mercoledì, Dicembre 4, 2024
Bici in RomagnaCicloturismo Letterario

Sul pedale di Alfredo Oriani

Alla fine di luglio del 1897, Alfredo Oriani partiva dal Caffè Orfeo nella piazza di Faenza per un viaggio di 1.000 chilometri tra la Romagna e la Toscana.

Domenica 30 luglio 1897. La partenza da FaenzaForlì alle spalleS.Sofia e Passo del CarnaioLa salita di MandrioleTre fanciulle offrono le fragoleIl passo di MandrioleLe mura di BibbienaIl Convento della Verna e S.FrancescoLa bella contrada del CasentinoArezzoVal di ChianaVerso SienaSopra Piazza del CampoPoggibonsi non può essere lontanoDov'è dunque Pisa?A LuccaQuattro ciclisti fiorentiniPistoiaDal valico al ritorno nello studio
Ho dovuto partir solo.
Insino a mezzogiorno avevo sperato che Orlandi, il mio giovane amico tornato l’altro ieri dalla battaglia , mi avrebbe accompagnato; egli lo desiderava anche più di me, ma secondo il solito questo desiderio tutto pieno di poesia non ha potuto realizzarsi.
Nell’ombra della seconda sala, che il caffettiere dell’Orfeo mantiene fresca per i pochi avventori del meriggio, alcuni, vedendomi in maglia e gambe nude, mi hanno salutato con mordaci ironie: me lo immaginavo; non pertanto qualche cosa ha sussultato in fondo al mio spirito. Sono partito. Le vie della città erano deserte, deserto il lungo e triste borgo che si stende oltre il ponte; nelle molte bettole si beveva già in maniche di camicia bianca, poiché era domenica e festa di non so quale Madonna.
La via Emilia mi è apparsa dinanzi larga, dritta, bianca, polverosa, il sole vi cadeva acciecante, non una bava di vento: silenzio nei campi tutti coperti di sole, giacché le ombre stavano ancora rannicchiate sotto gli alberi. Per la strada, lungo i margini, veniva qualche figura lontana.
Tiro su i calzoni a mezza coscia perché le loro pieghe non strofinino noiosamente la valigia, che riempie il telaio della bicicletta, salto in sella e do il primo colpo di pedale: andrò per Forlì a Santa Sofia, valicherò la doppia giogaia dell’Appennino al Carnaio e a Mandriole, salirò ai conventi della Verna e di Camaldoli, e poi da Poppi a Siena, da Siena a Pisa, da Pisa alla Collina, dalla Collina a Bologna e da Bologna a Faenza. Coprirò così un migliaio di chilometri in dieci o dodici giorni, viaggiando sempre come adesso sotto il sole, in maglia, colle gambe nude e il piccolo berretto rigettato sulla nuca perché i raggi mi battano bene sulla fronte e ne caccino l’ombra fredda, che vi si appiatta dentro da tanti mesi. E’ il primo viaggio vero della mia vita, intrapreso così senz’altro scopo che di viaggiare.
Quante volte ne avevo sognato da giovane!
Allora l’orgoglio mi bruciava negli occhi neri come una fiamma di faro e, alzando la testa dinanzi all’ignoto dell’avvenire, mi sentivo passare sul volto i brividi delle lontane tempeste. Adesso non è più così; l’orgoglio sta ancora dritto, ma quella speranza di vittoria, che inebriava le sue mute e teatrali provocazioni, è caduta.
Uno sparviero o una colomba entrambi feriti: l’uno vigile ancora, cogli artigli stretti sopra un ultimo ramo senza foglie; l’altra appiattata fra le erbe scure, intorno al tronco fulminato della quercia.
Ecco una rondine: mi striscia dinanzi sulla strada così rasente alla polvere che si direbbe vi cerchi qualche cosa.
* * *
Un gruppo di contadini vestiti a festa davanti alla chiesa di Villanova sbertano un vecchio mendicante:
– Perché non hai voluto prendere moglie?
– La moglie è come una siepe: fatto il buco, tutti vi passano.
E sento ancora da lungi stormire le risa intorno al Diogene rusticano.
Una impressione di fanciullo.
Mi ero lasciato alle spalle Forlì, la vecchia metropoli spirituale della Romagna poiché tutto o quasi l’ingegno concesso a questa Beozia italiana vi ha brillato. I suoi palazzi serbano ancora nella pesante architettura un orgoglio di altri tempi, la sua gente s’ingegna con assidua passione a sembrare elegante. Malgrado la mia ammirazione per il Melozzo, poco meno intensa che quella dei Goncourt per questo Leonardo romagnolo oggi risollevato nella luce della gloria, non mi sono ricordato passando davanti alla strada del museo che i due ritratti di Caterina Sforza e del duca Valentino. Quanta finezza e quale energia nelle loro teste! Quella di Caterina pare intagliata e ricorda altri ritratti di Alberto Dürer: l’altra, attribuita al Giorgione non so perché, è fosca con un berretto a cencio, che si aggronda sullo sguardo torvo e velato. E’ davvero il duca Valentino ora che quel suo ritratto della galleria Borghese, venduto al Rothschild, non è più né suo, né dipinto da Raffaello?
Forse a quest’ora il museo è aperto, nullameno resisto alla tentazione. Esco dalla barriera lasciandomi dietro l’antica città con tutte le glorie medioevali e le vanità moderne: il suo più originale tiranno ebbe una volta l’idea di ferrare i piedi di alcuni prigionieri con ferri da cavallo; la sua regina più femminile ad una intimazione di resa colla minaccia di ucciderle i figli già catturati rispose mostrando all’ambasciatore il ventre capace di partorirne altri. La grande parola romana di Agrippina al centurione, mandato per trucidarla – fere ventrem – non fu allora più altera del gesto di Caterina: adesso l’ultima vera gloria di Forlì è un tenore, Masini, che canta ancora, e per vent’anni ha tenuto tutto il mondo sospeso all’aureo filo della propria voce.
La mia impressione di fanciullo: eccola.
Appena fuori dell’ombra, che quattro filari di platani addensano sulla strada dandole una triste aria di passeggio pubblico, nello svoltare come le rotaie del tramvai verso Meldola, mi è sembrato di entrare in un altro mondo. La via Emilia mi fu sempre conosciuta, vi passai quasi ogni giorno da fanciullo, poi la mia fantasia di scolaro vi cercò troppe orme illustri, mentre ignoravo invece quella nuova strada. I primi colli si disegnano nettamente poco lungi, e il pendio insensibilmente; quindi abbasso la testa sul manubrio. L’aria non pesa più, quantunque tutti gli alberi rimangano ancora immobili ed assonnati; ma una donna mi guarda e nello scorgere le mie lunghe gambe nude sorride. Perché? Forse indovinando tale sensazione di fanciullo, mi ha involontariamente fatto quel sorriso, che le donne hanno sempre per noi, un sorriso di tenera canzonatura quando in faccia a loro ridiventiamo fanciulli.
Un usciere, che conobbi a Casola sempre ubriaco, balza indietro nel riconoscermi e vorrebbe con un gran gesto fermare la mia bicicletta: mi guardo intorno perché comincio io pure ad aver sete, ma sulla strada, per quanto l’occhio vi corra, non discerno osteria; impossibile dunque ricambiargli degnamente il saluto. Ancora poche svolte e Meldola compare su di un poggiolo ricinto da colli più alti, in mezzo ad una distesa di campi. Un avanzo di rocca la domina, ma sulle sue mura franate è cresciuta una casa moderna, vasta e non pertanto meschina. Non so perché penso ad un guerriero medioevale, catafratto, che si sia levato il morione per sostituirlo con una di quelle maschere dei nostri carnevali. Traverso il paese lungo e dritto, un po’ umido e quasi buio, per fermarmi in piazza; un vecchio, che mi riconosce per un viaggiatore e mi suppone straniero, accenna al doppio loggiato sinistro della piazza spiegandomi come un tempo comunicasse col castello di Caterina, la quale scendeva di lassù per quella loggia.
– E dove scendeva?
Egli lo ignora, però l’orgoglio della sua erudizione non ne rimane scosso. In tutti i villaggi, ovunque sorge un castello, le fantasie paesane inventano strade aeree o sotterranee, che raddoppiano l’antica gloria della potenza castellana. I posteri non potranno egualmente sognare sui ruderi delle nostre case: siamo più ragionevoli e meno grandi, più ricchi ma con un lusso più effimero.. Chiedo di un mio compagno di collegio: la domanda vecchia di trent’anni non trova risposta, e invece mi dicono che il senatore nonagenario Montanari è in paese. Qualcuno mi segue a piedi per mostrarmi il suo palazzo signorile di un carattere più classico che le sue lezioni sulla storia dell’incivilimento, eco confusa delle lezioni del Guizot, e che nell’ultimo crepuscolo del nostro risorgimento valsero a questo senatore, oggi dimenticato dalla vita e dalla morte nel fondo del proprio villaggio, l’onore di molte speranze patriottiche e di qualche persecuzione.
Adesso i contrafforti si spezzano e si ammonticchiano. La strada sale e scende, si attorciglia, si raccorcia in spirali, che mi fanno riconoscere l’errore di non aver voluto diminuire la mia moltiplica di 2,30. Non importa, aggancio l’anello della cinta mandatami dal giornale la Bicicletta per le salite e, premendo più vigorosamente sui pedali, trionfo.
La valle aumenta di bellezza, ma nei ponti, nelle case coloniche e nella cultura serba ancora il carattere romagnolo: ascolto correndo le parole che mi suonano sempre all’orecchio colla medesima asprezza dialettale. Ecco Cusercole, più bello e più piccolo di Meldola; un castello diroccato dei marchesi di Bagno, discendenti, credo, dei conti Guidi, lo minaccia ancora dall’alto, sebbene mutato in palazzo: dev’esservi lassù qualche pittura e qualche mobile prezioso, almeno così mi dissero a Meldola, ma ho giurato di non accattare impressioni artistiche, e non salirò quella breve ed aspra vetta. Invece sboccando dalla curva del ponte m’imbatto in una lunga e folta processione, che vi discende; la banda del paese suona un valzer; le donne a dieci o dodici per fila ciarlano riempiendo tutta la strada, e più lontano, in alto, scintilla dentro l’oro di una grande cornice il vetro della immagine santa.
M’appiedo e saluto: poi taglio colla bicicletta la processione, e le donne sorridono come fanciulli a scuola di questa distrazione nella solennità del rito religioso. E’ festa nel paese: dinanzi a due bettole quasi contigue i giovani più miscredenti irridono alla processione cercando con gesti ironici i propri amici fra i bandisti.
Vi è qualcuno che creda o preghi in quella processione?
Mi sono appena fatto questa domanda, che ad una finestra quasi invisibile, nell’angolo rientrante di una casa dipinta di rosso, scorgo una figura di malato coi gomiti sul davanzale e le mani in croce. E’ un vecchio giallo, calvo: non gli si vede che la camicia al collo, giacché è forse sceso di letto udendo passare la processione, ma il suo volto la segue con una così potente invocazione, che alcuni alzano come me gli occhi a guardarlo, e sorridono.
Rivedrà ancora la processione quel vecchio ammalato, che nello spasimo della paura domanda a quella Madonna, chissà come dipinta, il miracolo di qualche altro anno di vita? La Madonna è già scomparsa, mentre egli resta inginocchiato nella stessa posa, col volto teso, senza che nessuno lo guardi più.
Hanno irriso alla viltà del suo dolore, e basta: la gente non avrebbe altro da offrirgli.
Debbo salire a Civitella. La valle si restringe, il letto del fiume diventa più sassoso, mentre la corrente dell’acqua s’interrompe a pozze talvolta di un verde translucido: spesseggiano i ponti, il sole comincia a declinare, e si leva un tenue scirocco. Adesso mi pare di essere in viaggio da molti giorni: ho dimenticato Faenza, la stizza di dover partire solo, non sento più la stanchezza delle salite. La cinta è stata davvero una buona invenzione; così legato sulla sella precipito furiosamente per le discese o striscio quasi volando su per le erte ripide e brevi, dinanzi alle quali avrei dovuto appiedarmi. Nella piazza di Civitella trovo un gruppo di ciclisti: beviamo insieme qualche bicchier d’acqua imbiancata da poche gocce di anice, e in sella. La mia moltiplica di 2,30 mi assicura un vantaggio, ma non ne abuso per prudenza, perché sono tutti giovani e potrebbero con uno sforzo vigoroso distanziarmi, lasciandomi solo. Sciaguratamente a Galeata il direttore delle scuole elementari, riconoscendomi, non resiste al piacere di denunciarmi e subito il gruppo si muta in corteo; non sono più il viaggiatore ma il personaggio: alcune bottiglie di Sangiovese vecchio bevuto sulla piazza mutano quel riconoscimento in uno spettacolo; fanciulle e donne si assiepano, cosicché dobbiamo attraversare tutto il paesello a piedi.
L’Appennino, che dovrò salire domani, sbarra l’orizzonte sembrando anche più alto, in un colore fumido e violetto: la valle è finita dentro a un canale formato dai due contrafforti, attraverso il quale il fiume cessò di correre poiché il sollione gli bevve tutte le acque; anche la strada si restringe, mentre nel silenzio della sera così diverso da quello del meriggio si distende la malinconia delle grandi ombre. Molti contadini ritornano da S. Sofia, un’eco di tromba ci colpisce.
– La banda municipale! – dice trionfalmente il mio vicino: – è la migliore della vallata.
Mi rassegno anticipatamente a questa sua eccellenza ed allungo il trotto per la strada, che discende.
Luccicano i fanali, una musica monta di laggiù insino a noi come un saluto; la gente stipa l’angusta piazza, dalla quale si ascende il ponte, che divide in due il paese. La miglior locanda è dall’altra parte, abbastanza lungi dalla banda.
Avevo fame, mangiai moltissimo, e male.
Alle cinque del mattino il paese è già sveglio; l’aria fresca mi batte sul volto ancora sonnolento, mentre guardo incantato l’isoletta verde in mezzo al fiume secco, un’isoletta tutta popolata di fagiuoli rampicanti, alla quale i ragazzi probabilmente nuoteranno con delizia quando l’acqua riempie il largo letto del fiume, adesso bruno e sassoso. Un gruppo di fanciulle scende stornellando al paese da una curva molto ripida, colle braccia intrecciate, i piedi scalzi, le gonnelle e le voci respinte in alto dal vento: interrompono il canto per guardarmi saltare in sella, e lo riprendono attraversando il ponte.
Dopo un miglio l’erta diventa faticosa, l’aria è frizzante, il verde intenso: un boschetto di abeti scuote le teste esili al disopra delle prime svolte. Perché ostinarmi in sella? Forse potrei vincere la salita, ma so di avere dinanzi dieci erti chilometri e che malgrado la cinta non potrei superarli tutti.
Poi la mattina è così dolce. Alcune ginestre in fiore mi salutano, qualche uccello si posa sulla cima di un albero a guardare intorno ammirando al pari di me. Santa Sofia bianca e distesa sulle due sponde del fiume aspetta laggiù che il sole finisca di aprirle le finestre, ma egli non brilla ancora che lontano sopra un comignolo brullo, il più acuto. Ignoro se la strada mi vi debba condurre, poiché l’occhio la perde quasi ad ogni curva. Le case si fanno più rade, le fontane non sono più che un filo liquido: ne veggo una, formata da due tegoli rossi, sotto ai quali un’anfora di rame brunito attende di riempirsi a gocce. Cerco indarno cogli occhi la donna, che ve l’ha portata: tornerà forse fra due ore. E se nella sua povera casa un malato o un bambino improvvisamente invocassero un bicchier d’acqua, mentre quella fontana non può colmarlo in meno di mezz’ora? Nella lenta percossa delle sue gocce sul fondo dell’anfora mi pare d’intendere il primo pianto sonoro del giorno. Ma sulla vetta del colle la vista si allarga e il paesaggio muta; non sono più che conche e muraglioni e boschi, attraverso i quali biondeggiano ancora campicelli di grano e dai quali tintinna il campanaccio di qualche pecora. Per la strada non passa alcuno, il suo piano è cosl liscio che rimonto in sella; però l’illusione dura poco.
Non pensiamoci più.
Salirò sino alla punta del Carnaio colla bicicletta a mano: come ciclista è quasi una confessione di sconfitta, eppure la vittoria che cosa mi otterrebbe? Le cime più lontane dell’Appennino paiono avvolte in un vapore purpureo, che le tagliate dei faggi macchiano di un rosso vivo; il sole già alto illumina senz’ancora riscaldare. Come si respira bene quassù! Chi passa per questa magnifica strada dacché la ferrovia attira altrove merci e viaggiatori? I contadini, che mi guardano dai campi, non sembrano abituati a vedere molte figure come la mia con una bicicletta a mano, e non si rendono forse conto del nostro girare in tal modo, mentre sarebbe tanto comodo salire in treno. Non ho mai trovato un montanaro che comprenda in altri la passione del monte; ci giudicano degli stravaganti, costretti dalla noia del troppo lungo ozio a cercare un piacere nella fatica di viaggiare così. Il montanaro malcontento di essere povero non s’accorge d’amare i propri monti che dopo averli abbandonati per servire nella città; allora la sua prima miseria, così libera nella solitudine alpestre, gli riappare dentro un incanto di poesia, tristemente. Ne ho conosciuti molti di questi sperduti per le strade della città, e mi hanno sempre fatto pensare a quelle mosche, cui i fanciulli con ingenua crudeltà strappano ambo le ali per costringerle a dover soltanto camminare.
Finalmente incontro una biroccia carica di carbone: le sonagliere dei tre muli battono gli echi, e il carrettiere canta sdraiato in cima all’ultimo sacco nero, immemore della discesa. E’ un romagnolo e un temerario.
– Quanti chilometri ancora per giungere alla punta del Carnaio?
– Sei.
– E la strada sempre così?
– Sempre.
Mi ha creduto già stanco, mentre salgo adagio per una pigra voluttà degli occhi.
