giovedì, Novembre 14, 2024
Faenza nella storia - I capitoli

Faenza nella Storia _ Cap. 2.3. Gli ultimi Manfredi: Carlo II, Galeotto, Astorgio III (1468-1501)

Cap. 2.3. Gli ultimi Manfredi: Carlo II, Galeotto, Astorgio III (1468-1501)

Appena assunse le redini del governo, Carlo II, mentre da un lato acconciavasi, insieme co’ fratelli Galeotto e Lancellotto, al soldo di Venezia (e un rogito del 9 nov.’68 attesta appunto che Galeotto era in Lombardia “ad stipendia Venetorum”), dall’altro lato dovette mandare ed effetto le condizioni di pace imposte da Paolo II papa, che importavano la restituzione di Dovadola ai Fiorentini, di Mordano e Bubano a Taddeo Manfredi, signore d’Imola; ma quest’ultimo sembra non dimettesse per ciò l’inveterato odio contro i consanguinei suoi di Faenza. La famiglia Viarani (da Vigliarana, poi Viarana), che presso Astorgio II era stata fra le prime, e quasi padrona del governo, avea studiatamente a suo profitto mantenute le discordie fra Astorgio ed il figlio Carlo, alle quali di sopra accennammo; ed ora, temendo molto del signore novello, s’era rifugiata non a Forlì (come vorrebbe il Marchesi, storico di quella città), sì bene ad Imola, come chiaramente afferma il nostro cronista Ubertelli: e quivi Taddeo promise ai Viarani (Ugolino, padre, ed Andrea e Silvestro, figli) di farli castellani della rocca di Calamello, da essi custodita fin allora per Astorgio, se volessero cederla a lui per tradimento. La congiura fu scoperta da Carlo, e i Viarani, dichiarati colpevoli “lesae maiestatis” dal potestà Francesco Vizzani, bolognese (succeduto ad un Bartolommeo Cartari, reggiano), furon posti in bando e s’ebbero confiscati i beni.

1469

ma quando fu pubblicata la sentenza, Andrea Viarani (il quale fu buon cultore delle lettere e della poesia) era già (12 agosto 1469) stato decapitato in Ferrara, per aver preso parte ad un attentato contro Borso d’Este insieme con Gian Ludovico Pio da Carpi, del quale era cancelliere. A Faenza, in luogo dè Viarani, entrò nelle grazie del principe l’illustre legista faentino Francesco Cittadini, che ebbe l’alto ufficio di vicario, o primo ministro.
Taddeo signore d’Imola, frattanto, dava sua figlia Zaffira in moglie a quel Pino Ordelaffi di Forlì che, vedovo di Barbara Manfredi, era divenuto, come vedemmo, ostile ad Astorgio II; ed un tal Battaglino da Faenza, allora, cogliendo il buon momento che Pino s’era recato ad Imola a celebrare le nozze novelle (aprile del’69), riuscì a liberare, in Forlì, dalla trista prigionia la povera Elisabetta, vedova di Cecco Ordelaffi: al che diè segreto aiuto Carlo II Manfredi, il quale la notte del 16 aprile s’accostò con armati alla porta forlivese di Schiavonia, ed accolse, con i nipoti Anton Maria, Francesco, Marzia e Giulia, l’infelice sorella, ricoverandola a Faenza, ov’ella di lì a poco uscì di vita (8 agosto).

1470

Alla morte del surricordato vescovo Bartolommeo Gandolfi (1470), Federico Manfredi fu nominato novellamente (e questa volta con approvazione pontificia) vescovo di Faenza: e le diverse cariche ecclesiastiche da lui già avute in così giovanile età, e la sua ripetuta elevazione alla cattedra episcopale, dimostrano all’evidenza quanto stesse a cuore al Capitolo il far cosa grata ai Manfredi. Il cronista Ubertelli dice, a questo proposito, ma sotto l’anno 1471, che “ morì a dì 10 di luglio messer Bartolomeo Gandolfi, vescovo della città, in loco del quale fu posto messer Federico Manfredi, fratello del signor vescovo” . che Federico, il quale fu (come vedremo) pessimo uomo e pessimo vescovo, si macchiasse di un tal delitto, non stenteremo a credere; ma che il Gandolfi morisse nel ’71 è apertamente contrastato dal verbale d’una seduta del Consiglio generale di Faenza, in data 21 decembre 1470, conservatoci dall’Azzurrini nel Liber Rubeus, in cui è detto che Federico Manfredi, vescovo di Faenza, avendo comprato una casa già di Ugolino di ser Guido Varani (i cui beni, come sappiamo, erano stati confiscati) chiede al consiglio anche il possesso di un vicolo contiguo.
Né vale l’argomentazione del Valmigli (XI, 90-93) il quale, a sostegno dell’Ubertelli, suppone che l’appellativo vescovo di Faenza sia una interpolazione posteriore; chè quel verbale ci è pur conservato dal codice 135 dell’archivio comunale (Genealogia dei Paganelli, cfr. Ballardini, pag. 56 e segg.), dove è detto che la copia d’esso verbale è tolta dai registri dei consigli, o libri reformationum (oggidì perduti), e dove è ripetuto l’appellativo “vescovo di Faenza”. Ove si consideri, poi, che un atto del 19 luglio 1470 attribuisce ancora a Federico il solo titolo di protonotario, sarà facile concludere che costui succedesse nell’episcopato al Gandolfi tra il 19 luglio e il 21 decembre dello stesso anno.
E da che si è qui ricordato il Consiglio generale, non vogliamo tacere che il Valmigli, appoggiandosi a memorie autentiche, afferma che cento continuavano ad essere i consiglieri (25 per quartiere); e che otto erano gli Anziani della città (2 per quartiere), il cui ufficio durava due mesi. Ciò non contrasta, crediamo, a quanto riferimmo dagli statuti del 1410 (pag.139), che, ciò è, gli Anziani erano eletti nel mese d’ottobre per un anno: tale formula, infatti, deve intendersi probabilmente nel senso che nell’ottobre di ogni anno si compilasse l’elenco intero dei 48 Anziani (12 per quartiere), i quali divisi in sei mute di otto membri ciascuna (2 per quartiere), presiedute da un priore, dovessero a turno assumere (proprio come chiaramente risulta dagli statuti posteriori del 1527) la direzione amministrativa della città di bimestre in bimestre.
Intanto Carlo II Manfredi continuava le tradizioni militari e politiche della sua casa, prendendo parte attiva agli avvenimenti principali d’Italia; strettasi, infatti, il 22 decembre una nuova lega tra il papa Paolo II, il re Ferdinando di Napoli e di Sicilia, il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, i Fiorentini, Borso d’Este, Venezia, per opporsi ai progressi dei Turchi, i quali avevano tolto Negroponte alla repubblica veneta.

