma intanto si son visti anche S. Michele). Raggiunto finalmente S. Martino, ho disposto il gruppo intorno al sepolcro della mirabile fanciulla, ed ho perfino strappato un os-cia! di ammirazione (non per me) quando ho ricordato che è opera di quell’Iacopo della Fonte Gaia. Sennonché una saputella stipendiata dall’Azienda di turismo, sopraggiunta proprio mentre ci stavamo allontanando, mi ha rotto le uova nel paniere dicendo ai suoi clienti a quale età era morta Ilaria: io le avevo appena regalato un anno di vita. Le occhiate ed i sorrisetti dei miei compagni sono stati la loro vendetta allegra per la figuraccia che gli avevo fatto fare il giorno prima nel «Campo dei miracoli», davanti ad uno striscione che recava una misteriosa scritta: «Museo delle sinopie».
L’ultimo giorno del nostro giro è tornata la pioggia, almeno da Marzabotto ad Imola. Ma al «Cardello» c’era il sole, la TV di stato, le autorità, molta gente. E salsiccia e Albana per tutti, dopo l’omaggio floreale al monumento ad Oriani ciclista in Casola Valsenio. Fra gli applausi generali, solo una puntura di spillo, all’uscita dal paese, ha tentato invano di sgonfiare il palloncino dell’entusiasmo. La voce di Sancho, prestata per l’occasione ad un’anziana concittadina di Oriani, ci ha detto, in un pittoresco dialetto: «Guarda ben lì! Ma perché non ve ne state a casa con le vostre mogli, le poverine?». Io non ho saputo che dire, perché una risposta convincente non l’avevo, così su due pedali. Ma uno degli ultimi l’aveva, e gliel’ha data, in ravignano: «Al savè pu no parchè, al purèn!» («Lo sappiamo ben noi perché, le poverine!»). Non ho mai saputo chi sia stato, ma se lo sapessi, non lo tradirei.
Ci siamo lasciati dandoci appuntamento al 1997, per la «Mille chilometri di Alfredo Oriani» del centenario.
Il ritorno del grande solitario, anche in ciò più serio di noi, era stato meno allegro. «Né uno spino, né una donna», aveva risposto con evidente orgoglio ad un gruppo di amici faentini incontrati a Bologna. L’accostamento è sorprendente, anche in un misogino come lui, che cercava di evitare gli spini (in bicicletta, voglio dire) ma non le donne. Ormai però l’atmosfera incantata del viaggio si stava dissolvendo. L’ombra cupa del «Cardello» era già in vista. «Arrivo solo, rientro solo, sono nuovamente solo nel mio studio. Scrivere il viaggio? Perché?»
Per nostra fortuna, quando si poneva questa domanda il viaggio era finito, ma anche il racconto era scritto. E noi restiamo incerti se ammirare di più il solitario cicloturista che quel viaggio ha fatto, o lo scrittore che, in un’ora di grazia: lo ha narrato.
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