Il sole sembra accendere qualche fiammella dentro le rotaie impresse dalla pesante biroccia, dove una ghiaia minuta e cristallina rimane scoperta. Ma una noia mi sorprende a poco a poco, la salita si allunga monotona, il silenzio si aggrava, la solitudine si rattrista. Ad ogni casa che oltrepasso, è sempre lo stesso spettacolo, qualche bimbo sull’aia fra i polli, un cane annoiato che mi guarda, un uomo o una donna che si muovono adagio. Quassù il lavoro non urge come nella pianura: infatti le viti si fanno più rare e si allargano i prati, mentre non scorgo ancora che gruppetti di maiali fra poche pecore; nessuna capra dacché la legge forestale le proibì.
Ai primi di agosto su molti campicelli il grano verdeggia e su altri i covoni attendono: come verranno trasportati sull’aia? I montanari della mia valle se li caricano sulla schiena, invece veggo una specie di slitta con appena cinque o sei covoni dentro, e due vacche magre, che la trascinano su per un viottolo roccioso. Due uomini tentano col pungolo le vacche, che sbruffano.
E’ un quadro antico. Quante migliaia d’anni separano la mia bicicletta da quella slitta? Nemmeno io lo so, ma se un gruppo di viti lì presso non fosse maculato dalla poltiglia bordolese, mi crederei dentro a una vecchia scena bucolica.
Una bestemmia scoppia al disotto della strada, verso la quale ascendono penosamente altre due vacche trascinando un’altra slitta.
– Come va il grano quest’anno?
– Male.
– E coll’uva?
– Male.
– E i castagni?
– Male. Avrebbe una cicca?
Mi cavo di bocca il sigaro per darglielo, mentre un lampo d’invidia brucia nell’occhio dell’altro contadino.
– Lei va lontano?
– In Toscana.
– Non sono strade da bicicletta le nostre: qui si fatica anche per tornare a casa colle mani vuote.
Eppure è giovane, forte e non fa che salire adagio pungendo le vacche nel fianco.
– Hai fatto il soldato?
– Sì.
– Come ci stavi?
– Male, ma non stavo quì.
Certo i ricordi delle città lontane lo perseguono quassù, sotto questo cielo così sereno, in questa aria così pura. Come gli parrà lungo l’inverno dentro la stalla, al caldo e senza una cicca! Egli mi accompagna collo sguardo appoggiandosi sul pungolo come sopra una lancia, ritto e bruno, senza cappello nel sole.
Rimonto in sella perché la strada si adagia comodamente sul crinale del monte per oscurarsi poco dopo dentro un bosco di castagni. Se ne avessi il modo, farei colazione sotto queste ombre, ma secondo il solito non ho portato meco alcuna provvista. Non pertanto mi sdraio presso il lungo abbeveratoio di una fontana: essa canticchia, io fantastico. Debbo aver lasciato correre così quasi due ore, giacché mi rialzo intirizzito dall’umidore dell’erba, mentre un cavaliere barbuto sopra un alto cavallo moro passa guardandomi curiosamente: anche a me pare di riconoscerlo.
Sono alla cima; non so perché, ma speravo di vedermi davanti la bella distesa del Casentino, e invece la giogaia di Mandriole mi sbarra l’orizzonte; giù nel fondo della discesa, che precipita, vi sono San Piero e Bagno. Al trotto. Le svolte e le risvolte sono difficili, ma resterò in sella, altrimenti questo viaggio in bicicletta diviene davvero un viaggio di pedone.
Girando un angolo, sotto al quale il monte si sprofonda, un’idea mi passa attraverso come un colpo di spada: non ho il freno che alla ruota davanti e la mano vi si è già indolenzita stringendolo perché la discesa troppo ripida mi porta via i pedali. Che una bulletta o uno spino mi forino il pneumatico anteriore, e la bicicletta trabalza nell’abisso! Mi conosco troppo bene per credere di poterla frenare col contropedale o di salvarmi saltando prontamente di sella, quindi stringo nervosamente il freno guardando tratto tratto giù nel baratro.
Poi questa emozione è già diventata amara.
Se precipitassi laggiù, sarebbe davvero una disgrazia? Io stesso non oserei affermarlo malgrado i brividi, che mi agghiacciano la fronte, ma se nella caduta mi si spezzasse la testa, qual malattia sarebbe più breve e meno dolorosa? Sono talmente solo nella vita che morendo non potrei avere intorno al letto che degli estranei; meglio dunque andarsene non visto, senza la vanità di voler essere rimpianto dai vivi, e colla sola speranza di non incontrare alcuno fra i morti.
Il monte è così nudo e biancastro che la strada vi si distingue appena.
A mezzo la discesa ho dovuto per l’intorpidimento allentare le dita sull’asta del freno, mentre la bicicletta precipitava per la china lunga e dritta. Passo fulminando dinanzi ad un’aia, sulla quale un gruppo di contadine battono il grano coi correggiati: i loro cappelloni di paglia bianca ornati di lunghi nastri a colori le farebbero quasi prendere per un gruppo di signore scherzanti così nel mattino, se la polvere, che si alza pesantemente dalla paglia battuta, non cangiasse quel giuoco in una delle più penose fatiche.
Nella mia valle tale lavoro è di uomini; le donne sarebbero in questa meno amate o meglio giudicate, il che tornerebbe ancora lo stesso?
Uscendo dalla bettola, ove ho fatto colazione, una voce mi grida:
– Ma sei dunque tu, Oriani?
Riconosco il cavaliere barbuto dal cavallo moro, un antico studente napoletano che conobbi a Bologna: allora era uno dei primi e più ardenti socialisti, tutto sonante di nobili parole, adesso è medico a San Piero. La sua barba si è brizzolata. Mi sorride e mi abbraccia mentre lo guardo forse troppo fissamente.
Qualche cosa si è spento in lui.
Triste è la vita! E a te cui molti pregano
Forte dei forti e sopra i santi santo,
Sputo nel viso: vile! E la bestemmia
Tienti per guanto.
Egli mi declama improvvisamente quest’ultima strofe di un’ode, che improvvisai, saranno ora più di vent’anni, in un banchetto a Bologna, e diventò subitamente popolare. Era una saffica a rime e a bestemmie obbligate.
– Te ne ricordi! – gli dico.
– Non ne ho dimenticato una strofe.
– Sei ancora socialista?
– Sì, ma invece di credere…
– Speri?
– Nemmeno, desidero. Vieni a bere.
Nel caffè piccino ed untuoso non vi sono che tre vecchi.
Egli ricomincia a declamare la saffica, calcando sulle bestemmie finali quasi nel loro squillo gli torni un’eco della lontana gioventù. Ma come la sua faccia è stanca! Da quindici anni è medico in questo villaggio, così stretto fra i monti che al di sopra si vede appena un pezzo di cielo, senza la speranza di andarsene mai più. Usciamo perché l’ombra umida del caffè ci rattrista tutt’e due.
– E Bologna? – prorompe improvvisamente.
– Addio.
– Addio!
Egli rimane inchiodato a guardarmi, mentre fuggo sulla strada stretta e polverosa col dispiacere di aver turbato con importuni ricordi quella sua calma rassegnata di esule dalle lontane frementi pianure della vita.
Oltrepasso Bagno, altro paesello egualmente sepolto fra i monti, quasi celebre per le proprie acque termali, lungheggio il suo nuovo cimitero, il più elegante e signorile fra quanti piccoli cimiteri io abbia visto, e mentre suona mezzogiorno ad una chiesetta vicina, attacco la salita di Mandriole. Quindici chilometri sotto un sole africano, su per un’erta serpeggiante, di una bianchezza che sfavilla.
La diligenza che va da San Piero a Bibbiena, mi precede di un chilometro, non passa alcuno, i monti sono ancora selvosi. Calcolo che mi abbisogneranno quasi quattr’ore per toccare la cima, sempre colla bicicletta a mano, perché in tale incendio non immagino neppure la possibilità di rimontare in sella. Da parecchi anni, malgrado la mia abitudine di girare nel sole, non mi è capitata più lunga e bruciante ascensione; la temperatura dov’essere sui trentotto gradi e l’aria stagna. Non pertanto mi sento di buon umore: ristringo la cinta perché non m’impacci le gambe, mi scopro la fronte e salgo. A mano a mano la luce sembra purificarsi e il silenzio diventa maestoso: appaiono le prime rocce tagliate nei fianchi della strada, poi boschi di abeti ed altre rocce e prati senza una casa: appena qua e là, lontano, un fumo diafano ed azzurrino sale da una carbonaia; non un rintocco di campanaccio, non un muggito di vacca. E’ l’ora del meriggio acciecante ed inerte nella propria vampa. Solamente un falco disegna al disopra dei monti larghe e pigre ruote colle ali che sembrano incendiarsi alle punte, ma il suo strido sottile si perde nel sereno. Come appare leggero lassù! Infatti sento anch’io una leggerezza sollevarmi tratto tratto, mentre collo sguardo sfioro quasi volando ogni vetta, e il sudore mi cade dalla fronte a larghe gocce sulla strada.
Che importa? Da un pezzo non sono stato così.
Visioni di viaggi, avventure del deserto, poemi lontani di paesi lampeggianti e roventi mi passano tumultuando nella fantasia, appunto perché sono così solo colla sicurezza di non incontrare alcuno. Ho perduto di vista la diligenza: chi altri vorrebbe salire con me a Mandriole nient’altro che per la voluttà di salirvi solo sulla vampa del sollione? Eppure ero più stanco montando il Carnaio! Talora dalle rocce tagliate sprizzano raggi che mi colpiscono sulla fronte come bottoni di fuoco, poi mi batte sugli occhi improvvisamente la frescura di un folto di abeti appiattiti nelle sinuosità di un burrone, quasi neri nell’ombra che sembra salire dal fondo. Gli uccelli saranno laggiù al fresco ciarlando sommessamente o sognando nel sopore lieve della siesta. Invece le lucertole spuntando fra i sassi spiando cogli occhietti brillanti: anch’esse sono innamorate del sole e sotto la pelle che luccica e rabbrividisce vibrano voluttuosamente, guizzano, s’inerpicano per incantarsi ancora più in alto guardando.
Consulto l’orologio, non sono che le due.
Siccome la gola mi brucia dalla sete, accendo un sigaro, rimedio forse peggiore del male come quasi tutti i rimedi. La catena dell’Appennino adesso appare grandiosamente da ogni parte, creste nude o chiomate, fianchi scoscesi e deformi, che si urtano rientrando l’uno nell’altro quasi in un tumulto di tempesta subitamente pietrificata. L’uomo non vi si rivela che per la strada, senza uomini in quest’ora. Finalmente non mi ricordo più di nulla: salgo con passo rapido accarezzando tratto tratto la bicicletta con l’altra mano come se fosse un cavallo; sono libero, senza casa, senza scopo, senza vanità. Vedere e respirare come il falco che mi riappare sul capo, come le lucertole che compiono con delicata pigrizia la propria toeletta sulla punta di una scheggia, ecco tutto! Il paesaggio è troppo aspro e ardente per mettervi dentro una figura di donna: mi riconoscerebbero esse in questo momento? Potrebbero comprendere che questo meriggio di deserto ha sensazioni più superbe dei loro amori, nei quali la vampa è sempre così effimera e l’ombra così equivoca?
Se la mia voce fosse altra, canterei, ma brutta e stonata quale so di averla, non posso. Come tutto è bello! E io penso alla inutilità della nostra presenza nel mondo, che non vi aggiunge una bellezza e non vi scopre un segreto. La natura non ha miserie, distrugge rimanendo serena; l’uomo solo piange: ma quando egli pure sarà scomparso, la terra seguiterà a roteare intorno al sole ignorando come oggi il problema che le abbiamo imposto coll’immaginarla creata da Dio per noi come un teatro per l’attore.
Improvvisamente la strada si appiana attraverso una curva di prato dall’erba fitta e minuta; quasi sul ciglio superiore una grande vacca bianca rumina sdraiata. Mi fermo a guardare i suoi begli occhi immobili, mentre altre cinque o sei vacche si voltano verso di me; nessun pastore le vigila, non si vede casa ove possano riparare di notte. La loro calma è cosi profonda che mi turba come la rivelazione di un’altra anima ancora immersa nel primo stupore della creazione. Quando mi distacco infine da loro, provo il dispetto che qualche altro viaggiatore vedendole in così ammirabile gruppo voglia probabilmente riprodurlo con una di quelle macchine istantanee, senza le quali i cittadini non vanno oramai più per la campagna. Pianoforte e fotografia, voce e sembianza egualmente inanimi e che nullameno bastano a tutti dacché la natura cessò di essere divina e l’arte divenne privilegio di pochi iniziati.
– Signoria, signoria, le fragole!
– Ce ne sono ancora?
– Le fragole, signoria!
E da un boschetto precipitano sulla strada tre fanciulle tendendomi nelle mani alte i piccoli canestrini inghirlandati di edera fresca. E’ impossibile non fermarsi.
– Le mie, le mie! – seguita a strillare la più piccina, che con una agilità di lucertola è già saltata sino alla bicicletta rattenendosi all’altro corno del manubrio.
Evidentemente la mia figura di fauno moderno non le spaventa; sono tutte tre bionde, la più grande ha il viso ombrato dal solito cappellone di paglia gialla, le altre due si sono lasciate spettinare dagli spini, cosicché il loro visetto appare come dentro una matassa ingarbugliata di seta.
– Come ti chiami?
– Maria.
– Teresina.
– Tudetta.
– Ma ci sono ancora delle fragole in agosto?
– Prenda le mie – ripete tirando il manubrio Maria, la più piccolina.
Allora indietreggio fino all’ombra di un faggio, che sporge sulla strada, ed appoggiando la bicicletta nel fosso, mi abbandono sopra un mucchio di ghiaia.
– Siete sorelle?
– No – risponde la più grande, Teresina, che mi guarda sempre e diventa a poco a poco contegnosa.
– Forse è già sui tredici anni.
– E che cosa costano tutti tre i canestri? sentiamo, sono quasi della stessa grandezza: dove abitate?
Teresina ha un gesto vago, che valica la cima donde sono discese, ma credo di comprendere che in questa stagione non fanno se non raccogliere fragole spiando sulla strada il passaggio di una carrozza o di qualche viaggiatore per venderle.
Intanto le tre piccole grazie si consultano con gli sguardi.
– Ci dia dieci soldi l’uno.
– Accettato.
Do loro i dieci soldi e prendo i canestri; dalle mani cosi cariche mi sale su pel viso un dolce profumo di primavera, le fragole minute e rotonde sono di un rosso opaco, simili a gocce di sangue rappreso. E come i canestri sono eleganti e l’edera bene intrecciata!
Ho sete e fame: come bere, come mangiare quelle fragole senza pane?
Le tre venditrici seguitano a ricantare i soldi nel mezzo della strada, sotto il sole: il loro volto è contento, poi mi sbirciano tratto tratto indecise, finalmente Maria ritorna verso di me.
– Ci renderà i canestri?
– Senza dubbio. Che ne farei, bella mia? vuoi mangiare con me?
– Non mi piacciono; ne mangio tutto il giorno.
La grande Teresina sorride a questa risposta.
– E voi?
– Grazie, signoria.
– Ma non posso mangiarle tutte da solo.
Infatti la terza manciata stenta ad andar giù: la gola mi si è impiastricciata, ho le mani rosse come un beccaio, mentre il sudore mi scende in rivoli dalla fronte.
Poi succede un imbarazzo; esse si accorgono che non mangerò tutte le fragole e non capiscono come possa portarle meco. Teresina ha gli occhi bianchi, grandi che veggono già, perché tratto tratto sente il bisogno di velarli dietro le palpebre con uno sbattimento, che è quasi un sorriso.
Ma siccome ho fame e sete, finisco il primo canestro rinnovando loro indarno l’invito di aiutarmi.
– C’è una fonte qui vicino?
– No, signoria: la fonte c’è magnifica a Mandriole.
– Quanto mi abbisognerà ancora per giungervi?
– Almeno un’ora.
Mi alzo e restituisco tutti e tre i canestri, ma Tudetta ricevendolo vuoto mi guarda incerta: un dolore d’ingiustizia le contrae la piccola bocca.
– Grazie, signoria – si affrettano a rispondere Teresina e Maria tirandola per la gonnella, mentre riafferro la bicicletta.
– Che hai? le chiedo vedendo che sta quasi per piangere.
Ma siccome la voce mi trema forse un po’, le altre due fuggono festevolmente quasi dal pericolo che mi abbia a pentire e a riprendere le fragole, balzano sul ciglio superiore della strada e di là guatano, pronte a dileguare nel bosco. La piccola Maria trema tutta di un grande sorriso.
– Eccotene altri dieci.
E i soldi tintinnano battendo nel fondo del canestro senza che ella si rischiari: forse la mia generosità turba come un prodigio di favola la sua immaginazione bambina; me ne vado e nel passare davanti alle altre due m’accorgo che non ridono più.
– Addio, Teresina.
– Buon viaggio – risponde freddamente.
La sua voce non è più quella: io non sono già più il viaggiatore, al quale essa spera di vendere ancora le fragole, e Tudetta cala al disotto della strada pel prato certamente verso casa.
Sono alla cima.
– La fontana? – chiedo ad un ragazzino guercio dinanzi alla casa, che deve essere l’osteria di Mandriole.
– Lì – e mi accenna un sentiero, che si svia dalla strada tra magnifici faggi.
La fontana ha una bocca di colubrina e un getto impetuoso, che si rompe dentro un abbeveratoio largo e lungo come una tinozza; ahimè! la tentazione è troppo forte. Appoggio la bicicletta ad un albero, mi sfibbio la cinta e sollevo già la maglia, quando un gruppo di voci femminili stridulo come un ciarlottio di uccelli mi arresta.
Mi volto. Cinque o sei signorine vestite di giallo, di bianco, di rosso, tutta una festa di colori e di risà, irrompe sul sentiero: ho appena il tempo di ricompormi prima che indovinino il mio pensiero di prendere un bagno dentro quella tinozza, sotto quel getto di un’acqua diaccia da spaccare i bicchieri.