1471

Con pubblico istrumento del 14 novembre del 1471 entrava nella coalizione ed era condotto agli stipendi d’essa anche il magnifico signor di Faenza. Il quale in quell’anno medesimo (4 agosto), si era unito in matrimonio con la leggiadra Costanza del fu Rodolfo Varano, signore di Camerino, ottenendone una dote di 1500 ducati d’oro, tra le feste e le allegrezze pubbliche (lo sposo aveva 33 anni, e la sposa ne aveva 20).

1472

Da tale unione nacque il 5 agosto del 1472 un figlio che fu appellato Ottaviano Domenico Maria, e che doveva essere riserbato anch’egli, riprendendo la tragica tradizione di sua famiglia, ad una fine dolorosa. Ma la sua nascita fu intanto cagione di nuove manifestazioni di gioia del buon popolo faentino.
Mentre parea prosperare la fortuna di Carlo, precipitava quella del cugino suo Taddeo, che il perfido figlio Guidaccio, per usurpargli il dominio, fè imprigionare nella rocca d’Imola, il 23 decembre del ’71. Ma Guidaccio, non fu così scaltro da saper conservare la preda; chè, chiamato a Milano nel ’72 da Galeazzo Maria Sforza con lusinghiere promesse, accettò la mediazione offertagli per pacificarsi co’l padre, e consegnò Imola allo Sforza, ricevendone in compenso, per Taddeo, liberato di prigione, il marchesato di Castelnuovo presso Tortona, e per sé quattromila ducati annui di provvigione e la promessa della mano di Caterina, figlia di Galeazzo Maria medesimo. Ma questi non tenne la parola; chè, quanto a Taddeo, lo investì invece del marchesato di Bosco d’Alessandria, e poi gli tolse anche quello; e quanto a Guidaccio, lo Sforza gli diè in moglie la propria sorella naturale Fiordalisa, invece che Caterina, la quale pensò esser meglio maritare a Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV. Vane furono dipoi le rimostranze degli ultimi discendenti di quel ramo manfrediane (Galeazzo, figlio di Guidaccio, e Taddeo iuniore) per riavere dai nuovi padroni di Lombardia almeno quell’ultima reliquia dell’antico splendore: triste sparire, questo, di fortune e ricchezze male acquistate.
Profittando della pace che or godeva il suo stato, Carlo II Manfredi pose mente al decoro ed abbellimento della città, ed all’accrescimento del dominio. Perciò fin dal ’69 avea fatto togliere di mezzo alla piazza il così detto pedrone, ch’era una pietra ove un singolar costume voleva fossero dal giudice condotti i falliti, ossia coloro che “cedevano a beni”, e quvi fossero obbligati a batter costì sopra tre volte la men nobile parte del corpo, tra le risa e il sollazzo generale, dicendo “cedo bonis”.

1473-1474

Parimente, mentre da un lato, nell’aprile del 1473, Carlo comprava dall’arcivescovo di Ravenna, con l’assenso del papa, l’ormai quasi distrutto castello d’Oriolo, e ne incominciava la ricostruzione, d’altro canto, considerando egli l’angustia, irregolarità e bruttura delle strade di Faenza, fiancheggiate da portici sostenuti con rozze travi, ordinava la demolizione di que’ portici, incominciata nel ’72, e proseguita nel ’73. Ma di ciò, come pure degli abbellimenti fatti fare da Carlo al palazzo già del popolo, ed ora di sua residenza, e della riedificazione del duomo, promossa e proseguita dal vescovo Federico (il quale quest’unico merito ebbe, e pose la prima pietra del novello tempio il 26 maggio 1474), sarà detto meglio a suo luogo, ossia in quella parte di questo libro, la quale raccoglie le memorie e le vicende artistiche della città.
Qui è da narrare piuttosto come, mentre Carlo II co’ l suo imperioso governo si alienava l’animo de’ cittadini (e le ire di molti erano state acuite dal su detto atterramento dè portici, avvenuto senza l’assenso dè proprietarii, il cui malcontento non cessò neanche quando Carlo li ebbe ristorati in parte dei danni subiti), d’altro canto il vescovo Federico, per la sua sordida avarizia e per i suoi abominevoli vizi, si rendeva ogni di più odioso. Un atto notarile del 5 ottobre del ’71 attesta che i canonici ed il clero deliberarono una donazione al vescovo di ben duecento ducati d’oro (detta auxilium caritativum); e il Valmigli (XI,121) benevolmente suppone che cotesto aiuto fosse dato per agevolare a Federico la grande intrapresa della ricostruzione della cattedrale. Dico benevolmente, perché è certo che Federico fu un ingordo accumulatore di denaro e di beni, e perfino un incettatore di grani e di cereali, che rivendeva poi al minuto, con grave danno dei poveri; onde non ci meraviglierebbe punto che il clero avesse dovuto deliberare la donazione su detta per soddisfarne la cupidigia, e quasi per imposizione di lui, che era riuscito talmente ad insinuarsi nell’animo del fratello Carlo II, da avere ormai gran parte del maneggio delle cose dello stato.

1476

A questo deve aggiungersi che, sorta una grave discordia con gli altri due fratelli Galeotto e Lancellotto (che erano sdegnati per esser tenuti dispoticamente lontani da ogni affare di governo), questi avean dovuto esiliar da Faenza, riparando il primo a 1476 Ravenna, ed il secondo a Forlì (febbraio, 1476) dove fu bene accolto da Pino Ordelaffi, già suo cognato, per odio contro Carlo, il quale “tenea in protettione li figlioli di Cecco Ordelaffi”. Il qual Pino diè più tardi ospitalità anche a Galeotto, provocando le ire di Carlo II e di Federico; onde temendo costoro d’un assalto a Faenza da parte degli esuli fratelli, si diedero nel novembre del ’76 a pereparar le opportune difese, ordinando una spietata distruzione di viti e di piante né campi attorno a Faenza, affinché il luogo non offrisse vettovaglie ai rivali. Il che suscitò novello sdegno negli abitanti.

1477

Sui primi del ’77, poi, Carlo Manfredi comandò fosse fatta la compilazione d’un nuovo èstimo delle terre del contado, ingiungendo ai proprietari di dar nota esatta dè loro possessi: e questo accertamento dei beni, foriero di nuove imposte e di nuovi gravami, accrebbe gli odi e oscurò ognor più l’avvenire. In qull’anno medesimo Carlo infermava gravemente; il vescovo Federico acquistò allora anche un maggior ascendente su l’animo di lui, e spadroneggiò ognor più nella cosa pubblica, fino ad esser nominato luogotenente generale dello stato (l’ufficio di vicario, ossia di primo ministro, era passato, per la morte del Cittadini surricordato, al giurista faentino Giovanni Spavaldi, fino dal ’74).
Della grave controversia tra i fratelli Manfredi ci resta oggi il ricordo negli atti civili (12-13-14 marzo, e 23-29 aprile 1477) fatti alla presenza di giovanni Alimento Negri, legato di Bologna, nella causa vertente tra Federico vescovo e Carlo II da un lato, e Lancellotto dall’altro (Docc. Del Comune di Faenza, in Bibl. Com., busta XXIII); e dello spadroneggiare del vescovo è prova nel fatto che, premendo a Federico rimanesse il vicariato di Faenza nei discendenti dell’infermo Carlo, tanto si adoperò presso il pontefice Sisto IV, che questi inviò a Faenza con lettere credenziali l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati (quello stesso che fu implicato nella congiura dè Pazzi a Firenze, e miseramente vi finì); e il Salviati, convocato il Consiglio generale il 2 settembre in casa del vescovo Federico, dichiarò essere intendimento del papa (il quale avea udito più volte correr voce della morte del signore, Carlo II) che Ottaviano, primogenito di Carlo, succedesse nella signoria al padre, qual legittimo vicario della Chiesa, quantunque, per diritto di successione e per volontà altresì da Astorgio II espressa nel suo testamento, la signoria scadesse a Galeotto, fratello del signore. Al che, narra l’Ubertelli cronista, umilmente annuirono i consiglieri. Il 2 ottobre, poi, adunatosi di nuovo il consiglio, ma questa volta solennemente nel pubblico palagio (copia del verbale di tal seduta ci è fortunatamente conservata nel citato codice n.135, cc 34 sgg., dell’archivio comunale, cfr.Ballardini, p. 68), presenti anche i governatori di Val d’Amone, i Massari, i quattro rappresentanti dei castelli di Russi, Solarolo, Granarolo ed Oriolo, la consorte dell’infermo Carlo II, Costanza da Varano, il figliuolo di lei Ottaviano, ed il vescovo Manfredi, luogotenente generale del signore (era priore degli Anziani il predetto dottor Giovanni Spavaldi); la signora Costanza invitò tutti i presenti a giurar fedeltà al detto Ottaviano, ed a riconoscerlo, nel caso di morte di Carlo, per signore e vicario apostolico di Faenza e distretto.
Se non che, Galeotto non era uomo da lasciarsi così facilmente sopraffare: chè anzi, non potendo più egli stare alle mosse, da Ravenna, dove impazientemente attendeva la notizia della morte del fratello, marciò su Granarolo, e lo ebbe di sorpresa il18 ottobre, introducendovi degli armigeri nascosti in due carri di fieno (“Niccolo da Lozano- narra il cronista Ubertelli- siando vicario, aperse la porta e calò il ponte a due carra di robba di Giacomo Rambello, il quale suso dette carra havea fanti di messer Galeotto, et dietro le carra; come furno suso il ponte levaturo, il brà villano fermassi su’l ponte, et li fanti saltorno dentro, et presero il vicario, quale si reputava astuto…”); poi, unitosi con Lancellotto, che era venuto da Forlì, Galeotto cavalcò in Val d’Amone e prese Brisighella, tranne la rocca, rimasta fedele a Carlo. Allora il vescovo Federico, al colmo dell’ira, raccoglie le milizie di Carlo, insieme con quelle ausiliarie di Roberto Malatesti, signore di Rimini, e di Girolamo Riario, divenuto signore d’Imola, e le guida egli stesso contro ai fratelli, raggiungendoli e sconfiggendoli presso a Varnello, dove poco mancò non fossero fatti prigionieri Lancellotto e il suo amico messer Gregorio Bazzolini, i quali raggiunsero in fuga Galeotto nel castello di Baccagnano. Ma anche da Baccagnano furono costretti a sloggiare i due esuli Manfredi, riducendosi il 22 ottobre nuovamente in Granarolo, mentre le vincitrici armi del vescovo, per la via della Torre di Gesso, entravano in Brisighella. Per riavere anche Granarolo, Federico implorò per la seconda volta gli aiuti del Malatesti e del Riario, promettendo a quest’ultimo la restituzione di Riolo Secco e Montebattaglia; e già costoro avevano appressate le loro soldatesche al disputato castello, quando, sdegnati contro Federico, il quale indugiava a mantenere la promessa perché era stata fatta contro il volere di Carlo II, si ritrassero ben presto, lasciando solo il bollente monsignore a rodersi della mancata vendetta.
Galeotto fu pronto allora ad approfittarne: recatosi, infatti, a Forlì presso Pino Ordelaffi, venne quivi ad accordi con messer Lorenzo da Castello, ambasciatore del papa, promettendo che se Sisto IV e il conte Girolamo Riario lo avessero aiutato ad entrare in Faenza, avrebbe ben egli davvero restituito al conte e Riolo Secco e Montebattaglia.
Ma ecco un impreveduto caso agevolargli d’un tratto l’impresa. Secondo un’antica consuetudine, il Consiglio generale ogni anno, accertata la quantità del raccolto, fissava il prezzo o calmiere del grano, a fine di impedire la malefica opera degl’incettatori, che tentavano venderlo con esorbitante guadagno, a danno dè poveri; e Carlo II convocò a tal uopo il consiglio il 12 novembre, e questo, ordinata prima la regolare verifica dei granai, da farsi per mezzo di una commissione di quattro ufficiali dell’annona frumentaria, stabilì poi, in una novella adunanza, che il prezzo del grano non dovesse oltrepassare i 45 soldi per corba. Ciò non riuscì gradito a monsignor vescovo, come a colui che avea i magazzini pieni zeppi di frumento, e volea venderlo bene; onde persuase al fratello d’innalzare arbitrariamente il calmiera da 45 a 50 soldi. L’atto ingordamente tirannico colmò la misura dello sdegno popolare; e la mattina del sabato 15 novembre, giorno di mercato, scoppiò un terribile tumulto al grido di abbondanza, mentre la campana di s.Francesco suonava a stormo, ed il vescovo Federico accorreva in piazza, alla testa di 150 provvisionati. Invano Carlo II venne anch’egli su la piazza, e fece annunziare, tra lo squillar delle trombe, che da quel giorno fino a Natale ogni corba di grano costerebbe soldi 30, e dal Natale al tempo del raccolto soldi 40; chè il popolo, imbaldanzito di quella prima vittoria, e malcontento insieme d’una così rapida e semplice soluzione d’una sommossa che prometteva ben altro, rinfocola la rivolta.