Eppure sarebbe stato così voluttuoso!
Esse mi guardano sospese, io mi rimetto la cinta, bevo lungamente colla bocca sull’arco raggiante dell’acqua, che mi spruzza con una violenza di sabbia sul viso, e tutto grondante dalla barba passo loro dinanzi a testa bassa.
Non sono belle, ma lo fossero pure, il loro più lusinghevole sorriso non varrebbe il bagno, che mi hanno vietato.
Come passano il tempo villeggiando quassù a mille e duecento metri? Non ho visto alcun giovinetto; sarebbero tutte sorelle, una famiglia sola?
Malgrado la fame rimonto in sella. Ecco la valle del Casentino, la punta della Verna, a sinistra vi deve essere il bosco di Camaldoli: scorgo Badia Prataglia, un gruppo di case, tra le quali spicca già una villa moderna, forse un albergo. Le prime giravolte sono ripide, poi si addolciscono e la bicicletta scende quasi a volo. M’accorgo d’aver guadagnato in sicurezza e velocità; il paesaggio è più allegro, il sole meno torrido, la discesa sembra allungarsi capricciosamente, quasi per il piacere di attardarsi accarezzando ogni curva, passando dinanzi ad ogni casa. Un immenso abete sbucciato, tutto bianco, un albero che dovrà forse reggere una grande vela sul mare, mi sbarra quasi il passo ad una svolta: quattro cavalli lo trascinano su quattro piccole ruote massiccie, che cigolano mentre i carrettieri schioccano le fruste.
– Via! – mi urlano dietro allegramente.
Sotto Badia Prataglia, all’uscio di una nuova casa, veggo un signore calvo in marsina e cravatta bianca, mio Dio! – Pensione Britannica. – Ho capito: anche quassù vi è della gente che vuole pranzare in abito nero, ma quel cameriere probabilmente si annoia come i suoi padroni incapaci di smettere l’etichetta anche tra i faggi, per timore di non sembrare più i padroni ai pochi villani di questi monti. Nessuna signora, qualche villa azzimata, verniciata, colle punte dorate al cancello, colle siepi tosate d’intorno e il giardino rotto ad aiuole. La civiltà sale i monti, ma il suo lusso non vi fa che una macchia. Da una griglia socchiusa esce colle note di un pianoforte la frase di una canzone di Tosti, l’ormai vecchio canarino delle signore.
Ecco una bettola, mi fermo.
Vi è del vino, del pane, del formaggio e del salame; il doppio di quanto basta. Esco subito col fiasco in una mano e il resto nell’altra per sdraiarmi poco lungi sotto un castagno gigantesco, al piede del quale sta seduto un vecchio straccione.
L’ostessa, una donna segaligna, con dei lunghi denti gialli, lo investe subito:
– Possibile che tu non possa andare altrove!
Ma egli si volta appena.
– Chi è? – le domando.
– Un mezzo matto, il più orribile bestemmiatore: ma è una vera persecuzione che debba sempre venire qui.
Poi insiste per recarmi un tavolino e una sedia, mentre io mi corico appunto presso il vecchio e lo invito a merendare con me.
I suoi abiti cadono a pezzi. Ha i capelli lunghi, che gli sfuggono alle orecchie da un berrettone di lana, e il viso rugoso seminato di rari peli bianchi. Deve aver molto sofferto perché sotto quella sua miseria si sente la disperata indifferenza di chi non lotta più. Accetta da bere senz’accorgersi che spingo l’intrepidezza sino a porgergli il mio stesso bicchiere, malgrado il colore dei suoi baffi.
E a poco a poco, vicino a lui, anch’io ridivento triste.
– Tu bestemmi dunque assai? – gli domando ad alta voce, vedendo appunto ritornare l’ostessa.
– Pregate voi, signoria?
La sua risposta è stata pronta, ma la sua voce semispenta di vecchio mi è sembrata uno di quegli echi, ai quali talvolta crederemmo di udire un altro gemito tremare lontanamente.
– Chi dovrei pregare?
– Signoria, non lo ecciti.
Infatti un raggio come di lucignolo morente gli batte dentro gli occhi.
– Bisogna pregare la gente che perdoni a Cristo di averci tutti ingannati colle sue promesse.
– E’ pazzo, signoria, non ci badi: egli bestemmia sempre così.
Un contadino si è fermato in quel momento all’uscio della bettola, ed ella ha dovuto rientrare.
– Veda – mi diceva poco dopo mentre la pagavo sul piccolo banco lercio: – bisogna confessare che è stato molto disgraziato, l’ultimo figlio gli è morto…
Ed avrebbe seguitato, se non le voltavo bruscamente le spalle per non udire la spiegazione di quella bestemmia degna di un santo.
Guardavo il tramonto dalle mura di Bibbiena.
La vasta pianura è recinta da altri colli lussureggianti di verzura, che ondulano pigramente e si aprono a conche romite, in seni tortuosi, dai quali tratto tratto biancheggiano paeselli. Grosse nuvole di un turchino intenso, cogli orli frangiati d’oro, si abbassano adagio pel cielo terso, mentre da lungi altre ancora più scure salgono rapidamente dietro i monti, come spinte da una bufera. Di fronte Poppi sopra un poggio convesso ed isolato come quello di Bibbiena, Soci distesa alle sue falde, a sinistra un’oscurità di bosco oltre il quale si nasconde Camaldoli, l’antico convento di San Romualdo, oggi, mi si dice, profanato da una venerea cintura di grandi alberghi moderni, a destra l’aspra vetta della Verna nereggiante di faggi, che intesero forse le preghiere di San Francesco. E intorno a Bibbiena campi di viti e di ulivi, e giù nella valle una mollezza melanconica in quel primo rossore di tramonto. Forse domani pioverà; l’aria palpita di un soffio sommesso. A lunghe file i paesani risalgono il poggio e per le spaccature degli antichi muraglioni guernite di rampe rientrano nelle vie strette della cittaduzza, mentre gruppi di bambini mi ruzzano fra i piedi e torme di rondini mi sfuggono stridendo sul capo. Laggiù scintilla ancora ad una svolta l’acqua cheta dell’Arno.
Così piccola, Bibbiena è una città: le sue strade, i suoi palazzi, la sua piazza vasta, spianata sulla cima del poggio, quasi sempre deserta, hanno un carattere signorile, che si cercherebbe indarno nelle più grosse città di Romagna; ma la gente mite diventa servile verso il forestiere, nel quale crede sempre di vedere un signore.
– Di chi è questo palazzo? – domando all’oste sulla porta.
– Palazzo Dovizi.
– Del cardinale?
– Chi cardinale?
Il palazzo nero, bramantesco, ha sofferto più che la gloria del cardinale oggi sconosciuto anche all’oste, che sta di contro alla finestra forse della sua camera. Pensò egli la Calandra in questo palazzo, allora senza dubbio tutto sonoro di valletti, di artisti e di cortigiani? Qualche erudito lo saprà certamente, stimando di sapere una cosa ben importante: io ricordo appena di aver letto quella stupida commedia, che soltanto una platea di cardinali intorno ad un papa potevano rendere ammirabile di sfrontatezza.
L’oste ha ragione: chi era dunque il cardinale di Bibbiena?
Appena rientrato nella mia camera, un canto fresco, trillante mi tocca l’orecchio, s’acqueta, poi ricomincia sopra note acute che sprizzano come da un gorgheggio spegnendosi tosto; vero canto di calandra alta sulle stoppie nel tramonto.
Esco in punta di piedi nel corridoio già buio e vi sorprendo nel fondo, dentro un bugigattolo, la servetta intenta a lustrare un paio di scarpe. Deve essere una contadinella venuta da poco a servire in città.
Vedendomi s’interruppe vergognosa.
– Si può cenare adesso?
– Vado subito, signore.
– Perché non seguitate a cantare?
– Oh, signore!
A tavola invece mi serve un’altra ragazza, che passa tutti gl’inverni a Firenze e non torna a Bibbiena che nell’estate, ma quegl’inverni le sono passati sul volto logorandone la fisionomia come un marciapiede. Sa muoversi e parlare, mentre l’altra ha ancora sul viso la prima freschezza del mattino, quando le foglie scintillano umide e dalla terra appena desta salgono profumi e canti.
Ah! San Francesco, sono stato al vostro convento della Verna, che non so più qual conte vi permise di costruire fra le spaccature delle rocce e il mistero di una foresta vergine: allora non vi si annidavano che fiere e banditi, oggi è una bettola rinfiancata da una chiesa e da un ospizio, nel quale si pranza gratis col sottinteso di pagare per scotto una più abbondante elemosina. La vostra carità, che fondeva in una fiamma inestinguibile tutte le anime, vi divide ora i pellegrini in classi come nelle stazioni ferroviarie; ho visto i più poveri sdraiati nel primo cortile di pietra quasi cani al sole, e ho dovuto sopportare sulla loggia del refettorio gli sguardi esperti del frate, che mi ha giudicato degno della prima classe malgrado la sciatteria del mio abito di ciclista. Eppure anch’egli si era ingannato, giacchè nel momento che un vecchio cameriere laico portava la terrina bianca della minestra, è venuto a battere sulla spalla di un giovanotto meglio vestito di me, ordinandogli di passare in seconda classe.
Nessuno di noi ha protestato, non si è parlato di Voi.
Dalle pareti ci guardavano cinque o sei ritratti di frati vostri dalla faccia pensosa, immobili in un gesto di predicatori; noi occupavamo appena due angoli della grande tavola, ma avevamo troppa fame per saziarci anche con quel pranzo di prima classe. Ci hanno servito la metà di un vecchio sandalo a lesso, e, dopo, la metà della sua metà in un guazzetto di prezzemolo e pomodoro. Io avevo accanto un pretino, ancora fresco della prima messa, salito sino al vostro convento, come le allodole, con le ali umide di rugiada, schizzano dai prati verso il sole, appena i suoi raggi incendiano l’azzurro del cielo. Ma non mangiava quasi mai, ascoltando spaurito il racconto di una sbornia, che due signori allungavano nelle minuzie di ogni particolare.
Nessuno di noi si è segnato prima di sedere a tavola, non una parola santa è discesa sul nostro cibo riunendoci davvero nella dolce ed effimera fraternità dell’ospizio. Siamo rimasti freddi, stranieri l’un l’altro, perché Voi eravate assente. Il vostro convento è vuoto come il sepolcro di Cristo, la vostra ombra non oscura più la fronte di uno solo fra i vostri frati. Se poteste vederli oggi!
– Sono cento – mi ha detto con piglio soldatesco il padre guardiano, ma non ne ho veduti forse che la metà, quasi tutti giovani e quasi tutti grassi, con delle guance da mezzina e l’occhio stagnante: i loro sai di una mondezza accurata parevano nuovi, la corda di lana sui loro fianchi non aveva ai nodi uno sfilaccio. Quale indicibile tristezza dunque li trasse quassù, dove un tempo vi rifugiaste a nascondere le estasi del vostro dolore nella cecità di una grotta, fra il ruggito delle bufere, che schiumavano la selva selvaggia? Voi amavate il dolore ancora più che l’amore. Come bacche rosse fra gli spini i vostri pensieri fiorivano di sangue; il vostro orecchio, che percepiva da lontano il fruscio degli angeli battenti le ali verso la terra, tremava al gemito delle cose, mentre dai vostri occhi bagnati di pianto l’anima pura come quella di Cristo guardava benedicendo. Eravate salito così alto che la vita non avrebbe potuto ancora ascendere, e l’amore stesso non era più che la sua consolazione meno caduca e un alimento troppo greve. La redenzione di Cristo non aveva infatti che raddoppiato il dolore umano apprendendo a tutte le anime la nostalgia del cielo: dopo la sua morte nessuna vita rimase intera e nessun amore fu senza disperazione in questo mondo, che la sua promessa aveva dimezzato. Lo volle egli? Certo voi intendeste così: soffrire quindi per soffrire, dacché il soffrire era inevitabile, trovando nella sua più inesprimibile intensità il trionfo di quella contraddizione, che Cristo aveva significato sulla croce.
Egli aveva attraversato il dolore come una prova, e voi lo accettaste come una festa; egli aveva amato tutti gli uomini, e voi amaste tutte le cose, perché anch’esse soffrono, perché anche la pietra ha dei gemiti e il mare dei singhiozzi. Soffrire sino alla morte che chiamaste sorella, soffrire come la legna che si contorce per diventare fiamma, soffrire in tutta la carne per liberare lo spirito che vi è prigioniero, ecco la vostra redenzione, o nuovo Messia della miseria, veramente Figlio dell’Uomo.
Da Dante, che suggerì a San Tommaso il vostro elogio in paradiso, a Carducci, che vi cantò morto forse nel più bello dei propri sonetti, tutti i poeti furono quindi tocchi dalla vostra fiamma; poi vennero gli eruditi a confrontare l’orma dei vostri sandali e i filosofi a disegnare l’orbita del vostro cammino. Ma più la doglia universale diventava profonda e più dalla vostra magra figura di affamato traspariva una luce siderale; il vostro sorriso posto come un sigillo sopra la bocca, che aveva inghiottito tutte le amarezze, significò il trionfo di tutti i vinti, e fu il solo silenzio davanti al quale s’interrompessero le domande disperate del pensiero. Come colui che trionfa della sete ubbriacandosi, voi avevate divorato ingordamente il dolore cantandone tratto tratto la purità di alimento e la forza rigeneratrice, che ci rende finalmente degni della morte. Che importava tutto il resto?
Il nostro corpo era un sudario incollato sulla nostra anima, che bisognava strappare prima della morte per presentire l’altra vita, della quale gli effluvi divini potevano passare solamente attraverso le sue lacerazioni. Quindi in un’epoca insanguinata da tutte le violenze dei padroni e dei servi voi solo vi spogliaste per insegnare la sicurezza, e predicaste la fame del dolore a quelli che soffrivano già tutte le fami, mentre da presso e da lungì i vostri frati trionfavano d’ogni pericolo coll’umile indifferenza del sacrificio, o perivano nel martirio come nel preludio di una festa. Così la vostra redenzione soccorse a quella di Cristo, col quale il popolo finì di confondervi amalgamando aneddoti e miracoli in un incantesimo di mito, che la nostra scienza non sa intendere perché non potrebbe più rifiorire dalla nostra coscienza.
Adesso i vostri frati vivono alla Verna come dappertutto, senza dolore e senza pensiero: vi hanno messo nel primo cortile sopra un plinto in atto di abbracciare Cristo, che spenzola dalla croce quasi ravvolto, non so perché, in un pesante mantello. Il monumento è ancora più brutto che piccolo, ma fu un dono del papa, e una iscrizione pomposa lo dice. Non più voi, bensì Leone XIII è il santo orgoglio del vostro convento. La sua chiesa allegra ed insignificante somiglia al tutte le chiese moderne: il vostro santuario delle Stimmate non ho voluto vederlo, perché il frate che mi guidava, ne cominciò la spiegazione ad altri quattro signori sotto la tettoia degli affreschi, nei quali dovrebbe essere raffigurata la vostra vita. Ah! I vostri frati sono più tristi dei commentatori di Dante, giacché volendo vivere dei vostri miracoli li storpiano ancora peggio che quelli non fecero coi versi del divino poeta, il primo ad intendervi. Appena fuori della chiesa ho sfiancato nel bosco. Gli alberi ne sono enormi, ma la selva selvaggia è diventata un bosco inglese con viali ghiaiati, i muriccioli, i ponticelli che preparano le vedute attenuandone l’orrore nativo; sotto gli alberi i prati sorridono lindi, laggiù tra il vano di due faggi appare l’orto a discriminature, pieno di erbe grasse, poiché le stalle del convento abbondano di concimi. Il puzzo delle mucche mi arriva da lontano: scopro una segheria e un magazzino di assi meravigliosamente alte e larghe, un commercio dei vostri frati, che abbattono gli alberi più belli per venderli a più alto prezzo.
Ritorno indietro e dove comincia l’erta, nel mezzo di un largo viale sopra un palo di ghisa, in una pagina di ferro, è inciso un articolo del codice penale contro coloro che osassero svellere un solo virgulto nella foresta. I bandi municipali affidano alla educazione dei cittadini le piante dei giardini pubblici; quassù nel vostro nome, San Francesco, si minaccia la prigione a chi stacchi da un vecchio tronco di larice un pezzo di buccia nella fede, che voi poteste averla toccata. Non vado oltre. So della foresta d’abeti più in alto, che strappò a Foscolo l’ingenuo grido: ah, se fossi pittore!; so del Masso spicco, che si protende orizzontale sull’abisso; so della Penna, ultima cima orlata di una ringhiera, come una terrazza d’albergo, perché le signore possano sicuramente fremere guardando dalla sua altezza. Certo il bosco sarà bello, ma non è più il vostro bosco.
E rientro in chiesa.
E’ vuota. Un gruppo di donne sonnecchiano sotto l’atrio sdraiate contro il muro nella più stanca inconsapevolezza di ogni atteggiamento; in mezzo a loro una vecchietta rosicchia ancora un tozzo di pane. La chiesa echeggia del mio passo: mi fermo dinanzi alla prima grande maiolica di Luca della Robbia, inginocchiandomi finalmente dopo tanti anni. Il miracolo si è compito; io che odiavo le maioliche sono stato toccato dalla grazia, e i miei occhi si sono finalmente dissigillati alla rivelazione di un’arte nuova. Quale divino artista questo figulo, che poté chiudere i propri quadri dentro l’incorruttibilità della silice! Come nella Annunciazione ha saputo significare l’immacolata rigidezza della vergine, e nella Madonna inginocchiata fra gli apostoli l’inconsolabile dolore della madre! Come le teste dei suoi angeli volanti intorno a Dio padre, che benedice dall’alto il presepe, esprimono tutte le grazie della tenerezza e dell’allegria!
Quell’artista era degno di voi, ma i suoi quadri dovrebbero essere tutti nel vostro tempio di Assisi.