Quelli di porta Ravegnano e di porta Imolese si radunano nella chiesa di s.Francesco, ove giurano di non abbandonarsi l’unn l’altro, risoluti ormai di farla finita col governo arbitrario del vescovo, mentre Carlo II è signore soltanto di nome. Ed allora madonna Costanza da Varano, moglie di Carlo, con virile animo si conduce, seguita dagli Anziani, su’l luogo del tumulto, per placarlo con dolci maniere. Accolta dal solito grido “Carlo, e non Federico!”, ella è costretta a ritirarsi “cum tubicinibus in sacco”, scrive un lepido cronista, “colle pive nel sacco” (Mittarelli, col.348): mentre i partigiani di monsignore, parassiti minori viventi alle spalle del parassita più grosso, restavano, dice lo stesso cronista, con legittima compiacenza e con ingenua semplicità, “cum manibus plenis muscarum”. L’ammutinamento si fa generale, al grido di arme, arme; in poche ore le quattro porte della città sono occupate dai ribelli, i quali si eleggono a capitano il giurista Melchiorre Tonduzzi; e allora il vescovo, che aveva fatto il gradasso finora, quasi morto dallo spavento fugge nella rocca, portando seco 100000 scudi d’oro, e lasciando però, nella fretta del partire, molte altre monete che poi furon trovate in grossi sacchetti né pozzi e nelle fosse di casa sua. E in quella fuga lo accompagnano tre degni satelliti: un Girolamo “ suo tabacchino et auditore”, un Pier Matteo, detto il bestemmiatore, ed un Ugolino, detto bellezza, “ sua bardassa- scrive il cronista Ubertelli- che era assai dissoluto in tal vitio”. Durante la notte, poi, il popolo corse infuriato all’episcopio, alla casa, ed ai magazzini del vescovo, ove questi avea accumulato più di 8000 corbe di grano, 20000 libbre d’olio, vino, legna, ed altro ben di Dio, e tutto pose tumultuosamente a ruba ed a sacco.
Frattanto Carlo II tentava un ultimo disperato colpo. Uscì di Palazzo, infatti, seguito dai suoi, e andò verso porta Ravegnana, ove più ferveva la sommossa; e quivi tentò, con la sua presenza, di persuadere al popolo di deporre le armi; ma il popolo incominciò a gridare esser giunto il tempo che Federico lasciasse il vescovado e il potere, e che Galeotto e Lancellotto rientrassero in città a vivere in pace con il signore. Carlo acconsentì, e s’indusse perfino a spedire un’ambasceria a Galeotto per invitarlo a venire a Faenza, purchè entrasse senza seguito d’uomini d’arme; ma nella notte, presago della prossima fine del suo dominio, si rifugiava anch’egli nella rocca, insieme co’l figlio Ottaviano, mentre il vescovo Federico, per timore d’esser tradito e dato in mano a Galeotto, improvvisamente fuggiva a Lugo, con i tre amiconi detti di sopra. E nella gran fretta, s’era monsignore perfino dimenticato di finirsi di vestire, uscendo dalla rocca in calze ed in cappellina, dicono i cronisti, ingenuamente scandalizzati.
La mattina dipoi, 16 novembre, Galeotto Manfredi, che, di tutto informato, da s.Maria di Porto presso Ravenna s’era condotto a Granarolo, e s’era tenuto pronto ad entrare, faceva il suo ingresso solenne da porta Ravegnana, seguito da suoi armigeri, ed acclamato dal popolo che urlava a squarciagola: Gallo, Gallo, viva Gallo! A lui tennero dietro i suoi alleati, tra i quali il conte Giov. Francesco da Bagno, condottiero della Chiesa; Pino Ordelaffi, signore di Forlì, con tre belle spingarde; Battista da Montesacco, condottiero del conte Girolamo Riario, signore di Bologna, con poca gente, è vero, ma in compenso, con una gran bombarda. Madonna Costanza, che era rimasta con Gian Galeazzo da Campofregoso, conestabile ossia generale di Carlo II, e con 50 uomini a guardia del palazzo, si rifugiò anch’essa nella rocca.
Alla quale Galeotto, solennemente proclamato signore di Faenza il dì dopo, pose subito un regolare assedio; e poiché Carlo II avea richiesto d’aiuto il re di Napoli, e questi aveva inviato alla volta di Faenza Federico da Montefeltro, duca d’Urbino, suo condottiero, cui s’erano uniti Costanzo Sforza, signore di Pesaro, e il Malatesti di Rimini; e poiché, inoltre, il Montefeltro e lo Sforza eran giunti su quel di Cesena, e il Malatesti a Meldola, ed avevano incominciato a saccheggiare il forlivese, mentre Pino Ordelaffi era a prestar aiutoin Faenza a Galeotto; questi si raccomandò a Lorenzo dè Medici (signore di fatto, se non di nome, della repubblica fiorentina) affinché lo volesse soccorrere. “Vostra Magnificentia- scriveva il Manfredi- voglia fare ugni pore sia aiutato et favorito a questa mia impresa, et quella ottenuta, la V.M. vedrà che questo stato sarà più suo ca mio” (Messeri, p.19). l’assediata fortezza venne ben presto a trattative; le quali, per i buoni uffici del giureconsulto Antonio Dighidoni, modenese, ambasciatore del signore di Ferrara e commissario di Lugo, giunsero finalmente a buon porto il 9 decembre. Salve le persone e gli averi, Carlo, la moglie ed il figlio Ottaviano uscissero pure di rocca, ma rinunziassero al dominio. E così avvenne. Ma prima d’andarsene Carlo volle dar novella prova della malvagità mai smentita dalla sua stirpe, facendo barbaramente uccidere nelle prigioni della rocca un ser Niccolò di Cenne degli indovini, che un rogito del 1487 dichiara tenuto da lui Carlo e da Federico per molto tempo in duro carcere, soltanto perché amico e caldo fautore di Galeotto. Carlo, la moglie Costanza, il figlio Ottaviano, i nipoti Ordelaffi ripararono dapprima a Lugo, accompagnati da molti nibili personaggi, tra cui Giovanni II Bentivoglio, il quale, obbedendo alle istruzioni di Bona di Savoia, duchessa di Milano e vedova di Galeazzo Maria Sforza (a cui Galeotto avea chiesto aiuti per impadronirsi del dominio di Faenza), condusse “il negozio e la gesta” dell’assedio della rocca, della resa di Carlo, della fuga di quest’ultimo, e se ne tornò poi da Lugo a Faenza con allegro viso, già maturando in cuore il desiderio di sposr la figliuola Francesca al magnifico signor Galeotto, e fors’anche di stender l’avida mano sull’agognata città. Da Lugo gli esuli Manfredi andarono poi a Ferrara, e di là a Napoli, secondo altri. Fatto è che in breve tutti (tranne Ottaviano) morirono: chi dice a Napolo, chi a Rimini, dove, secondo l’Azzurrini (Cron. di Faenza), Carlo sarebbe accorso presso la moglie gravemente inferma, morendo dello stesso male di lei nell’84. il Marchesi (Hist. di Forlì) narra, invece, che Carlo, nell’andare a Napoli, lasciò la moglie ed i nipoti Ordelaffi a Fano, dov’ella s’ammalò e morì, seguita ben presto nella tomba dall’addolorato marito.

1478

Quanto a Federico, non visse egli fino all’84, come affermano il Tonduzzi (p.527) e, dietro a lui, non pochi altri; egli morì, invece, sicuramente prima del 30 settembre 1478, da che un rogito di quel giorno ci fa sapere che, vacando la cattedra episcopale per essere uscito di vita il vescovo Manfredi, il capitolo elegge a successore di lui il monaco camaldolese Rodolfo Missiroli da Ducenta (ma tale elezione non fu approvata dal papa Sisto IV); e forse la morte di Federico avvenne il 27 settembre, ove si voglia dar fede ad alcune memorie anonime (cfr.Valmigli, XI, 212), essendo fuor d’ogni controversia che in Rimini, ov’egli erasi rifugiato, colto da grave morbo, Federico dettava il suo testamento il 19 settembre, nel quale nominava come suoi figliuoli naturali un Carlo, un Astorgio canonico faentino, e un Marc’Antonio, nati da una cotal donna appellata nobile; mentre un codicillo, aggiunto al dì appresso, rammenta un Girolamo, nato ex alia nobile. Anche d’una figliuola chiamata Lucia, che poi fu monaca vallombrosana di s.Umiltà, fa menzione il Litta; e sebbene il vescovo non ne faccia motto nel suo testamento, pure ella per tale è tenuta e ripetuta né capitoli di Faenza con la repubblica veneta del 31 gennaio 1504 (archivio com. di Faenza, cod. 96/2, cfr. Ballardini, pag. 23-24). Prima di morire, del resto, avea l’ndomito Federico tentato qualche novità, come, ad esempio, quando il 23 gennaio del’78 capitò in Modigliana, per macchinare con l’amico don Cristoforo Piazza il mezzo di riaver Faenza; ma Galeotto ne scrisse subito alla repubblica fiorentina, perché provvedesse. È da notare che, prima ancora che il capitolo eleggesse a successore del defunto Federico il Missiroli predetto, Galeotto Manfredi avea invocata dalla s.Sede la nomina a vescovo di Luca Pasi, protonotario apostolico, e ne avea avuta da Sisto IV una ripulsa; il qual Pasi era stato dalla s.Sede medesima spedito a Faenza, dopo la cacciata del vescovo Federico, con autorità di vicario apostolico. Alla cattedra episcopale faentina fu, invece, eletto il bolognese Battista Dè Canonici, professore di teologia nello studio della sua città nativa, del quale si ha il primo ricordo in un rogito dell’11 settembre 1479.
Ottenuta l’agognata signoria di Faenza, Galeotto seguì una scaltra politica, intesa alla legittimazione del recente dominio, ed alla difesa da ogni esterno pericolo. Così per mezzo del suo segretario cav.dott. Gregorio Bazzolini, a tal uopo creato procuratore del Comune degli Anziani, ottenne da Sisto IV la revoca di Carlo, e la propria investitura del vicariato di Faenza, dichiarandosi pronto de recarsi agli stipendi della Chiesa, mercè i buoni uffici del conte Girolamo Riario, signore d’Imola; così pariamente ebbe cura di rivolgersi con filiale devozione al papa, sempre per intercessione del Riario, impetrandone aiuti materiali e morali per la ricuperazione del castello di Granarolo, da lui commesso ai Cotignolesi quando da Granarolo mosse su Faenza, e che costoro non volean punto restituire, sebbene già si fosse rivolto agli ufficiali del ducato di Milano, da cui dipendeva allora la terra di Cotignola; onde, intromessosi il papa nella questione (che parea non risolversi a causa dè maneggi dello spodestato vescovo Federico presso il re di Napoli), il governo di Milano inviava un suo commissario, cotal Geraldo Cerreto, a trattare della richiesta restituzione; e dopo lunghe pratiche fu alfine a Galeotto restituito Granarolo nel 1478. quanto alle altre rocche del suo dominio (Solarolo, Brisighella, Torre del Gesso, Rontana, Monte Albergo, Calamello, s.Cassiano, Oriolo, Riolo Secco, Montebattaglia, Separano, Fernazzano, Monte Maggiore, Gattara, Pietra di Mauro, Russi) il Manfredi vi avea già nominati dè nuovi castellani a lui fedeli, nel modo istesso che avea dato il comando della rocca di Faenza a Gasparino di Cenne di Dirotto Calderoni, e nell’ufficio di visconte e capitano di Val d’Amone avea sostituito al veneto Bartolommeo Venerio il giurista faentino Bartolommeo Pasi, già consigliere di Astorgio II; a vicario suo proprio, poi, ossia a primo ministro, avea eletto subito quel Melchiorre Tonduzzi che vedemmo a capo della ribellione contro Carlo II e Federico. Di più il 14 aprile del ’78 egli creò il suo segretario Fabrizio Stati da Urbino proprio procuratore presso il conte Riario d’Imola e presso Pino Ordelaffi di Forlì, affinché a ribadire la concordia con quei principi, facesse loro e ne ricevesse formale promessa di astensione da qualunque reciproca offesa. Ed in quell’anno stesso, ciò è appena salito al potere, volle dimostrare al popolo la sua liberalità, acquistando egli stesso da un mercante di Carpi alcune migliaie di corbe di grano, quantunque è si trovasse così esausto di danaro da dover chiedere al papa un soccorso pecuniario.