Esco. Non pagherò ai vostri frati il loro pranzo da bettola colla ipocrisia di u`na elemosina; getto tre lire nel cappello di un accattone zoppo, alla porta del primo cortile, e discendo a lunghi passi la rampa verso l’osteria, ove ho lasciato la bicicletta. Mi hanno detto che la terra intorno appartiene tutta al convento, anche l’osteria, anche i campi, sui quali i contadini falciano il grano. Passo vicino all’orto; il sole abbrucia, ma un vento blando solleva in alto dalla foresta del vostro convento un murmure di acque. Bel convento senza dubbio, magnifica stazione estiva! Involontariamente penso ad una monta di stalloni, verso la quale salgono nitrendo e sorridendo cavalle e signore; ma incontro subito dopo un biroccino tirato penosamente da un asino, giacché dentro vi stanno una vecchia e una bambina ammalata.
Sono infelici, che ascendono verso di voi a domandarti qualche grazia, perché non sanno che voi amavate il dolore e vi sareste rallegrato del loro. Chi vi conosce più? Mentre appoggiato al manubrio della bicicletta guardo l’immenso paesaggio, una battuta di zoccoli sulla pietra della strada mi fa rivolgere il capo, e veggo un fraticello, che cala precipitosamente rigettandosi ogni tanto con gesto allegro i due capi della bianca bisaccia dietro la schiena.
Ecco il puledro: la sua tonsura mi fa l’effetto di una criniera tosata, la sua tonaca mi pare una coperta di scuderia. Come è allegro, come i sandali gli battono sulla strada nell’impeto malfrenato di un salto! Lo avranno mandato alla questua, appunto perché su questi monti è adesso la stagione del ricolto, e passa contando nella mente i giorni vagabondi sopra un ritmo di canzone, che gli scintilla dagli occhi. Avventurato, che entrerà nelle case a ricevere dalle mani delle donne il dono per voi, sublime affamato, che mangiavate per ultimo quando nessuno vi guardava più! Almeno gli occhi delle donne non forino la sua tonaca, imprimendogli sulle carni ben altre stimmate delle vostre, le quali durarono due anni!
Allora voi sentiste così vivamente i dolori delle piaghe di Cristo che queste si apersero nelle vostre carni, lasciandone cadere il sangue a grosse gocce. Chi oggi sente più il vostro? A chi vi rivolgereste ora? I vostri frati ingrassano della vostra gloria, i vostri devoti non vi domandano che di allontanare da essi il dolore, al quale chiamavate tutto il mondo come alla prima pasqua di resurrezione. Ma forse oggi il dolore è diventato cosi profondo, che il vostro sguardo stesso si turberebbe scandagliandolo: voi lo ascendevate come una scala appoggiata al pensiero di Dio, oggi invece il dolore è ateo e non contempla più che se stesso. Come la redenzione di Cristo, anche la vostra non ha più redenti, perché le spiegazioni di un altro mondo non bastano più a giustificare i mali di questo. Come ai vostri tempi, una doglia senza tregua travaglia le viscere della vita, e un’altra rivolta prorompe contro tutte le autorità superando tutti i pericoli col negare loro ogni importanza. Ma i nuovi eroi sono tetri, non credono, odiano e uccidono per suicidarsi. Eppure sono i soli, che rinnegandovi potessero intendervi, perché la loro incredulità non è che la disperazione della vostra fede, il loro odio uno spasimo del vostro amore, la morte che danno e che ricevono un olocausto come il vostro al dolore umano. Essi rifanno ora la via dei vostri primi compagni predicando la fratellanza al disopra di ogni egoismo: liberi e nomadi come i vostri frati denunciano tutte le vanità della politica e le infamie della ricchezza, negano la patria per amore dell’umanità e combattono Dio per carità dell’uomo, che nessuna redenzione fin qui ha nemmeno potuto rendere eguale cogli uomini.
Fra questi sinistri amanti della morte, e i vostri frati cosi felici della vita, a chi rivolgereste voi oggi, tornando, la prima parola?
Questa notte la pioggia ha battuto lungamente sui vetri della mia finestra, ma il sole è già tornato con più radiosa violenza, e veggo laggiù nella pianura il fumo alzarsi sulle strade per lunghe striscie di una mollezza e di una trasparenza incantevoli. Fra un’ora la polvere rasciutta striderà sotto la gomma della mia bicicletta come un canto di cicala. Bibbiena non ha ancora finito di sbadigliare, qualche finestra seguita ad aprirsi ed appare una testa scarmigliata di donna dal volto bianco: le servette guizzano per le strade, le botteghe si azzimano. Perché andrei a Camaldoli? Sotto la sua foresta non s’incontrano che signore e signori vestiti come per una passeggiata a Villa Borghese; forse il fresco della piova notturna avrà permesso a qualche dama la gioia suprema di uscire incappucciata stringendo l’elegante figura nelle pieghe di un grosso mantello. Non la turbiamo; la mia maglia di ciclista e le mie gambe nude, spellate dal sole, potrebbero farla dubitare della rigidezza mattinale smagando una illusione chissà quanto attesa.
Mi hanno detto che le vie per Siena sono buone, oltre cento chilometri e due contrafforti da valicare, ma gli avvisi s’imbrogliano perché le strade sono parecchie, e ognuno ne vanta una per la migliore. Siccome non ho voluto prendere meco nemmeno la guida del Touring-Club per meglio andare alla ventura, ascolto senza decidermi.
Sono partito.
La bella contrada del Casentino mi sta ancora dinanzi agli occhi come un arcipelago asserragliato da monti: colli e poggiuoli emergono quali isole dalla verde valle, le strade sinuose hanno il candore opaco dei canali; dalle vette lontane guatano i ruderi degli antichi castelli, e più in alto, al disopra delle loro minacce, salgono ancora dagli eremi le stesse preghiere di un tempo. Vallombrosa, Camaldoli, la Verna, mirabile trinità di monti, dai quali il genio di tre santi brillò lungamente di luce ausiliatrice a pellegrini di ogni dolore e di ogni gente. Nel castello di Romena Dante scrisse il canto di Francesca da Rimini, nella torre di Porciano rimase, secondo le leggende, prigioniero dopo la battaglia di Campaldino: Guido Monaco trovò l’alfabeto della musica nell’eremo di Camaldoli, Milton chiese al romitorio di San Gualberto il più bel paesaggio del Paradiso Perduto, Lapo preparò al proprio figlio Arnolfo nel palazzo pretorio di Poppi il modello per costruire l’altro della Signoria a Firenze: a Bibbiena ove nacque il Berni, del quale la giocondità fu così vuota, vi è il palazzo municipale di Chiusi ove nacque Michelangelo, lo scultore più tragico di tutti i tempi; Luca della Robbia errò per ville e castella lasciandovi come un divino sconosciuto i più inconsumabili capolavori della bellezza, ma la valle ha un incanto che vince ogni altra parola.
La mia bicicletta vola.
Non aggancio nemmeno la cinta, della quale l’anello batte a quando a quando sopra un tubo del telaio traendone una nota sottile; la campagna è fresca, la strada deserta.
Come tutte le città di Toscana anche Arezzo si è ritirata sopra un colle, e sulla vetta vi ha costruito il duomo. Arrivo in volata sotto l’arco della porta, che pare un androne; la città, quasi deserta nelle prime strade come un villaggio, sale sempre; nella piazza del duomo incendiata dal meriggio sono solo, giacché le lastre del selciato arroventano perfino la suola troppo sottile delle mie scarpe.
Il duomo ha chiuso tutte le proprie porte; giro a caso: – Qui nacque Guido Monaco – e sotto è incisa la scala musicale. Quale poeta dettò questa bella iscrizione? Ah! una chiesa anche più bella, arrugginita dal tempo, con tre logge una sopra l’altra, lievi, quasi aeree, di un’eleganza ben più fine che non le più delicate strofe del Petrarca, il prodigioso poeta di Arezzo, che non sono mai riuscito a leggere intero. Colpa mia senza dubbio. E’ Santa Maria della Pieve, chiusa anch’essa come il duomo. Come si chiamava dunque l’architetto che costruì la sua facciata? Non lo so: il suo nome sarà certo nelle guide, ma dovrebbe essere scolpito nella memoria di tutti daccanto a quello dei più illustri poeti dell’architettura.
Dietro a Santa Maria della Pieve è una piazza Vasari, un orologio e una loggia sua, che qualcuno riconoscendomi per viaggiatore vuole cortesemente mostrarmi; ma la loggia è brutta come gli Uffizi di Firenze, come tutto quanto so del Vasari. Aspetto già che il mio ignoto interlocutore, un vecchietto forbito come un bacile da caffè e con una voce altrettanto gradevole, proponga di accompagnarmi a vedere la casa del Petrarca, perché una qualche casa sopravvive sempre ad un grand’uomo e diventa poi la sua casa nella fanciullesca vanità del pubblico; ma ricordo ancora l’uggia di quel giorno, quando da Abano altri signori e signore, dolenti come me d’una qualche giuntura, vollero condurmi ad Arquà nella casa, ove si addormentò per sempre il vecchio poeta. Vi conservano ancora, venerata reliquia, in una cassetta di vetro, lo scheletro di una gatta, che avrebbe dovuto esser sua.
Perché non un gatto?
Ma l’istinto poetico della gente ha voluto femminile anche l’ultimo amore del cantore di Laura, la quale fu certo assai femmina, se deve credersi al numero dei figli regalati da lei al marito.
Faccio un inchino e mi salvo nella prima trattoria di buon aspetto.
So che nel palazzo municipale si conserva un ritratto di Pietro Aretino dipinto da Sebastiano del Piombo, il pittore tanto amato da Balzac, che di pittura non s’intendeva troppo meglio di me; forse una bell’opera, di un fascino che cresce ogni giorno coll’alluvie dei giornali. Magnifico capitano di ventura questo aretino, il quale poté manovrare le calunnie come Alberico da Barbiano le proprie compagnie di fanti, vendendo la guerra e la pace ai più grandi signori prima ancora che la stampa fosse diventata un’arma! Ma Sebastiano del Piombo sarà stato così profondo artista da significare sulla sua faccia tutta la sua anima, dalla quale i lombrichi schizzavano come da una cloaca, e i falchi si lanciavano a volo come da una rupe?
Non andrò a vederlo: che m’importa di quel ritratto?
Anche l’arte è una bugia: qual più trionfale Ditirambo che quello del Redi? Eppure in Toscana il vino è cattivo. Ne incolpano, è vero, l’annata, ma non bevvi mai acquerugiola acidula, purpurea, insipida come in questa traversata.
Che cosa spremono in questo vino, che pure negli anni buoni ha così poco sapore e calore? La gloria dei liquidi è dunque falsa come quella degli uomini? A Torino qual liquore più celebre del Vermouth, e quale scrittore più venerato del D’Azeglio? A Milano quale amaro più famoso del Fernet, e quale architetto più vantato del Mengoni? Modena si gloria egualmente del Lambrusco e di Paolo Ferrari, un vino spumante per troppi acidi, un commediografo troppo greve per difetto di spirito: a Roma invece il vino è buono e i poeti cattivi; il primo monumento è toccato a Metastasio, il secondo a Cossa.
– Oste, una foglietta!—mi vien voglia di gridare, come quando ero studente a Roma, e Metastasio e Cossa non vi avevano ancora il monumento.
Nell’uscire d’Arezzo ne veggo un terzo, quello di Guido Monaco: una grossa testa di sagrestano, che emerge da una coperta imbottita.
Ecco Val di Chiana: ai tempi di Dante era una palude, ora è un paradiso.
Incontro due buoi dalle corna piccine, belli, candidi, enormi: buon presagio. La via larga, bianca, dritta, piana, si perde lontanamente, lontanamente.
Dopo otto o nove chilometri giungo al trivio indicatomi: potrei proseguire per la vasta pianura verso Sinalunga ed Asciano, su questa strada di un’ampiezza imperiale, ancora senza polvere malgrado l’arsura della stagione, ma il giogo selvoso di Civitella tenta daccapo il mio istinto montanaro. Di qua sotto si scorgono i muraglioni neri di un castello forse ancora intatto. Svolto per una viuzza, che sale serpeggiando fra rampe di olivi e di vigne verso un querceto: poi altri campi di olivi sostenuti da muretti gialli, mentre la terra è quasi purpurea e gli ulivi potati sapientemente vi disegnano appena un’ombra rada. Non vidi mai campi più rossi; il grigio degli ulivi vi diventa argenteo e il verde delle viti più bruno.
Poiché l’ora è torrida, non scopro contadini, le case stesse paiono disabitate; né stoppie, né prati artificiali. Che cosa seminano dunque? Appena affronto il clivo di Civitella, tutto scuro di quercie e di ginepri, due voci giovanili, una sotto e l’altra sopra la strada, mi gittano sulla testa un arco di stornelli.
Fiorin d’acacia.
Faceo le viste di chiamare il micio.
E ti gettavo di nascosto un bacio.
E di rimando:
Fiorin di pepe.
Io giro intorno a te siccome l’ape.
Gira dintorno ai fiori della siepe.
Ascolto appiedato, con ambo le mani sul manubrio, in mezzo alla strada, ma due risate fresche come zampilli d’acqua rompono quell’arco melodioso. La statura di granatiere, coi calzoni rimboccati a mezza coscia, la faccia e le gambe di un colore di bronzo sudicio mi hanno reso ridicolo.
Guardo intorno tra la macchia, poi alcuni colpi secchi mi spiegano la scena: sono fanciulle che scrollano a colpi di bastone i ginepri raccogliendone le bacche dentro un vaglio, mestiere praticato anche sopra i miei monti, che rende le mani aspre e profuma inebbriantemente la persona. Quelle bacche da Livorno vanno sul mare a Londra per diventarvi il più incendiario dei liquori per la plebe più tetramente ubbriacona del mondo; ma un altro stornello mi cade addosso come un colpo di bastone sulla cima di un ginepro:
Fior di patata.
Chi sparagna la bestia alla salita.
Trov’altri colla moglie a far nottata.
Piccolo guaio per me scapolo questa minaccia, che alla vanità femminile pare sempre terribile: bada, t’ingannerò con un altro! Come se di un ventre di donna si dovesse sentite maggior gelosia che di un sedile pubblico. Ma il guaio vero è che quasi tutti sono gelosi, quantunque ragione ed esperienza ammaestrino, che l’amore della donna fu sempre mobile perché passivo.
All’uscire dal bosco la strada si attorce per nuovi campi di ulivi sino al piccolo cimitero, che sbarra il viale del paese: due file di cipressi neri vi formano evidentemente il solo passeggio pubblico, e paiono di una solennità anche più malinconica al disopra di tutti quegli ulivi. Quassù i vivi amano dunque tanto i morti, che il cimitero sia la meta più vicina di tutte le loro passeggiate?
Arrivo trafelato sbigottendo una torma di bambini, che ruzzano sul selciato.
– La piazza?
– Lassù.
E mi indicano una rampa ripida come una muraglia. Spero di trovare finalmente una bettola, ma la piazza, una spianata non più vasta di un cortile, non ha che un pozzo nel centro colle pareti di legno, senza catena e senza secchio. I bambini mi hanno seguito; guardo intorno e non veggo nulla: poi qualcuno sbuca dalle porte; altri fanciulli, donne, vecchi, tutti mi circondano come il primo ciclista salito lassù. E finalmente mi dicono che l’osteria è sotto, in fondo all’unica strada del paese, presso la porta.
Ridiscendo la rampa accerchiato da un corteo, che ingrossa sempre; i fanciulli afferrano la bicicletta, altri mi precedono e bussano già ad una casina senza alcuna insegna; spunta una bella testa bionda, che rinchiude precipitosamente le imposte, e poco dopo riappare all’uscio.
La scala è così angusta che non vi si può far salire la bicicletta: allora un beccaio mi offre come rimessa la sua bottega vicina, ma tra l’ombra e il puzzo che ne esce, discerno appena la metà di una vecchia vescica di grasso.
Poiché non v’è altra macelleria in paese, vi si deve mangiare benissimo.
La ragazza bionda chiude l’uscio dietro di me, mentre tutta la popolazione rimane al sole sotto la finestra, ostinata a vedermi uscire. La casetta non pare una bettola; veggo un’altra ragazza, evidentemente sua sorella, e la mamma che si alza dalla scranna, sulla quale agucchia, per salutarmi con un sorriso incantevole d’intimità.
E’ il primo che ricevo non so da quanto tempo.
Mi conducono in un camerino; la mamma esce subito, mentre una ragazza leva dalla credenziera un bariletto rosso coi bicchieri, e l’altra rientra con una boccia bianca piena di vino nero. Il quale è quasi buono.
– Restate dunque – dico vedendo che se ne vanno.
Ma ne resta una sola, la bionda: o mi inganno o le due sorelle si odiano, perché si sono intese tosto, e l’altra è uscita barattando uno sguardo vivido e freddo. La temperatura di quello stanzino è così fresca che improvvisamente una mollezza mi vince, le gambe mi si distendono lasse per tutta la loro lunghezza.
– Se vuole sdraiarsi sul sofà? – ella mi dice intrepidamente senza un riguardo alla sua coperta di percalle rosso, ma il sofà è così stretto, coi piedini talmente gracili, che resisto al pericolo di romperlo.
Ella ricusa di bere meco; certo io debbo sembrarle un mulatto incipriato dalla polvere della strada, mentre ella invece mi appare di un candore e di una bianchezza luminosa dentro l’ombra tranquilla di quel camerino, nel quale vi è posto appena per un gesto.
– Debbo andare a Siena.
– Allora le restano ancora quaranta miglia: io ci sono stata. Scusi, e di dove viene?
– Da Faenza.
Mi accorgo che la mia patria le è sconosciuta, quindi mi correggo con una bugia:
– Da Bologna.
– Oh! – ella esclama con una deliziosa moina; – tanto lontano! Si fermi dunque.
– Sono già seduto, voi invece siete ancora in piedi.
Non siede; io guardo l’uscio aperto perché ella stessa vi ha guardato.
– Non volete proprio bere con me?
– Vado a riempirle ancora la boccia.
– No, berrei troppo senza levarmi la sete: basta guardare i vostri occhi per ubbriacarsi.
Un lampo infatti si accende nel loro azzurro facendo tremare tutta l’ombra dello stanzino, ma non sono riuscito a portare meco lì dentro il sole, che mi ha infiammato il sangue per tutta la strada, giacché quelle magnifiche carni di bionda rimangono sempre cosi bianche. Tuttavia mi pare che un odore le esca dai capelli e passandomi sul volto vi si rapprenda col sudore. Le sue gonnelle mi sfiorano un ginocchio nudo. All’improvviso mi sorprende una di quelle stanchezze da ciclista così tentatrici: o pernottare quassù o partire subito perché ignoro la strada e Siena è ancora lontana. Chi mi aspetta a Siena? Perché non resterei?
Cosi in piedi non mi sono ancora deciso.
– Debbo portarle altro vino? – ella mi domanda tirandosi indietro d’un passo.
– No, grazie.
L’ombra e il freddo di quello stanzino mi hanno fatto quasi male; la mamma si alza ancora dalla cucina per ripetermi lo stesso sorriso d’intimità, l’altra ragazza mi guarda partire con due grandi occhi contenti, mentre la bionda si ferma vicino a loro senza voltarsi.
Adesso sono sicuro che si odiano, e mi pento di non essere rimasto.
Fuori mi aspetta tutta la popolazione del paese per accompagnarmi forse sino al cimitero, ma salto in sella malgrado il selciato tutto a lastre rotte e sfuggo in mezzo agli urli allegri dei ragazzi, che m’inseguono per pochi passi.
– Per Siena?
– A sinistra – mi risponde il cantoniere. – Svolti al colle di Montaperti, quattro chilometri di salita.
Il colle è squallido, non una casa, non un filo d’erba. La strada vi sale a larghe spire senza polvere: arrivo in volata. Mi sembra di essere salito allora allora in sella, ho tirato la cinghia sino quasi agli ultimi buchi, e monto di un tale trotto che due contadini si voltano meravigliati a guardarmi.
– Guà! pare ch’ei fugga.
Invece non penso che a Farinata degli Uberti, il vincitore della piccola battaglia diventata così grande pel poema di Dante. Il ritratto, che del fiero capitano vidi in una sala del Bargello, mi parve quello di un salumaio dell’epoca, una faccia grossa, un torso tozzo, con un berretto in capo e un casaccone sulle spalle: non ricordo altro. In questo colle arido come Gelboè, la sua figura mi riappare tutta chiusa nell’armi, colla visiera alzata, minacciando nel furore del silenzio. Quelle battaglie composte di tanti duelli dovevano essere ben più terribili delle nostre carneficine, nelle quali si uccide e si muore ravvolti nel fumo e nell’anonimo, senza odiare il nemico e non sapendo spesso il perché della guerra. Allora la battaglia era la festa di un odio, che rifiammeggiava trasfigurando la morte stessa: il nemico era colui che ti aveva cacciato in bando, bruciate le case, uccisi i congiunti, violata forse una sorella o la moglie: era il padrone del tuo comune, l’usurpatore della tua signoria.
Farinata parve magnanimo perché dopo la vittoria ricusò di distruggere Firenze, magnanimità di soldato che serba un cavallo per farsene una cavalcatura: magnanimo invece lo rese Dante, di lui forse più fiero ghibellino, prestandogli dentro quel sepolcro rovente una risposta anche più rovente di odio partigiano:
E se, continuando il primo detto,
S’elli han quell’arte, disse, male appresa,
Ciò mi tormenta più di questo letto.
Oggi nessuno odia più così; le passioni, che una volta resistevano anche all’inferno, s’acquetano e s’acquattano nella nostra vita colla duttilità viscida dei lumaconi.
Dante e Farinata, poeta e capitano, forse entrambi deputati di Firenze scaglierebbero adesso dal proprio banco qualche ingiuria al ministero per riscattarsi dalla umiliazione dell’ultimo accattonaggio elettorale.
Giungo sulla cima di Montaperti appunto nel momento che l’ultimo raggio di sole se ne ritrae: laggiù Siena biancheggia confusamente; il colle arido e squallido anche su questo versante sembra come rotto dalle acque.
Uno stormo di allodole trilla alto sull’ali.
Mezzanotte era suonata da un pezzo.
Per le vie strette e sinuose i fanali rossastri rompevano duramente le ombre della notte in alto così serena e stellata. Non passava più alcuno, ma quel sogno mi saliva sempre dall’anima come uno spettacolo, che mi si dilatasse lentamente dinanzi agli occhi.
Era Siena antica, colle vie senza lampioni, silenziosa sotto l’orgoglio dei patagi ancora frementi del suo tumulto quotidiano fra le guerre e le perfidie della grande epoca ghibellina. I suoi centomila partigiani, adesso ridotti ad un quarto, ed assopiti nell’immemore placidezza dell’ozio provinciale, vibravano allora di superbia regale ad ogni minaccia contro la loro repubblica fieramente campata sulla tricuspide dei propri colli, dalla quale l’esile torre del Mangia saliva come l’asta del suo gonfalone. La vita era una guerra: sopra tutti i poggi vegliava un castello, in ogni palagio della città si annidava una fazione, gli ospiti erano fuorusciti, gli alleati sempre infidi, le conquiste più incerte dopo la vittoria che prima della battaglia. La città, repubblica o signoria, formava contro il mondo una patria violata spesso come una vergine troppo ritrosa, battuta come una moglie infedele, adorata come una madre, della quale si è gelosi senza pietà ed alteri sino all’insulto.
L’odio di Siena era Firenze; questa sdraiata sulla doppia sponda dell’Arno, quella seduta fra i monti, appena coll’Arbia al piede, un torrentello che il sangue di ogni scaramuccia bastava a colorare in rosso; Siena non poteva diventare ricca perché le mancavano le pianure e il fiume e il mare, ma seppe essere forte e volle diventare bella come la rivale, cui doveva soggiacere lentamente. Oggi ancora non è mutata. Di notte le sue strade, le sue piazze, i suoi Palagi, le sue chiese riappaiono nel sogno antico: il silenzio diviene trepido fra le sue ombre, si guarda incerti allo sbocco delle viuzze che discendono tortuosamente come sentieri, si rimane perplessi dinanzi ai suoi androni aperti nei fianchi neri di una casa, della quale le finestre hanno un’eleganza di cornice biancheggiante d’intarsi: non una carrozza rotola sordamente sui lastroni, non una bottega fiammeggia ancora dalle proprie vetrine. Dentro quei palazzi, che paiono tagliati da un orafo nel vivo di una roccia, debbono vigilare ancora i fantasmi di un tempo, perché la nostra vita non poté imprimersi sulle loro pietre; i loro portoni custodiscono anche adesso qualche segreto, dietro le vetrate delle finestre, sulle quali tremolano i sorrisi delle stelle, si mormorano forse parole perigliose; qualche dama insonne spia, qualche signore aspetta cupamente ascoltando nel pensiero gli ordini implacabili della propria congiura. Il tumulto di un’ora può essere sufficiente al trionfo: poca mano di armati asserragliando le strade basterà a mutare la sua reggia di privato in una fortezza; le prime bande, che sbocchino nel Campo, a cacciare di Palazzo i Priori.
Il Campo, che non poté nemmeno oggi assumere il nome di piazza, rimaneva sempre aperto a ogni impeto, e fioriva di sangue tutti gli anni. La vezzosa originalità del suo disegno, che lo farebbe supporre creato per l’incanto di una festa, era ancora una contraddizione di quell’epoca che metteva una bellezza dappertutto, anche dove il dolore era più disperato e la realtà più sconcia. E’ una piazza e pare una conchiglia: a piedi della torre del Mangia, l’automa che vi batteva le ore, una piccola cappella annerita dal tempo vi fu trasportata forse dagli angeli, così lieve è la sua grazia, e vi rimase miracolo maggiore a testimone di altro miracolo; palazzi merlati guardano superbamente al Palazzo pubblico anche più altero, e in alto, sull’orlo della conchiglia, canta il coro delle fontanelle dentro il recinto della Gaia Fonte.
A quell’ora, sul Campo l’ombra oscillava mollemente, nessuna scolta guardava i cancelli neri del Palazzo, nessuna voce rompeva il silenzio da lungi o da presso. Come la piazza di Venezia, il Campo era stato spesso alla repubblica parlamento e sala di festa nei giorni gloriosi, quando ambasciatori venivano a chiedere alleanza, o i gonfaloni tornavano insanguinati dalla vittoria; nel suo mezzo Provenzano Salvani, il grande capitano senese che vinse con Farinata degli Uberti la giornata di Montaperti, distese magnanimo il proprio mantello e chiese ai cittadini come premio l’elemosina di 10.000 fiorini d’oro per il riscatto del suo amico Vigna, prigioniero del re Carlo I di Puglia. E l’altero « si condusse a tremar per ogni vena » nello sforzo di questa umiltà, che noi non sappiamo nemmeno più intendere. Il nostro spirito si turba indarno dinanzi alla memoria di quel tempo, nel quale la fede fiammeggiava fra la passione, e la bellezza era la prima necessità di ogni linguaggio.
Dal ricamato mantello del cavaliere alla clamide di marmo gettata su tutti i palazzi e le chiese, la bellezza doveva essere la prima fisonomia delle cose e delle persone: i mercanti si ergevano Logge decorate come un tempio, il popolo si costituiva nel Duomo la propria epopea. Come i poeti dell’epopea gli architetti vi rimanevano spesso ignoti, mentre l’unità primitiva del loro disegno si frangeva a mano a mano negli episodi devoti delle cappelle, dentro la lirica improvvisata dei miracoli. Le città e le castello suddite contribuivano con uguale passione al capolavoro, che significava la loro unione, e nel quale ogni più ritrosa originalità dell’ingegno veniva a sottomettersi senz’altra mercede che la comunione della bellezza creata, e la superbia di avere sconfitto nella grande opera qualche altra repubblica. Cosi il duomo di Siena poté vincere quello di Firenze, e un artista incomparabile, l’ultimo dei grandi forse, vi distese sul pavimento il proprio genio, sprezzante che i piedi delle turbe adoratrici potessero poi logorare i quadri incisi dal suo stilo. Perché tutto doveva essere divino, in quel tempio, al quale il popolo portò osannando la grande tavola di Duccio, mentre le campane suonavano a distesa e un singhiozzo d’orgoglio scuoteva le anime inebriate dal trionfo della fede. Oggi il tempio non è più che bello: la nostra incredulità vi cerca curiosamente i prodigi dell’ingegno come dentro un museo, senza più sentirne l’armonia e penetrarne lo spirito: la bellezza ci distrae, invece di raccogliere ed elevare i nostri sentimenti; storia e critica separano e sezionano in noi le visioni dei grandi artisti, morti, mentre una specie di paura colpisce la nostra dotta ignoranza dinanzi al mistero della loro creazione. Noi non sentiamo più Dio; la nostra democrazia non ha più quell’unità morale, donde uscivano i grandi simboli e le grandi opere: coloro, che fra noi pregano ancora, hanno bisogno di tagliarsi nell’immenso Duomo una cappella e non sanno ornarla che di oro; la ricchezza è la sola nostra offerta, dacché la volgare anima moderna non domanda nemmeno più alle immagini sante di essere belle.
Usciamo dunque dal tempio noi che non potremmo trovarvi Dio, benché forse vi sia ancora ravvolto nelle ombre e parli nelle preghiere, che le cose belle innalzano verso di lui: già l’importanza dell’uomo vi ha scemato il rispetto divino coprendo di un tavolato il sublime pavimento del Beccafumi. Povero grande artista, che non lo avresti mai supposto, quando maggior poeta dei tuoi rivali e più alto credente fra i fedeli gettavi sotto i piedi della moltitudine le immagini del tuo pensiero colla semplicità di un bambino, che spoglia i vasi della mamma per sfogliarne i fiori sotto l’altarino, alzato nell’andito oscuro della casa! Ti ammiriamo troppo per comprenderti abbastanza, oggi che si mettono i caloriferi nelle chiese perché le orazioni non raggelino sulle labbra dipinte delle dame, o la voce del predicatore non si appanni nella predica indarno verbosa.
Ma la fede allora brillava di uguale splendore sui culmini del genio e nel cuore della moltitudine, che si riconosceva negli eroi e nei santi, nel canto dei poeti e nelle figure dei pittori. Al palagio del signore, cosI spesso teatro delle più cupe tragedie, tutta la città aveva del pari contribuito perché anche quello doveva esprimere la sua gloria, e durare forse più di essa. Ecco come noi moderni non abbiamo più che case composte di appartamenti l’uno sull’altro coll’unica legge dell’economia, senza miglior lusso che di un arredo personale. Nessuna nobiltà può venire a noi dalla abitazione o dai mobili che la riempiono: il pensiero degli avi non ci guarda più dalle pareti, la casa non è come una volta più antica e maggiore di noi. Siamo nomadi anche nelle città, la nostra immensa ricchezza ignora l’orgoglio della durata e non domanda più né al tempo né all’arte la consacrazione. La Banca d’Italia e il Monte dei Paschi occupano ora a Siena due palazzi di un pregio assai maggiore che non tutti i milioni rotolanti per le loro scale: il governo ha messo non so che cosa nel palazzo Piccolomini, una reggia nera, tetramente muta, anche di giorno, quando tutte le finestre ne sono aperte. Dal suo portone uscì Ottavio Piccolomini, il nemico di Vallenstein, per precipitare dentro una lubrica tragedia italiana il massiccio eroe tedesco. Ho cercato sotto il palazzo Tolomei la finestra, alla quale deve aver sospirato la Pia, e sotto la quale anche Dante si sarà arrestato forse di notte come me, sognando di quella mite precipitata da un’altra finestra di un castello maremmano; mi sono fermato a lungo sulla piazza alta del Duomo a guardare quel frammento diruto, che doveva raddoppiarne la mole, e anche adesso è più bello di tutto il tempio. Non si vede che un’immensa finestra incorniciata di marmo bianco, sostenuta da colonnine, trapunta di ricami, così lieve che il vento avrebbe già dovuto portarla seco, e che aperta nel cielo vi segna al pensiero una via.
Tale rimase perché gli architetti d’allora non la giudicarono abbastanza ben costrutto per piegare sovra di essa la navata: incantevole errore, se qualche invidioso non lo inventò, che mi ricorda l’inno di Foscolo alle Grazie, incompiuto anch’esso e appunto per questo più divino fra l’oscurità delle sue lacune come tutte le rivelazioni.
Un orologio suona le tre del mattino.
Anche ieri notte malgrado i cento chilometri battuti di così buon trotto sono rimasto lungamente alla finestra, guardando giù nel giardino e nella strada, che si inabissa e poi sale verso la spianata di San Domenico, una chiesa cupamente religiosa, di una sola navata, colle pareti nude e i finestroni alti e stretti come feritoie. La notte era quieta come questa, un profumo di rose saliva dal giardino col canto di un usignolo.
Una strofe giapponese dice: « L’usignolo ha pregato tutta la notte sotto la rosa, ma essa non ha potuto rattenere le proprie foglie, che sono cadute a una a una ».
Adesso invece le fontanelle della Gaia Fonte dietro e dintorno a me cantano sui bacinetti: sono lungo disteso sopra un gradino bianco, colla testa sul marmo guardando in alto; nessuno verrà a cercarmi; la piazza è deserta come il colle di Montaperti.
Dove dormono dunque i poveri in questa canicola, poiché a nessuno di essi è venuta la mia idea?
Eppure Santa Caterina, la sola divinità di Siena, dai quindici ai diciott’anni dormi anch’essa sulla pietra col cilicio sulle reni e una corona di spini sotto il cappuccio. Il sangue di veggente le bruciava forse troppo le vene per consentirle il letto di ogni donna, o come tutte le grandi anime aveva anch’ella sete di dolore e martirizzava la propria giovinezza per renderla padrona della vita. Adesso hanno fatto un tempio della sua casa, ma il più grande miracolo della santa mi è apparso appunto nell’averlo permesso: quant’oro, quanti fregi per la sua anima, che si mostrò sempre nuda nella tirannia del proprio genio! Quante fanciullaggini dipinte per lei che dominò virilmente il proprio tempo, e ammoniva Alberico da Barbiano, richiamava Gregorio XI da Avignone, dettava norme per gli stati colla violenta sicurezza dei più temprati avventurieri in quella fosca rivoluzione militare, che preparava l’avvento delle Signorie!
Due terzine di Dante sono bastate nondimeno a farle in tutti i cuori una rivale della Pia, gentildonna forse insignificante, sacrificata ad una volgare avarizia di altre nozze, ma indimenticabile ora dopo quel suo patetico appello alla memoria del mondo.
Siena dorme.
Il suo letargo dura dal giorno che Cosimo dei Medici ottenne da Filippo II di Spagna il titolo di duca colla facoltà di scoronare tutte le città di Toscana per fondere, coi frammenti delle loro, la propria corona ducale, ma la grande vita delle Repubbliche e delle Signorie aveva cessato da tempo. Firenze sopravvisse in un orgoglio di capitale, Siena si addormentò sul proprio Campo fra l’ombra del Palazzo Pubblico e quella del Duomo per non svegliarsi mai più. Adesso è capoluogo di una provincia più piccola del suo antico stato, e non s’accoglie entro il Campo che una volta all’anno per applaudire la corsa delle Contrade. La loggia dei suoi mercanti è diventata un club di nobili, la sua università non è più che un frammento, i suoi palazzi appartengono a gente senza nome, il suo popolo non basta più a riempire nemmeno le sue chiese.