1479

Né gli dettero pace le mene dello spodestato fratello per riaver il perduto dominio; una lettera di Galeotto a Lorenzo dè Medici, infatti, in data 27 settembre 1479, informa che Carlo II ha parlato in Fano con due sudditi faentini e con un tale da Crema, manifestando il proposito di tentar l’assalto di Faenza: onde Galeotto si raccomanda che Lorenzo lo aiuti con l’invio di 150 fanti.
Quando, poi, ebbe avuta mala riuscita la congiura dè Pazzi in Firenze contro i Medici, Nel fuoco della quale papa Sisto aveva largamente soffiato; e quando, dopo l’interdetto lanciato da Sisto contro Firenze, le milizie papali ruppero guerra alla fiorentina repubblica solo perché non era riuscito alla politica ecclesiastica di soffocare quella potenza medicea che più di ogni altra contrastava alla ricostituzione dello stato pontificio in Romagna e nell’Umbria; la diplomazia di Galeotto cambiò rotta d’un tratto, e divenne risolutamente contraria al pontefice.egli dovette vedre ora probabilmente il proprio maggior pericolo in quel vecchio cruccioso papa, da cui v’era da attendersi, forse, un colpo di mano su le romagne, che rimettesse queste ultime, cacciati i signorotti, sotto il diretto dominio della Chiesa ( e la sostituzione, in Imola, della signoria del Riario, nipote di Sisto IV, a quella di Taddeo Manfredi, cugino di Galeotto, avvenuta da pochi anni, potea essere un increscioso precedente): e per naturale istinto di conservazione Galeotto s’abbandonò tutto nelle braccia di Lorenzo dè Medici, che a sua volta vedeva nell’alleanza del Manfredi un buon punto avanzato al di là dell’Appennino, contro l’aumento della potenza ecclesiastica, tanto molesta a Firenze, e contro ogni possibile espansione di Milano e di Venezia. E così, opposta al papa ed al re di Napoli collegati, si formò l’alleanza tra Firenze, il ducato di Milano, e i signori di Faenza, Forlì e Pesaro; e tra i capitani faentini fu pur Lancellotto Manfredi. Il Riario, nemico dei Medici, procurò allora che il papa chiedesse a Galeotto, come a suo suddito, alcune squadre di soldati; e Galeotto abilmente tenendo il piede in due staffe, rispose con ossequenti parole esser pronto a concederne una. Né dopo la rotta disastrosa dell’esercito fiorentino al Poggio Imperiale( 8 sett.’79), nella quale fu fatto prigione un Giov. Antonio Scariotto da Faenza, per parte dè Fiorentini, affinché “in questi scompigli non vacillasse”; chè il prode Galeotto si condusse senz’altro cò suoi a Brisighella, per unirsi quivi con le armi di Costanzo Sforza, signore di Pesaro, pronto ad ogni cimento.

1480

Seguì, poi, la pace del 1480, conchiusa personalmente dall’accorto Lorenzo dè Medici co’l re di Napoli, onde anche Sisto IV fu indotto a rinunciare alle sue speranze su Firenze; indi Lorenzo, di nemico fattosi alleato del regno di Napoli, invitò Galeotto ad entrare anche lui nella nuova lega, e questi gli rispose il 30 aprile che affidava la negoziazione di ciò al suo residente in Firenze, Girolamo Salecchi. Vero è che contemporaneamente il Manfredi faceva suo procuratore il giurista Andrea Recuperati, da Brisighella, per acconciarsi i servigi di Venezia, onde il Valmigli nota giustamente il poco onesto procedere di lui (XI, 230); ma è un fatto che l’accordo con Firenze fu fermato nel mese seguente dallo stesso Recuperati (due lettere di Galeotto a quest’ultimo, pubblicate dal Tonduzzi, a pagg.520-21, ci apprendono ch’egli chiedeva, come prezzo della sua condotta, almeno 18000 ducati in tempo di pace, e 25000 in tempo di guerra, più le terre di Valdeseno e Bagnara, ove fossero state tolte al nemico), giacchè ora in particolar modo il signor di Faenza si sentiva spinto a continuare nel suo indirizzo antipapale.
Era morto, infatti, l’ 11 febbraio di quello stesso anno il signor di Forlì, Pino Ordelaffi, lasciando erede il figlio naturale Sinibaldo, appena dodicenne, sotto la tutela del papa, del re di Napoli e della sua terza moglie Lucrezia Pico della Mirandola; ma i Forlivese, sollevatisi contro il malgoverno di costei e di suo fratello Antonio, condottosi a Forlì ad aiutarla in tale occasione, acclamarono signori i fratelli Anton Maria e Francesco, figli legittimi di Cecco Ordelaffi, fratello di Pino, e di Elisabetta Manfredi, i quali erano ricoverati (pare), sotto la protezione dello zio materno Galeotto in Modigliana; e già Lucrezia e Sinibaldo erano assediati nella rocca, e i due fratelli Anton Maria e Francesco, ricevuti trionfalmente l’8 luglio in Forlì, speravano di essere innalzati al loro legittimo dominio, nonostante che Sisto IV avesse inviato Federico d’Urbino e Roberto Malatesti di Rimini, con aiuti veneti, a sostener Sinibaldo, quando quest’ultimo d’un tratto morì. Allora il papa colse tale occasione per proclamare e, con le milizie mandate, imporre come signore di Forlì il suo favorito nipote Girolamo Riario, che già era, come sappiamo, padrone d’Imola; e i due Ordelaffi, nuovamente raminghi dopo la fugace illusione, cercaron rifugio a Venezia, mentre finiva così dopo un secolo e mezzo di signoria, la fortuna della loro famiglia, che ebbe anch’essa, come quasi tutte le alte del Rinascimento, virtù cavalleresche, e delitti, e sventure. Spiacque tutto ciò, grandemente, a Galeotto, oltre che per i due nipoti anche per quella politica nepotista del pontefice che dovea essere solenne avvertimento a tutti i principi dello stato ecclesiastico; ed aiutò più volte (sebbene inutilmente) Anton Maria e Francesco a tentar la cacciata del Riario da Forlì.