Però l’epidemia industriale ha risparmiato la dormiente: spegnete i fanali e ritorneranno i sogni d’una volta, perché le ombre ne sono piene. Le sue regge, le sue vie sono intatte; nel giorno le botteghe ne viziano lo stile e ne deturpano la fisionomia, ma di notte l’oscurità e il silenzio le ritornano quali erano nella grande epoca della gloria e della bellezza. Le donne non avranno che a mostrarsi dentro una delle mille finestre binate per parere più belle, agli uomini basterà un mantello e un berretto per sembrare cavalieri, mentre per le stradicciuole ricominceranno bisbigli di congiure e l’antica tragedia proseguirà nuovamente nell’incanto della notte.
Un poeta sdraiato al pari di me su questo gradino della Gaia Fonte potrebbe compire il miracolo mettendo in questo sogno la vita sonnambula dell’arte nella quale i fantasmi hanno talvolta la virtù dei viventi.
Dov’è dunque il poeta?
Le fontanelle ripetono ancora il coro della prima ora, quando Iacopo della Quercia le scoprì fra gli applausi di tutto il popolo, ma le loro dolci e monotone sillabe non dicono nulla al mio orecchio di vagabondo insonne: ho la testa vuota come il Campo, sul quale l’ombra oscilla sempre così mollemente, la torre biancheggia alla cima quasi coperta da una cotta, il portico del Palazzo Pubblico è nero e il Palazzo vuoto. Siena è morta.
Poiché dovevo scansare Empoli, avevo deciso di far colazione a Poggibonsi.
Un mattino splendente dava alla campagna una vivezza anche più giovanile, ma i campi mi sembravano deserti come per tutta questa traversata della Toscana. Ero disceso dal colle di Siena, poi salito e calato per una strada interrotta da piccoli boschi di un’eleganza e di una mondezza incantevoli: sapevo di dover giungere a Pisa nella giornata, perché non v’erano contrafforti da valicare e le strade si allungavano ondulando dolcemente.
Poche ville, non una carrozza di villeggianti, non una bicicletta.
Il sole non scotta ancora. Traverso qualche casale dall’aspetto povero senza chiederne il nome, filando sempre fra le occhiate dei fanciulli e delle donne, che vi ozieggiano nel mezzo.
Poi una stanchezza mi tronca le gambe. Comprendo subito che non la vincerò se non dopo colazione, giacché da parecchie notti il sonno non mi è tornato, e debbo riparare il consumo delle forze bevendo e mangiando più del solito. Indarno Lady Macbeth aveva ragione dicendo che il sonno è il primo alimento sulla tavola della vita, al quale nessun cibo potrà mai sostituirsi. Queste stanchezze in bicicletta mi sorprendono quasi sempre nel mattino malgrado la calma dell’aria e la mitezza del sole. Un sudore perlato come una rugiada gelida mi sale da tutte le carni, anche sulla fronte battuta dal vento della corsa, mentre un altro freddo sottile dallo stomaco mi scende per le reni alle ginocchia.
Allora non mi sento nemmeno più sicuro in sella, provo un’incertezza nelle voltate, i dubbi mi assalgono ad ogni incontro, non so tenere sui margini dei fossi, sebbene il sentiero vi sia largo e piano.
Assolutamente la bicicletta non va: che cosa è stato? Sapete benissimo che la colpa è delle gambe pesantemente inerti sui pedali, ma si ridiventa fanciulli, si discende di sella per esaminare la catena tutta grumosa di polvere; la si unge, si ungono i perni, tutto il resto, si risale dando una spinta violenta e la bicicletta non va.
Talvolta un sorriso, che dall’alto di un biroccino vi cade sulla faccia, basta a rinfrancarvi, si attacca una volata e la stanchezza scompare. Tale altra invece nessuna bizza di rivalità è sufficiente a rimettervi in forza, e si prosegue dondolando sulla sella con quella andatura dei pedoni troppo stanchi o, se la strada è deserta, si va a piedi.
Invece io mi fermo al parapetto di un ponte ombrato da due grandi querele giù in una specie di avvallamento.
Benché i miei quarant’anni sieno passati, non so ancora rimanere indifferente al sospetto ironico della gente, quando vi scorge a piedi spingendo la bicicletta per il manubrio; pare che ne provino una gioia di rivincita sulla invidia colla quale ci ammirano quando li oltrepassiamo a volo, e i loro cavalli trasalgono impauriti. Perché la gente crede ad un’immensa fatica nella nostra velocità, anche se l’apparenza lo neghi; quindi la loro lentezza accidiosa si ravviva nel sorprenderci costretti a quella stessa andatura, che non possono mutare.
E’ quasi la gioia dei poveri quando un signore immiserisce, quel trionfo del volgo ad ogni sconfitta dell’ingegno: tutti vi si sentono vincitori.
Giù in quell’ombra era quasi freddo: salgo l’erta e rimonto in sella, perché Poggibonsi non può essere lontano. La strada svolta, incontro carri e carrettelle che ritornano a frotte, ed ecco Poggibonsi biancheggiante da un poggio: pare piccola, però è famosa per il vino e deve essere capace di offrire una buona colazione. Ma tre birocce mi sbarrano la strada, mentre una vecchia con un fascio d’erbe sulle spalle piega lentamente verso il fosso, sul margine del quale salgo rallentando. Urlo, suono indarno: i carrettieri si voltano senza muoversi, ella non si volta nemmeno. Forse posso arrivare prima che mi chiuda il piccolo varco fra le birocce ed il fosso, quindi precipito quattro pedalate gridando sempre, curvo sul manubrio quasi per farmi più piccolo, ma nel momento stesso che la sorpasso, ella si torce e sbigottita, per salvarsi meglio, mi butta il fascio sulla testa.
Quando mi rialzo, i carrettieri sono già lontani.
Non è stato gran cosa, però il ginocchio sinistro mi sanguina, e si è rotto un fermapiede.
– Sono sorda, signoria, sono sorda! – ella mormorava guatandomi, con ambo le mani sul fascio caduto.
Evidentemente ha paura del mio viso sconvolto e della riga di sangue che mi cala lentamente per lo stinco; ma non vidi mai dentro faccia sottomessa due pupille grigie più sospettose, e più mirabile atteggiamento di finto rammarico e di irosa sorpresa.
– Si è fatto male? – mi domanda un gruppo di donne.
– Per Dio!
– E’ così facile cadere!
– Specialmente quando vi rovesciano.
– Infatti abbiamo visto, è stata colpa della vecchia – mi dice una bella contadina sorridendo benevolmente con due grandi occhi neri – non odi dunque nulla tu?
Ma la vecchia adesso è diventata anche più sorda; forse pensa sbigottendo che io reclami altrove.
L’impressione del mio ginocchio sanguinante su quel piccolo crocchio non dura però molto: io sono il signore e la vecchia è quasi una mendicante.
– Signoria, dovevate gridare – ella mi dice sbirciandosi intorno.
– Ho gridato.
– Io non ci veggo di dietro.
– Sei sorda davvero?
La bella contadina è perplessa.
– Bisognava andare più piano – un’altra osserva.
Evidentemente sono io che ho torto: mi scosto di qualche passo e rivolgendomi:
– Ebbene, finiamola – dico – : eccoti dieci soldi per averti fatto cadere il fascio dalla testa nel fosso: ti bastano?
Non sono molti, però ella mi ha inteso, sebbene parlassi a bassissima voce, e viene a prenderli.
– Ci senti dunque da quest’orecchio? – prorompe con una risata la bella contadina, che mi guardava sempre Cosi sospesa.
Questa volta la vecchia attrice rimane intontita nel mezzo del crocchio coi dieci soldi in mano, mentre io me ne vado un po’ zoppo, appoggiandomi sul manubrio della bicicletta.
L’altra mi raggiunge, camminiamo insieme scherzando, poi la gente ci separa forse perché ci guardiamo troppo.
A Poggibonsi mi conducono in una farmacia, dove uno studente in medicina, nell’impossibilità di proteggere con una fasciatura la ferita, propone di bruciarla col collodio: il terribile caustico vi produce quasi all’istante una crosta nera, ma io debbo stoicamente dissimularne le fitte fra le occhiate dei curiosi e le osservazioni dello speziale, che mi ammira.
In tutto una spesa di quattro soldi; invece il miglior fabbro della città impiega quasi un’ora per raddrizzare quel fermapiedi, e non vi riuscirebbe, se, tornando nella bottega, non glie ne insegnassi il modo io medesimo.
– Quanto? – gli chiedo.
– Due lire.
E’ vecchio, con due grandi occhiali tondi a stanghette, che gli cadono sul naso.
– Solamente!
Egli non si degna nemmeno di sentire l’ironia della risposta, ma per rivincita esamina lungamente il bono da due lire che gli porgo.
Finalmente ho trovato un fiasco di vecchio Chianti, frizzante e gagliardo; non ricordo il nome della bettola, però scrivo qui per gratitudine il cognome dell’oste «Bracale»; la bettola si dà una cert’aria di locanda, egli invece fa il calzolaio e viene a ricevere i miei complimenti con le mani nere di pece e il grembiule di cuoio sul petto.
– Sa, dietro la collina, che prospetta il paese, c’è la valle del Chianti, vada a vederla. Qui si beve sempre bene.
– Invece io ho bevuto male per tutta la Toscana fin qui.
Quel medesimo speziale, entrando per la colazione, mi chiede subito gentilmente della ferita.
– Non vi sento più nulla.
Poco dopo il fiasco è vuoto e per contraccambio egli ne ordina un altro, ma Pisa è lontana e io mi sono vantato un po’ troppo dicendo che la ferita non mi duole; invece temo che la pelle tirando intorno all’orlo della crosta m’impedisca il movimento del ginocchio. Mi hanno detto: sempre dritto, sino al crocicchio dell’Osteria Bianca. In sella dunque; il sole fiammeggia sulla strada, che ondula appena, sbocco in Val d’Elsa, oltrepasso Castel Fiorentino, entro in Certaldo.
Immaginavo un paese antico, mentre invece è una lunga, larga, bianca via moderna; la casa del Boccaccio fu rifatta, da non ricordo quale contessa Medici, a piedi della torre, sul colle a sinistra; la sua statua sta dritta in mezzo alla piazza. Vi giro intorno di trotto e fuggo. Chissà se quella casa non fu sua davvero; ma quella faccia pesante, quella bocca inerte, quell’occhio vuoto, non sono certo del Boccaccio. Lo hanno scolpito a testa nuda dentro un robbone, forse in memoria di quello legatogli dal Petrarca perché vi si garantisse nei vecchi giorni dai freddi dell’inverno più pericolosi dei rimorsi, che già lo avevano sorpreso. Anch’egli, l’allegro trionfatore, che aveva sorriso sulle tragiche passioni di Dante e sugli amori immateriali del Petrarca, opponendo alla paura della peste l’eroismo ironico delle proprie novelle capaci di frustare col medesimo lazzo lo spettro della morte e il fantasma di Dio, tornò vecchio a rabbrividire delle prime paure infantili, e nascose per morire la testa sotto il manto della religione, come i bambini l’appiattano a mezzo di un racconto terribile sotto il grembiule della nonna.
Adesso nella piazza di Certaldo, sotto il sole che gli brucia la testa, e quel robbone che gli opprime le spalle, ha un’aria di forestiero grasso, seccato della propria troppo lunga esposizione alla compiacenza riguardosa del paese.
Oh! s’egli potesse vedermi in bicicletta, qual sorriso gli rischiarerebbe la faccia, e in quale corsa l’agile sua fantasia si precipiterebbe dinanzi alla mia ruota giù per Val d’Elsa, fra il polverio della strada e le canzoni dei campi, verso Pisa.
Dov’è dunque Pisa?
Anche adesso fra le ombre del lungo viale che mi conduce a San Giuliano contro il monte «perché i Pisan veder Lucca non ponno» mi ripeto la stessa domanda.
Vi giunsi sull’imbrunire preceduto da un popolano in bicicletta, che mi faceva cortesemente da battistrada, e mi condusse dietro un vicolo in una locanduccia di aspetto simpatico, perché il cortile tutto coperto da un bel pergolato vi formava la sala da pranzo. Mi fermai sul ponte a guardare i Lungarno pieni d’una folla uscita a prendere il fresco saliente dal fiume tacito e nero; mangiai in fretta ed uscii senza nemmeno salire alla stanza che mi avevano assegnato.
Dov’è dunque Pisa?
Ambo i Lungarno sono nuovi: appena qualche palazzo antico vi è rimasto incastrato, ma non vi fa più che l’effetto di una stonatura; i vicoli, che vi sboccano, paiono fessure; due piccole statue di Mazzini e di Garibaldi vi riempono quasi due piazzette insignificanti; non una barca nel fiume.
La notte era fresca e stellata. Poiché mi sentivo stanco tornai alla locanda e m’addormentai finalmente dopo tante notti sopra un cattivo letto, dalle lenzuola equivoche, senz’accorgermi dell’uscio e della finestra aperta sopra un cortile, dal quale saliva un tanfo di cloaca.
La mattina mi svegliai stecchito in una stanzetta sudicia.
Stentai a vestirmi perché ad ogni momento mi scricchiolavano le giunture, quindi andai all‘Ussero sulla fede del Giusti, ma il sole di quel giorno non bastò a sgranchirmi. Lungarno, nient’altro che Lungarno: due lunghe file di case che s’innalzano sul fiume invisibile, cavalcato da cinque o sei ponti, quasi sbarrato in fondo da un avanzo rossastro di fortezza, mentre a monte si perde per una curva molle. Il resto della città non dice nulla; pochi palazzi, qualche chiesa, nessun monumento.
Poiché avevo girato tutto il mattino, nel pomeriggio rimasi seduto dinanzi al caffè cogli occlusi vaganti sull’apertura del fiume.
L’Arno è muto.
Dagli alti colli, donde discende a tergo del Tevere, sino al mare, le sue acque non mormorano più novelle: la sua foce diventò da gran tempo ignota a tutti i marinai, la sua corrente non serve nemmeno al piccolo commercio delle campagne, che vi si specchiano.
Dov’è dunque Pisa, la potente repubblica, che guardava sul Mediterraneo dalla Spezia a Civitavecchia, la conquistatrice di Sardegna, la nemica di Genova, la trionfatrice di Palermo, che trasportava i crociati in Terra Santa e scuoteva Firenze col rombo delle proprie lontane vittorie? Indarno la fantasia cerca le vestigia di una grandezza, rimasta nella memoria del mondo, per la nuova città appena nota agli studenti delle vicine province e ridotta d’inverno ad un ricovero di gracili milionari. Tutta la sua vita affluisce in Lungarno: alberghi e caffè vi spesseggiano vuoti in questa canicola, pieni certo a dicembre di gente raccolta sotto la benignità del sole, nella calma di un ozio, al quale forse anche le memorie sarebbero grevi. I1 palazzo pubblico è l’antico palazzo Gambacorti, di un’eleganza logorata dal tempo, né massiccio né altero: dov’era dunque il palazzo di città, quando Pisa poteva contrastare a Venezia? I1 palazzo del vescovado potrebbe essere di ieri, quello dell’università non è più vasto o più bello: la Cassa di risparmio ne ha fabbricato uno antico, castello e fortezza, merlato e turrito, piccolo come un giuocattolo, in un crocicchio di vicoli che lo rendono anche più assurdo. Eppure dovrebbe anche Pisa aver serbato sul volto qualche lembo della maschera antica. Dinastie di patrizi si disputarono sanguinosamente la sua signoria, commerci e guerre la crebbero, gli ingegni le scendevano pellegrini da tutti i colli toscani, dinanzi il mare le suscitava sulle vie della ricchezza l’incanto delle avventure ancora senza nome. Troppo si è voluto incolpare della decadenza di Pisa la rotta della Meloria, giacché tutte le repubbliche marinare ne soffersero di più tremende e né si arresero, né decaddero: o troppo le cronache vantarono la sua prima grandezza dileguata senza traccia.
Sono laggiù sul prato, fra il Duomo e il Battistero, la Torre pendente e il vecchio Camposanto, si sente che un’altra Pisa più ricca di Firenze e più bella di Siena deve esservisi distesa insino al fiume armandosi di bastioni e di torri, come la grande porta di Toscana sul mare. E altro non era, e questo forse fu il secreto della sua decadenza. Per quali vie di terra si sarebbe avviato il suo commercio fra i poveri colli di Toscana asserragliati da castelli, insanguinati da una guerra senza requie?
Pisa era troppo lontana dal mare: senza marinai nel popolo come Ravenna, non poté assorgere ad una vera politica mercantile facendosi della ricchezza la più invincibile delle forze; quindi non serbò regno in terraferma, e bastò la distruzione di una flotta a toglierle quello del mare. Nella lunga tragedia medioevale, che scolpiva i caratteri e svegliava gl’ingegni, ella rimase secondaria; tutta la sua opera è sul prato, tutta la sua vita nei quattro monumenti che vi difendono ancora il suo passato. Certo la sua anima deve avervi lungamente sognato di impero, perché nessun’altra città aveva ancora ed ebbe poi in così poco spazio opera più varia e meravigliosa; come Atene dall’Acropoli e Roma dal Campidoglio, Pisa guardava lungi da quel prato, precipitandosi col pensiero sulle rivali, che sparpagliavano con immemore prodigalità l’energia delle proprie passioni e la bellezza dei capolavori. Ma la sua storia non ebbe domani, e la sua arte si consumò nel primo prodigio.
Oggi su quel prato si domanda: dov’è Pisa?
La città dei due Lungarno e delle strade che vi conducono, non può essere la medesima del Camposanto e del Duomo fra il più bel Battistero e la Torre più originale, che oggi ancora vanti il mondo Infatti i dintorni paiono d’un villaggio, viuzze storte, casette tristi, miseria d’uomini e di cose. Ad un vicolo lercio hanno dato recentemente il nome di Giacomo Leopardi; una lapide, sulla casa che abitò, dice che lì scrisse il canto a Silvia: presunzione e pedanteria di eruditi. Che ne penserebbe il cupo poeta leggendola?
I1 Duomo, addobbato per non so quale pellegrinaggio, spariva sotto tabelle villanamente dipinte, tra festoni e cascate di verdura e trofei di candelette in una ignominia di saturnale senza nome. Forse i devoti così lo trovano più bello e raddoppiano le offerte, altrimenti non s’intenderebbe il perché di tale profanazione; ma non vidi mai in alcuna città più triste inconsapevolezza di religione e più scempia festa di idolatria. I1 Duomo rigurgitava come un mercato: dovetti uscirne.
Anche il Camposanto era invaso, giacché ne avevano spalancato gratuitamente le porte.
Un popolo di villani lo riempivano ridendo grassamente dinanzi agli affreschi sbiaditi dal tempo, che raffigurano con tanta semplicità mirabile d’ingegno motivi della Bibbia e della Divina Commedia: da una parete pendono le catene dell’antico porto, che Genova strappò allora e non rese poi che nelle feste della recente unità nazionale: ultima vanteria delle rivalità municipali, che nelle nuove amicizie trovava modo ancora di evocare gli odii antichi. Certamente il Camposanto nel concetto del grande Pisano non doveva servire che agli illustri, ai potenti, i quali soli possono pretendere di non essere dimenticati. Perché così piccolo? Perché Camposanto? Nulla vi fa sentire la morte: la grazia del portico è così leggiera che i sarcofaghi accumulativi confusamente e le poche croci sorgenti dall’erba alta non la turbano; quel portico potrebbe meglio essere un’accademia o un museo, poiché le stesse maggiori famiglie pisane non vollero riempirlo allineandovi le proprie tombe. Saranno forse altrove nelle chiese e nelle cappelle, ma interrogando tutti i morti del bel Camposanto non se ne trarrebbe la cronaca di Pisa. Adesso credo non vi si accoglie più alcuno: la folla dei piccoli, dei poveri non vi sarà mai stata ricevuta. Infatti sono troppi i poveri e hanno troppa fretta di morire e il sonno troppo duro nella morte, perché Giovanni Pisano pensasse a loro disegnando queste arcate incantevoli, delle quali oggi il candore pare una giovinezza.
Al pari del Camposanto la Torre esprime una gioia della fantasia. Quelle sale a spire di piccole arcate quasi per una processione di festa, che debba sempre apparire di fra le colonne al popolo gremito e salutante dal prato: pare un minimo portico attorcigliato come un nastro ad un enorme tronco di colonna. Quando Pisa esplorava da tutte le proprie torri armate, questa dovette certo significare qualche esultanza giovanile di vittoria.
Invece la Muda del conte Ugolino fu abbattuta due secoli or sono nel riattamento del palazzo Gualandi. Colui, che si lagnò con Dante nell’Inferno di non essere nemmeno potuto morire di dolore, troncando così col più atroce dei rimpianti il racconto del proprio supplizio, non ha più sulla terra altra memoria che la parola del poeta. Pisa lo ha dimenticato; i Gherardesca oggi abitano, credo, a Firenze, e di tanta tragedia non resta che la chiave giù nel letto dell’Arno.
Però la maledizione di Dante ha colpito Pisa peggio che se la Capraia e la Gorgona, facendo siepe al fiume in sulla riva, l’avessero sommersa: da secoli essa non esiste più; Livorno le sottrasse ogni ricchezza di commercio, la bellezza non le ha mantenuto la vita delle memorie.
Sul prato, fra i quattro incomparabili monumenti, che adesso la città rende incomprensibili, si domanda tristemente: dov’è Pisa?
I1 viale d’ippocastani, che sotto un’ombra deliziosa mena a San Giuliano, sarebbe la più incantevole delle passeggiate, se il suo piano non fosse così bernoccoluto: le ruote vi trabalzano ad ogni colpo di pedale rovesciandovi quasi di sella. Già la strada da Pontedera a Pisa m’era sembrata cattiva, questa da Pisa verso Lucca diventa peggiore ad ogni miglio.
Oltrepasso San Giuliano, un grande stabilimento e una piazza, null’altro; e lungheggio il più denso bosco di olivi, che io abbia mai veduto. I1 monte è ripido, ma gli ulivi lo nascondono affatto, senza un cinghione, né un vuoto. Ai primi raggi del sole l’argento delle loro foglie scintilla: è domenica, e nel silenzio dei campi, per tutto il triste paesaggio, mi par di sentire una nuova pace. La strada piana lambe le radici del monte, polverosa e rotta da buche e da rotaie; impossibile alzare il passo. Interrogo qualche passante, che mi risponde invariabilmente:
– Non dubiti, signoria, tutta così la strada, piana come un pallottolaio, sino a Lucca.
Sciaguratamente le palle vi sono rimaste e mi fanno traballare rabbiosamente sulla sella.
Dacché monto in bicicletta non mi avventurai ancora su strada peggiore; a volte crederei di trottare sopra un tetto a tegole. Eppure dovrebbe essere tanto facile ridurre il suo piano come quello di quasi tutte le strade toscane!
Traverso paeselli quasi vuoti, lastricati cosi malamente che debbo appiedarmi, ma il paesaggio rimane sempre triste; altri colli di ulivi e campi di viti dal palco altissimo sbarrano la vista. I primi filari fanno da siepe ad ambo i lati della via lasciandovi spenzolare i grappoli acerbi.
Non vi sono dunque ladri campestri fra Pisa e Lucca? O sarebbe davvero questa noiosa contrada il paese di cuccagna, se le siepi vi sono formate da cosi ricche viti?
E il pensiero mi corre alla prima parte della mia traversata, da Forli a Siena, per colli e valli e strade così varie e belle.
Giungo a Lucca del mio più fosco umore.
Non scorgo alcuna delle settecento torri, che le cronache le attribuiscono; invece la città mi appare povera e volgare, né antica né moderna. Faccio colazione in un grande albergo vuoto, coi camerieri in marsina e cravatta bianca, i quali mi guardano stupiti di vedere finalmente entrare qualcuno; domando della strada da Lucca a Pescia, e:
– Piana come un pallottolaio – mi si risponde.
Insisto per sapere se davvero sia migliore di quella da Pisa a Lucca, e dicono quasi di sì mostrandosi stupiti che una strada piana possa riuscire cattiva per un ciclista; nullameno mi lascio persuadere.
Giro a caso per la città colla bicicletta a mano. E’ domenica e forse qualche altra festa perché tutte le vie sono piene di contadini e tutte le chiese affollate: si sente nell’aria che la città dov’essere bigotta, veggo molte signore e signorine, ma non una donna bella. I1 Duomo piccolo, quasi brutto, pare sudicio nella sua tetraggine; entro ed esco: perché quella è la messa dei signori, tanto la navata centrale n’è piena, e il mio abito di ciclista, forse la mia indifferenza, mi fanno giudicare un irriverente.
La protettrice di Lucca è santa Zita, una donnetta che servì cinquant’anni in non so più quale casa, ma Lucca stessa non ha aria da padrona: nulla attesta che abbia mia regnato, né le sue chiese, né i suoi palazzi, né le sue piazze, né i suoi monumenti. I1 primo che veggo è quello dello scultore Civitali seduto guardando il Duomo, quasi l’avesse egli costruito, ed anche in tal caso inorgoglirebbe di ben poco: il secondo è di Maria Luisa Borbone perché gittò i quattrocento archi dell’acquedotto.
La tomba di Castruccio Castracane, pel quale Machiavelli inventò una biografia, è nella chiesa di San Francesco mutata ora in un magazzino militare: immagino che il grande soldato ne sia contento benché Lucca gli debba ancora il monumento come gli dové la sola gloria e la sola potenza di tutta la propria cronaca. Da allora non fu che una città barattata da repubblica a repubblica, da signore a signore, da duchessa a duchessa, le quali vi lasciarono finalmente la bigotteria attuale.
Adesso non vale meglio delle strade che vi conducono.
Infatti anche quella per Pescia ha il piano ugualmente fracassato e la polvere così alta che alle prime piogge il fango deve serbarvi nonché l’impronta dei piedi quella dei polpacci.
I1 sole è rovente.
Giungendo a Pescia svolto la stazione, ma il treno per Firenze non passa che alle cinque.
Quattro ore di fermata. Ho visto Pescia all’imboccatura, una viuzza lunga, stretta, pulita come un cannocchiale. E’ la città delle cartiere, e la vecchia padrona del caffè dietro la stazione mi dice che debbo profittare della fermata per visitarle. Naturalmente rimonto in sella difilandomi per Montecatini.
Eccolo. Una strada polverosa che si allarga subitamente, a destra un tempietto greco piccino, falso, intonacato di giallo, con due palme tisiche dinanzi: a sinistra una tenda bianca nell’angolo di un caffè, sotto la quale molti bevitori o bagnanti – vi sono anche bagni a Montecatini? – che si arrostiscono all’ombra; in giro molti fiaccheri che s’incrociano, e tutti i fiaccherai che schioccano le fruste.
Non ho visto altro.
Il paese è lassù, alla cima di una strada, che sale come una rampa: in basso locande ed alberghi formano un sobborgo, come adesso ne spuntano così facilmente alle porte delle grandi città.
Mentre bevo il solito bicchier d’acqua imbiancato di anice, un gruppo di signori lombardi parlano con entusiasmo di Verdi, il quale tutti gli anni viene a bere l’acqua del Tettuccio: infatti le sue ultime opere se ne risentono. Quella infiammazione, che una volta passava dalle sue musiche in tutte le anime, adesso si è spenta: l’illustre vecchio ha potuto scrivere l’Otello e il Falstaff, la più rovente fra le tragedie della gelosia e la commedia più sbracata, senza riscaldare il sangue o toccare i nervi ad alcuno fra i tanti adoratori. Evidentemente l’acqua del Tettuccio è prodigiosa per ogni infiammazione, se a Verdi ha potuto guarire così bene la testa ed il cuore.
Ma il vecchio non fu mai più glorioso di ora. Victor Hugo si lagnava sdegnosamente del Rigoletto, ed aveva torto perché il suo Le Roy s’amuse valeva assai meno; Shakespeare invece ascoltando la musica dell’Otello o del Falstaff sorriderebbe forse con quella sua arguta indulgenza per tutti i casi della vita, perché alle grandi opere come ai grandi uomini deve pur capitare di essere male interpretrati.
Quattro ciclisti fiorentini mi arruolano, sul tavolo al quale bevo, per Firenze.
Si parte subito ammonendoci reciprocamente di non alzare il passo e invece trottiamo già da due minuti al chilometro. Io sono il più vecchio, ma ho la macchina più leggera e la più grossa moltiplica, nullameno la loro gioventù mi consiglia la prudenza.
Fortunatamente la strada migliora.
Guida la marcia il più villano, un fabbro: al mio fianco il più elegante mi confessa subito di essere impiegato in un negozio di pannine e sorride sdegnosamente del fabbro, che colla testa sul manubrio e le culatte più alte della testa comincia a perdere terreno. Infatti i calzoni larghi di un turchino logoro, gli fanno dietro una fisonomia quasi peggiore della prima.
Allunghiamo il trotto, oltrepassiamo i primi due e giungiamo all’altro: m’accorgo che diventa una sfida prima ancora d’avere il tempo di pentirmene; il fabbro tenta subito la volata.
– Lasciamolo fare – mi dice il mio compagno strizzando l’occhio senza rallentare.
Perché correre? – domando io.
– Non correte dunque – ci urlano dietro.
Ma egli si piega a poco a poco sul manubrio, mentre io mi lascio raggiungere dagli altri due, che arrivano anch’essi in volata; la corsa è inevitabile, dinanzi il fabbro, io ultimo.
Alla prima occhiata mi accorgo che solamente il mio primo compagno, l’elegante, è veramente agile, e non spiega ancora tutta la propria velocità rivolgendo tratto tratto il capo a guardarmi. Evidentemente egli vuole battermi e, poiché non ha forse venticinqu’anni, la pretesa è legittima: come ricusargli questa piccola soddisfazione? E’ la prima compagnia che mi capita in tutta la traversata; paghiamo quindi piacere per piacere.
Alzo il trotto, sorpasso facilmente gli altri due, e lo raggiungo.
– Abbiamo molto ancora alla salita di Serravalle? – gli chiedo fingendo di non accorgermi che siamo in corsa.
– Forse sei chilometri.
Ma vedendomi col busto ritto egli stesso si rialza.
– E’ salita da appiedarsi?
– Non volendo no, ma di questo passo non è facile arrivare sulla sua cima.
– Ci appiederemo: perché stancarci inutilmente?
Invece ritti sulla sella nella posa da passeggio allunghiamo maledettamente il trotto seguitando a ciarlare: così il vantaggio è mio per la superiorità della moltiplica. Arriviamo al fabbro, lo oltrepassiamo senza guardarlo, ma col respiro già così grosso, che c’impedisce di parlare: io irrigidisco le braccia sulla sommità del manubrio mantenendomi a testa dritta.
Così non sono in corsa; l’altro se ne accorge e non osa più curvarsi benché il mio passo lo affatichi.
Però dopo un altro chilometro ci siamo piegati tutt’e due a poco a poco sviluppando tutta la nostra velocità: non è molta, così ad occhio e croce la crederei appena di 1’40” al chilometro, il passo da strada dei veri corridori, ma che né io né lui sapremmo mantenere. Siamo ancora abbinati, sudanti, ansanti, in secreto malcontenti del risultato; c’ingannammo entrambi, egli fidando sulla giovinezza, io sulla moltiplica.
Forse egli è stracco, io non lo sono ancora, però la più corta volata mi esaurirebbe, ed ecco appunto la prima boscaglia sul colle di Serravalle; la strada comincia a salire, si scorge un ponte, ci appiederemo là.
Improvvisamente l’altro precipita la volata staccandosi dalla sella col naso sul manubrio: è un razzo o mi pare, perché sento che non potrò mai avere un simile scatto. Nullameno mi avvento anch’io quasi senza piegarmi sperando nella lunghezza di quella prima erta, forse un cinquecento metri. Infatti egli ha spiccato la volata troppo presto e troppo furiosamente; riguadagno terreno, sento già il rantolo del suo respiro, sforzo tre o quattro pedalate, lo raggiungo e mi abbino daccapo senza volerlo oltrepassare.
Prima di giungere al ponte abbiamo entrambi rallentato, egualmente sfiniti; per fortuna una torma di ragazzi ci piomba sopra strillando, altercando per toglierci le biciclette e guidarle a mano sino alla cima.
– No, dobbiamo aspettare gli altri.
– Eh! Tarderanno ancora — egli dice — abbiamo trottato.
– Troppo.
Tento di accendere un sigaro toscano, ma anso ancora; egli mastica la sigaretta tergendosi il sudore.
– Andiamo, li aspetteremo in cima: lassù c’è una bettola.
– Andiamo.
Due ragazzi ci salgono dinanzi colle biciclette a mano, noi montiamo adagio troppo stanchi per volerlo confessare e per poterlo nascondere.
La vetta era una volta armata di un castello fieramente conteso fra Firenze e Pistoia e che questa dovette perdere per soggiacere poi alla rivale: oggi ancora se ne vede qualche muro, ma non abbastanza perché la fantasia possa ricostruirlo. Domando dell’altro castello di Caprona nell’osteria piena di gente, che beve un vinello rossastro ed acidulo.
– Caprona? Dove?
– Eppure doveva essere sopra una di queste vette.
Tutti si guardano in viso, mentre io sento oscillare la mia erudizione. Però Dante fu dei militi a cavallo, che Firenze mandò all’assedio di quel castello in aiuto di Lucca contro Pisa, se non fu pure alla battaglia di Serravalle sotto gli ordini del suo amico Moroello di Malaspina. Me ne ricordo male; il mio compagno, già al quarto bicchiere, non ha badato alla mia domanda.
Finalmente arrivano gli altri, bevono anch’essi e si riparte questa volta in gruppo, di mezzo trotto.
I1 fabbro mi si accosta:
– Ha vinto lei, non è vero?
– Vinto che cosa?
– La corsa.
– Ma non abbiamo corso.
Egli mi guarda sconcertato.
– Eh! non conosco l’altro io? Se avesse vinto lui, allegri! ce ne avrebbe cantate sino a Firenze. L’ho battuto anch’io, sa: ma con questa macchina, che monto, è impossibile.
Quindi si precipita ancora alla testa del gruppo con ambo le mani alzate, cantando a squarciagola.
– Si ricomincia? – esclamano di malumore gli altri, e rallentiamo il trotto, benché un paesello gremito di gente appaia allo sbocco della strada.
I1 fabbro raddoppia la mimica: pare quasi che chiami a grandi urla le persone, ma nel voltarsi verso di noi perde l’equilibrio e casca come un fagotto rimbalzando sui lastroni.
– Beceraccio! – gli gridano intorno a me i compagni – oh, lo vedi che voleva fare il grazioso!
Fortunatamente non si è fatto nulla, però ci siamo appiedati fra le risa della gente, e bisogna ridere; questa volta il fabbro tira il fiasco vuoto per aria così che rimane colla pagliera attorcigliata al filo del telegrafo.
– Bravo!
Un altro!
I1 secondo lancialo pieno.
– Lo berremo sotto a bocca aperta.
I ragazzi strillano, le donne sorridono, gli uomini ridono, un cane abbaia, due enormi paperi gracchiano, pare il principio di una festa, che la nostra bicicletta sollevi come la polvere per strada.
I1 piccolo cicerone di otto anni andava innanzi.
Mi aveva chiesto timidamente una cicca al caffè del Globo, poi mi si era accompagnato per tutta Pistoia. I1 suo visino smunto e cinereo era di una malinconia già pensierosa: non aveva né scarpe né cappello, così che la gente vedendoci insieme sorrideva.
Egli se ne vergognava.
– Come ti chiami?
-Cione.
Un’abbreviatura di Uguccione senza dubbio, il grande soldato rimasto popolare fra questi monti mentre Castruccio Castracane, il suo amico e rivale, vi è sconosciuto.