1481

Così, per esempio, nell’ottobre del 1481 (avea in tale anno Galeotto di già ottenuto il desiderato castello di Bagnara, come risulta da una concessione ch’ei fece agli abitanti di esso, d’essere esenti dalla macina e da altre gabelle), sotto pretesto che il Riario era andato a Venezia per macchinare di toglier Faenza al Manfredi, questi ordì con alcuni Forlivese di toglier Faenza al Manfredi, questi ordì con alcuni Forlivese di toglier Faenza al Manfredi, questi ordì con alcuni Forlivese un complotto; e con aiuti del mduca di Ferrara e dè Fiorentini avea radunati circa 1200 uomini per dare l’assalto a Forlì; se non che, il governatore di questa città, Giov. Francesco Tolentino, scoprì la congiura, arrestò alcuni congiurati e, con l’aiuto del signor di Rimini e del governatore di Ravenna, preparò una difesa tale che Galeotto desistè da ogni tentativo. Non dovette il Manfredi, adunque, certamente pentirsi d’aver aderito alla lega anti-paple formatasi tra il re di Napoli, Firenze e il ducato di Milano.

1482

Quando il pontefice, spinto dall’ambizione di consolidare e d’ingrandire i propri domini, mosse guerra nel 1482 al duca Ercole D’Este, signore di Ferrara, ed ebbe tirati dalla sua i Veneziani (che con quel duca avevano frequenti contese), la lega difese Ferrara, ed il Manfredi fece egregiamente il dover suo di collegato e di soldato valoroso. Narra il Muratori (Antichità Estensi,II, 239) che Girolamo Riario instigò i Veneziani a muovere contro il duca di Ferrara, temendo che fosse proceduto da segrete informazioni del duca Ercole, di Lorenzo dè Medici, di Giovanni Bentivoglio, che Galeotto Manfredi non gli avesse attenuta la promessa di cedergli Faenza per 70000 ducati d’oro; ma di tale promessa il Manfredi non trovasi traccia né presso i cronisti, nènei documenti.
Nell’archivio di Stato di Firenze (Mediceo av. Il principe) trovansi moltissime lettere di Galeotto a Lorenzo dè Medici, scritte dal 30 marzo ai primi d’agosto dell’82 (filze 61e 54), ed altre tre lettere (filza 54), la prima scritta il 5 maggio dal Cremonino (Damiano d’Ala da Cremona), conestabile di Galeotto, a Galeotto stesso, la seconda scritta il 7 maggio dal capitano di Cotignola al Manfredi, e la terza scritta da Andrea Recuperati, il 5 giugno, al Magnifico: e tutto questo carteggio fornisce preziose notizie, che sarebbero utilissime alla particolareggiata ricostruzione della guerra di Ferrara. Il Manfredi, infatti, informa minutamente Lorenzo il Magnifico delle vicende di quella campagna militare, avvertendolo delle scorrerie delle genti di Venezia e di Ravenna in quel di Bagnacavallo, del grave pericolo che corre Ferrara, e delle mosse del signore di Rimini, che marciava ai danni di Ferrara e di Faenza, e che poi, unitosi con le genti della Chiesa e del Riario, pareva voler andare a campo a Pesaro; sollecita da Lorenzo aiuti di armi e di danaro, specialmente quando il signor di Rimini, giunto a Filetto, minacciava il castello di Russi, che obbediva al Manfredi, e Faenza stessa; né omette di lamentarsi sovente del re di Napoli, che non gli paga il suo servito vecchio, e della lega, che non gli manda il danaro dovutogli. Ma né i danni sofferti da Faenza, né le rappresaglie di Roberto Malatesti, generale dei Veneziani, né l’interdetto papale cntro le lega ed i suoi fautori, scossero punto Galetto dal suo orientamento politico: chè anzi, più tardi, quando i Veneziani ebbero mal ridotto il duca di Ferrara, e mentre il re di Napoli era impedito a recargli soccorso per la rotta toccata alle sue genti presso Velletri ad opra del Riario e del Malatesti, il Manfredi, agl’inviti degli oratori della lega affinché volesse porgere pronto aiuto alla pericolante fortuna dell’Estense, rispose con la lettera del 2 novembre: “…per el stato dell’exellentia di quel signore (di Ferrara), farò quel tanto faria per lo mio proprio, perché ce ho obligo et utilità”.
Del resto, scrivendo tali parole, Galeotto potea vantarsi di aver già fatto qualche cosa; mentre, infatti, il Riario s’avanzava, qual generale della Chiesa, verso il reame di Napoli, ad impedire il passo all’esercito napoletano, i confederati, per ritrarre il conte da tale impresa, avevano mandato Antonio Montefeltro (figlio naturale del duca d’Urbino) con un buon nerbo di milizie, in compagnia del Bentivoglio di bologna (anch’egli aderente alla lega) e del Manfredi, e con la scorta di Anton Maria Ordelaffi, a dar l’assalto a Forlì, per rimettervi quest’ultimo come legittimo signore: e già verso l’alba del 6 agosto gli assalitori erano giunti sotto le mura, e vi avevano appoggiate le scale, quando il governatore di Forlì (che era il vescovo d’Imola), avvisato del pericolo, fece suonare la campana a martello, e respinse gli assalitori. I quali tentarono un secondo assalto la mattina seguente, ma con lo stesso infelice esito, rimanendo la città salda alla fede del Riario. Fallita tale impresa, Galeotto occupò, il 19 agosto, Saturano, bastia nel Forlivese, e la consegnò pochi dì dopo ad Antonio Boscoli, inviato dalla repubblica fiorentina; afferma però l’ammirato (Hist.Fior.) che nel settembre Giov.Francesco Tolentino, tornato da Roma al governo di Forlì, riprese la bastia; ed il Tonduzzi (p.524) aggiunge che vi sopraggiunse mentre i Fiorentini la spianavano.