A quest’ora del pomeriggio quasi tutte le chiese sono chiuse: veggo una statua in lucco e mi immagino che sia Cino, il più lirico dei poeti medioevali, ma invece è di un cardinale Forteguerri; ci fermiamo in piazza dell’Ospedale. Sul palazzo triste e sudicio un fregio di terracotta corre tutta la facciata al di sopra delle finestre raffigurando le sette opere della misericordia. Ancora Luca della Robbia, sempre lui ad ogni capolavoro di quest’arte per tutte le città della Toscana: lui solo poteva mettere sulla faccia del medico che esamina il malato quella fisionomia di sufficienza dottorale, qualche secolo prima di Molière con satira ancora più sicura e più fine: lui solo arrischiare all’angolo della tavola, sulla quale banchettano i poveri, quella figura ilare di satollo, che pare si sporga a guardare sulla piazza beffeggiando della propria insolita fortuna la gente.
Ma l’interno dell’Ospedale dev’essere lugubre.
Pistoia è bella, aspra e forte oggi ancora. Il tempo non ha potuto mutarle fisionomia, e le vestigie della sua grandezza dureranno ancora lungamente. In piazza fra il Vescovado e il Duomo, il Battistero e la Torre dei Capitani, il Palazzo del Comune e quello Pretorio invece di un tal cardinale enigmatico avrei voluto vedere la statua di Filippo Tedici, il più mostruoso fra i tiranni della sua epoca, così degno di un canto nell’Inferno di Dante, che poté di Pistoia mettervi solamente Vanni Fucci, bastardo e ladro di sagristia.
Ah! Pistoia, Pistoia, chè non stanzi D’incenerarti, sì che più non duri, Poi che in malfar lo seme tuo avanzi?
Anche Dante supponeva allora che i rimasugli dell’esercito di Catilina, sfuggiti a Marco Petreo, si fossero riparati a Pistoia, appena un villaggio, facendone poi coll’indomabile valore del sangue la città più rissosa del suo tempo. E il fiero ghibellino sognante ancora dentro il mito dell’impero romano, credeva di odiare Catilina senza accorgersi che Cesare ne fu il successore, e l’idea dell’impero aveva già avuto in Caio Gracco il primo statista. Fra la costituzione di questo e la conquista di quello, Catilina non poté essere che l’avventuriero sorto come una fiammella dalla fermentazione del lungo putridume, spento poi come una fiaccola dalla tempesta.
Egli era ancora più pallido di Cesare, collo sguardo più grifagno e la stessa mollezza dell’andatura che scattava improvvisamente in impeti tigrini. Come Cesare sapeva tutto godere e tutto sopportare, pesando con eguale sicurezza le cose e gli uomini, generale di congiure a Roma e diplomatico d’insurrezione nella Transpadana, senza confondersi mai in quella spaventevole pedagogia del delitto, che abbacina i forti prima ancora dei deboli. Cesare lo seguì, Cicerone non poté arrestarlo, Sallustio non lo comprese. Fra quelle congiure, che scoppiavano come bolle fumide dal terreno ingrassato di troppo sangue cittadino, egli solo camminava dritto allo scopo. Mario non aveva saputo diventare l’imperatore della plebe, Silla non aveva voluto essere che il dittatore del senato, mentre la repubblica era già morta e la lotta dei partiti non si prolungava inutilmente che pel rispetto superstizioso del suo cadavere.
Ma Roma era già il mondo, quindi Catilina ebbe torto di non comprendere che bisognava conquistare questo prima di quella diventando imperatore nel campo anzi che nel foro, per fondere la rivolta di Mario nella tirannia di Silla e pareggiare il mondo sotto la tutela di un solo.
Caio Gracco poté pensarlo e Cesare compirlo: Catilina fu la passione di entrambi, con tutti i suoi bagliori e le sue cecità.
Questo solitario ignorava il mondo, e non aveva un partito, un esercito, un’idea. L’egoismo, separandolo da tutto, gli aveva scoperto il segreto di ognuno; Roma non era più che una larva, il suo popolo una plebe, il suo senato una banca: poteva quindi bastar la volontà al comando e il disprezzo degli ostacoli alla vittoria. Così nell’immenso vuoto della sua coscienza Roma si perdette come dentro la più profonda delle negazioni. Ecco forse perché Cesare subisce il suo fascino e lo difende già proscritto, perché Cicerone non osa arrestarlo e gli urla contro in senato come i cani abbaiano per la paura, perché i banditi di tutt’Italia accorrono alla sua voce di capitano sconosciuto e muoiono sotto il suo sguardo senza indietreggiare d’un pollice, con un eroismo inintelligibile ai vincitori.
Prima della battaglia egli aveva già cacciato dal campo il proprio cavallo per morire a piedi confuso tra i soldati, ai quali la sua anima sola era insegna.
Essa regnò poi solitaria in tutti gl’imperatori, che l’eterogenea immensità dell’impero costringeva alla demenza della volontà: e quando l’impero si sfasciò come un enorme scenario, attraverso il quale passavano le comparse incendiarie dei barbari e le processioni salmodianti dei cristiani, la stessa anima resistette nelle ultime invincibili caparbietà: e più tardi, dentro i nuovi Comuni, riapparve sempre cosi lucida ed infrangibile nei tiranni, nei capitani, nei signori, cui la storia imponeva un predominio irresponsabile senza venia alcuna di vizi o di virtù.
Da Catilina al duca Valentino passano indarno quindici secoli: lo stesso problema li abbina, il medesimo eroismo della volontà li mette al disopra di ogni legge, un’uguale sconfitta li sopprime oscuramente.
Machiavelli non sospetta Catilina facendo col trattato del Principe il ritratto del duca Valentino, come se una fisionomia potesse mutarsi in codice, ma l’uno sovrasta all’altro di quanto la Roma d’allora superava quella di Alessandro Borgia.
Entrambi non hanno sepolcro.
Svoltando, leggo – Via della Tomba di Catilina – percorro tutta la strada, ma la tomba non c’è: se ne chiedessi al mio piccolo cicerone, non ne saprebbe meno di un altro. Invece gli ho già dato due lire invitandolo a pranzo.
Ha ricusato. Non so perché in questa traversata, ogni qualvolta mi è capitato d’invitare qualcuno a bere o a mangiare meco non sono riuscito a rendermi accetto.
Povero piccino! Quelle due lire gli bruciano forse la mano come una bracia: ha bisogno di scappare, di mostrarle trionfalmente ad un compagno.
– Dunque non vuoi pranzare con me? – gli ridomando sull’uscio aperto di una trattoria.
Egli vi getta dentro un’occhiata, poi il visino smunto gli si fa vergognoso e abbassa gli occhi.
Evidentemente crede che io lo beffi con quest’insistenza: sono io che ho torto.
Il contadino mi ha svegliato sulla cima a pochi passi dalla locanda, ma il sollione di mezzogiorno arroventandomi così addormentato per quasi due ore su quel barroccio non mi ha nemmeno lasciato la testa pesante.
Veggo subito il cuoco in giacca e berretto bianco sulla porta.
La locanda è piena di villeggianti, che dicono di essersi rifugiati quassù dal caldo, mentre invece il sole vi scotta come nelle valli; ma sono a quasi mille metri sul valico tra Pistoia e Porretta, e basta.
Mi siedo subito a tavola con un appetito così formidabile che mi ottiene un primo trionfo d’ilarità; poi un signore mi riconosce e divento un personaggio letterario, del quale la conversazione promette qualche amenità per mezzo la noia delle chiacchiere quotidiane. La Collina, questo giogo si chiama così, è pittoresca: la strada avvalla subito dalla locanda per forre cupe, in fondo alle quali l’esile campanile di un paesetto si erge come uno stollo rossastro; un’altra stradiccinola mulattiera conduce per Pracchia a Modena, la valle dell’ Ombrone si dilata dietro, tra sfumature verdi.
Avevo deciso di ripartire subito, ma le signore me lo vietano cortesemente: la compagnia varia è di una cordialità senza pretensioni o gelosie, non vi scorgo che tre ragazze e due studenti troppo scolari per essere ancora dei giovanotti. La casa ha un ufficio di posta e di telegrafo, un pianoforte, un salone che serve anche per ballare levandone le tavole, un cuoco degno di un grande albergo, del vino eccellente e una padrona, che servendovi a tavola ha l’aria di rendervi il più segnalato favore.
Infatti non sarebbe possibile domandargliene un altro.
Ma che fanno quassù? Affermano di errare pei boschi, però tutte le signore hanno scarpine da città coi tacchi stretti ed alti; una vedova bella, con un sorriso fresco di fanciulla e i capelli brinati, va a prendere un alpenstok di bambù più alto di lei, e me lo mostra trionfalmente. Nonpertanto la gita abituale di tutti è ad una piccola fontana, che sprizza fra i sassi a duecento metri dalla locanda.
Non mangiano in comune.
Il pianterreno è diviso a camerini, nei quali le famiglie si sparpagliano all’ora del pranzo isolandosi in una intimità domestica. Dev’essere altrettanto comodo che gradevole. La bella vedova accoglie nella propria saletta un’altra signora col marito, perché anch’essi hanno un piccolo bull-terrier diventato subito, caso ben raro, amico dei suoi due cani, un lupetto e un bull-dog.
Sono invitato anch’io, e compio così la quadriglia. Che cosa diciamo? Non lo so, si scherza, si ride; ella ha dei movimenti di testa quasi imperiosi, quando s’abbandona sulla spalliera della seggiola con la bella mano poggiata mollemente sull’orlo della tavola, e guarda coll’occhialino a manico lungo di tartaruga.
Non è vedova che da due mesi, di un marito vissuto lungamente infermo.
Una signora bruna, grassa, dagli occhietti lucidi, coi capelli fasciati da un fazzoletto turchino alla provenzale, si precipita nella saletta.
– Gli sposini sono scesi nel salone.
– Ah!
Sono due sposi novelli, capitati la sera innanzi e dileguati subito nella loro camera. Un ronzio di alveare si alza da tutti i camerini, le signore vanno e vengono, le ragazze cercano di assumere un’aria ignara.
– Come sono?
– Pallidi?
– E lui?
– E lei?
– Meglio lei – grida quasi ad alta voce un signore brizzolato.
– Lui è stanco evidentemente.
– A quest’ora.
– Pare un malato.
– Già, le donne…
– Ma taccia dunque.
Siamo tutti in piedi per andare nel salone. Entriamo. I due sposini indovinano la nostra mossa, lei abbassa gli occhi, lui si sconcerta, le signore si rigirano nel crocchio che perde l’animazione, mentre le parole insignificanti, di parata, sembrano cascarvi frammezzo con una battuta di piattellini rotti.
Eppure tutti gli occhi sfavillano. La fresca primizia di quell’idillio legale ritenta in ognuno qualche fibra, le ragazze si son fatte pensose, le signore sembrano voler sillabare a certe occhiate sul volto dei due sposini il secreto della loro prima notte.
Sempre così: dinanzi a due sposi entrati nella vita solamente da qualche ora si guarda, si sorride, si ride, si deride e si sogna: essi sono lì roridi ancora dei lunghi primi baci, nella stanchezza di una gioia che non tornerà più, coi veli già rotti delle illusioni che dovranno perdere per via, e che adesso i loro sorrisi agitano ancora intorno alle loro teste come un vapore iridato.
– Che ne dice lei? – mi domanda a parte la vedova – la moglie non è bella.
– E nemmeno il marito.
– Quanto durerà la loro felicità?
– Quanto dura il dolore della vedovanza? Amleto lo supponeva di due mesi.
– Aveva torto.
– Infatti sarebbe pretendere troppo.
– Lasciamoli soli – mormora un vecchio signore dal tipo ebraico.
Usciamo tutti.
I1 pomeriggio passa bene: io e gli sposini siamo le due novità.
La conversazione della notte si fa nell’andito lungo e stretto come un tubo; prima delle dieci vanno tutti a letto, io rimango solo a cena. Apro la finestra. La notte si è fatta buia, immense nuvole nere spinte da un vento, che fugge fra i boschi, si accavallano al disopra di tutte le cime, qualche lampo le squarcia e il tuono sembra cadere dalle lunghe cicatrici fiammanti. Su nelle stanze squittiscono ancora voci di donne, ma l’albergo è già caduto in un’ombra sonnolenta.
All’improvviso laggiù, nell’abisso tenebroso della montagna, un serpente di fuoco snoda spaventevolmente le proprie immense spire: è un treno che passa. Guardo incantato il meraviglioso spettacolo. I1 serpente pare avanzare adagio, si veggono i suoi due occhi rossi e da tutte le sue vertebre schizzano lampi: non avrei mai creduto che i fanali allineati sui palchi dei vagoni potessero produrre un effetto così fantastico. Poi un singhiozzo rauco, enorme, sale dall’abisso, mentre il serpente caccia la testa nel vano di un tunnel, si raccorcia e dispare.
Un altro tuono brontola lungamente sulla valle.
Pioverà.
Infatti l’acqua ha durato tutta la notte. La mattina sulle sette, spalancando la finestra, veggo un ciclista coperto dal breve mantello impermeabile, che sta per partire quantunque pioviggini ancora. Un garzone della locanda gli attacca con una fune dietro al portasella una grossa fascina per freno, egli balza in sella e cala pedalando vigorosamente.
Ecco il freno ideale per le discese troppo lunghe.
Ma la pioggia ricomincia e dura fino a mezzogiorno.
– Non parta dunque, signor Oriani – mi dice quel signore che mi ha riconosciuto per il primo, e col quale finisco appunto in quel momento di fare colazione.
– Perché? Le strade sono eccellenti, la pioggia le ha battute invece di renderle fangose.
– Non si è accorto che due occhi la guardano già?
– Non è che un complimento. Ho girato da un pezzo il Capo di Buona Speranza.
– Ma lei non è vecchio.
– Per marito non lo si è mai abbastanza: una donna può sempre sposarvi per diventare la vostra vedova.
Parto.
Gentilmente signori e signore mi accompagnano a piedi per un chilometro; davvero sembra che farei loro un piacere rimanendo ancora per tutta la giornata, ma non bisogna fidarsi troppo a questo genere di seduzioni; la gente se ne rammarica presto e vi dichiara insopportabili.
L’Appennino è più fosco da questo lato. Giù alle pendici mi battono sull’orecchio i primi accenti romagnoli, tocco appena Porretta, a Vergato incontro il ciclista disceso la mattina sotto la pioggia; a Riola sempre correndo veggo il castello moresco di Mattei, un pazzo, che inventò l’elettricità rossa e verde, chiusa in boccette, colla quale guariva tutti i mali. Venivano a consultarlo dalla Siberia e dall’America: egli riceveva facendo abbassare il ponte levatoio di ferro, e appariva armato sotto la porta.
Così ha guadagnato milioni.
I1 castello pare disegnato da un pasticciere.
Salendo l’ultima erta di Marzabotto un’acqua furiosa mi sorprende: inutile riparare in una casa di contadino perché grondo già da tutte le vesti; quindi allungo il trotto stringendo disperatamente il manubrio e pencolando ad ogni più breve scarto della ruota. Mi pare impossibile evitare una caduta. Lungo le siepi della grande villa Aria, che racchiude la famosa necropoli etrusca, due statue romane, un guerriero coll’elmo e la corazza e un incognito che pare in toga, mi voltano la schiena così abbracciati che non posso distinguerli.
Chi sono? Che significano?
Prima del Sasso la pioggia finisce e il sole si riaffaccia così rovente che la strada ne fuma quasi subito. Mi appiedo per traversare il paesello più adagio, ma una angosciosa sorpresa mi stringe il cuore: la bottega nella quale speravo di comprare dei sigari non c’è più. Ricordo ancora, a distanza di forse dieci anni, la ragazza che li vendeva, una bella bionda piccina, grassoccia, dal viso allegro; e intorno alla bottega v’erano sparpagliate altre case sotto il monte: questo si è spaccato precipitando, schiacciando tutto. Adesso vi hanno alzato un muraglione e nel suo mezzo una lapide, che ricorda il numero delle case e delle vittime scomparse. Quel muraglione è di un effetto terribile nella sua nudità, altri muri otturano nella roccia altre caverne, dentro le quali abita altra povera gente. Trogloditi moderni: anch’essi morranno schiacciati?
Risalgo triste in sella.
Verso le cinque sono a Bologna.
In piazza un gruppo di ciclisti faentini mi ferma e vecchi amici bolognesi mi sequestrano.
– Ah, di ritorno! Hai fatto un viaggio lungo? Sembri di bronzo.
– Quante spine nel viaggio? – mi chiede Righi, il campione faentino.
– Né uno spino, né una donna.
Un sorriso d’incredulità accoglie questa risposta, poi altre domande incalzano e si decide di non ripartire che all’indomani, prima di mezzogiorno. Infatti entriamo a Faenza sulle undici da porta Ravegnana, girando dietro la vecchia stazione: la città non è mutata, incontro i medesimi visi, ascolto già gli stessi discorsi: sulla piazza di San Francesco, Torricelli è ancora seduto in mezzo al piccolo giardino, colla faccia sempre così intontita dall’aver potuto scoprire il barometro, ma lo scultore concittadino credette forse di significare meglio così l’importanza della invenzione.
Alle due rimonto in sella per Casolavalsenio: il sole è fulgido, la campagna bella e nonpertanto tutto mi pare oscuro, quasi freddo: pedalo a stento.
Dentro al largo fossato, che corre dalla via Emilia per tre chilometri verso Riolo, due piccole guardiane di oche inseguono una farfalletta azzurra nell’aria; io vengo a piedi tristemente. La farfalla sempre collo stesso volo basso e traballante piega sulla strada e cacciandosi nella siepe s’impiglia dentro una rete di ragno, che le si precipita sopra.
– Poveretta! – grida la più grande delle due fanciulle e spinge arditamente il braccio fra gli spini per salvarla, mentre un sorriso le illumina tutta la faccia dorata dal sole.
La piccola farfalla le si dibatte disperatamente fra le dita: ella si trae uno spillo dal corsetto, la trafigge e se l’appunta moribonda sul cappellino di paglia andandosene tutta civettuola.
L’altra compagna rimane dispettosa.
Pietà ed amicizia di donne.
Arrivo solo, rientro solo, sono nuovamente solo nel mio studio.
Scrivere il viaggio? Perché?

Casolavalsenio, 14 agosto 1899.

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