Mentre così si esplicava l’accorta politica di Galeotto Manfredi, e manifestavansi il suo ardimento ed il suo valore, la scaltra diplomazia di Lorenzo il Magnifico lo induceva ad un matrimonio, diremo così, politico, del quale gravissime e dolorose dovevano essere le conseguenze. Già fino da quando, su’ primi di febbraio del 1480, al Manfredi era morto il fratello Lancellotto (che lasciò i quattro figli naturali Astorgio, Giacomo, Lucrezia e Francesca), Galeotto avea pensato d’ammogliarsi, per assicurare un discendente legittimo alla propria casa. Perciò il 20 agosto del predetto anno aveva data legale procura al suo squadrerio Giampiccinino dè Piccinini affinché si recasse a Rimini, a contrarvi per lui gli sponsali con Atonia del fu Sigismondo Malatesti; ed aveva anche dato procura al predetto Piccinini e ad un cotal frate Silvestro da Forlì (che trovasi mescolato, come gran factotum, in tutti gli affari di Galeotto) affinché trattassero della dote con Roberto Malatesti, fratello di Atonia e signore di Rimini: ma sia che non si accordassero in tali trattative, sia che Roberto avesse avuto notizia d’altri, e non legittimi amori del nostro Galeotto, fatto è che il matrimonio andò a monte, ed Antonia sposò invece, l’11 gennaio dell’81, Ridolfo di Ludovico Gonzaga, marchese di Luzara, da cui fu fatta decapitare in Mantova per adulterio nell’83. i non legittimi amori riferisconsi alle relazioni del Manfredi con la bella Cassandra di Tommaso Pavoni, che egli aveva corteggiata ed amata in Ferrara quando colà viveva in esilio (e ne aveva avuto un figlio, Scipione, che nacque circa il 1472, e per il quale nell’89 Galeotto chiese, senza ottenerla, la commenda di s.Maria Maddalena); la qual Cassandra egli avea fatta venire a Faenza, per averla vicina a suo agio, facendole vestire nel 1480 l’abito di monaca camaldolese nel convento dis. Maglorio, e donandole la possessione detta la Castellina (dove avvenne il truce tradimento di frate Alberico, cfr. p. 77), con la condizione che si trasferisse al convento, dopo la morte della donataria. E cotesta bella Cassandra ferrarese (che un rogito del 23 dicembre dell’81 attesta aver assunto il nome di suor Benedetta da Ferrara) il popolo faentino, non per canzonatura, né per la varietà dei pmposi abbigliamenti (come si fantasticò di poi), ma soltanto per istorpiatura del suo cognome, aveva soprannominata la Pavona. La quale Galeotto Manfredi ebbe sempre carissima, e ricolmò di regali veramente splendidi, di cui sono magnifica testimonianza due elegantissime casse nuziali, probabilmente donate a Cassandra per il suo corredo quand’ella entrò nel convento, in legno scolpito e dorato su fondo turchino anch’esso delicatamente screziato in oro, che sono tutto un rabesco del più puro stile del quattrocento, e che si conservano nel museo civico.
Ma di cotali, diciam così, passatempi privati del signore di Faenza non ebbe scrupolo alcuno Lorenzo il Magnifico quando, per ragioni politiche, ossia per istringere vincoli di parentela tra due principi dello stato ecclesiastico, dei quali l’uno era già nella lega anti-papale, e l’altro bisognava attirarvi, si fece intermediario autorevole e pertinace del matrimonio tra Galeotto e Francesca, figlia di Giovanni II Bentivoglio, signore di Bologna. Il maritaggio era cospicuo, per la potenza del suocero, per le aderenze del parentado, per la ricca dote di più che 6000 fiorini d’oro (dei quali 2000 furono sborsati all’atto degli sponsali nell’agosto dell’81, e quattromila doveano esser pagati dopo le nozze), senza contare le ricche vesti, i gioielli e i doni, che ascendevano alla somma di altri 1000 fiorini; onde il Manfredi, anche perché nulla potea ricusare ad un patrono come il Medici, compresse nell’animo ogni sentimento, e s’adattò alla ragione di stato.
Il matrimonio fu solennemente celebrato in Bologna il 17 febbraio dell’82; e messer Giovanni Bentivoglio fece correre, in tal fausta occasione, nella piazza maggiore una giostra, ponendo a premio una bellissima celata d’argento; e giostrarono il conte Niccolò Rangoni, Floriano Malvezzi, Rinaldo Ariosti, Antonio Bentivoglio e Girolamo Scardovi, fra i quali riportò vittoria il Rangoni, che volle cavallerescamente regalar la celata allo Scardovi, suo giovine avversario, del quale le gentildonne presenti avevano ammirato, palpitando la destrezza e il valore. La Bentivoglio restò poi a Bologna, mentre il marito prendeva parte alla guerra di Ferrara, come si è visto; e finalmente, una bella mattina di luglio, gli sposi recandosi in splendido corteggio a Faenza, ove furono ricevuti con gran pompa e tra le acclamazioni del popolo. Narra l’Azzurrini (Cron. di Faenza) che le feste, i balli, i banchetti pubblici durarono per quindici giorni, e che “la signora Francesca, novella sposa, con inusitata et insolita frequenza dalle dame et gentildonne faentine era visitata e corteggiata”.
Tutta questa gioia ebbe un lieto coronamento nella pace che papa Sisto IV concluse il 12 decembre con Ferrara e con la lega, staccandosi da Venezia, ed alleandosi, anzi, co’ suoi nemici d’ieri, con Firenze, Napoli e il duca di Milano, contro i Veneziani, poi che si fu persuaso che questi ultimi soltanto avrebbero tratto ogni vantaggio da quella guerra. Galeotto fu da Lorenzo dei Medici e dal duca di Milano invitato a far parte della nuova lega, questa volta papale, ed egli iniziò le trattative mettendo prima di tutto per condizione che il proprio stato fosse garantito dagli alleati e che tutti gli aderenti e fautori della lega stessa dovessero essere in protezione del pontefice.

1483

Poi, dopo aver avuto con Lorenzo alcuni abboccamenti, nel 1483, e dopo aver un po’ tentennato, a causa del ritardato pagamento di 2000 ducati da Napoli, 5000 da Milano, oltre ai 3000 che gli occorrevano per pagare il censo del suo vicariato al pontefice, se volea essere reintegrato nel dominio legittimo di Faenza. Dovette poi, è ben vero, stentar moltissimo a riscuotere, almeno in parte, ciò che gli era stato promesso; ma la sua fede, data specialmente al Magnifico, non vacillò; chè anzi, quando un inviato di Costanzo Sforza, signore di Pesaro, si recò da lui nascostamente, ad offrirgli di lasciar la lega e di accordarsi con i Veneziani, i quali gli avrebbero dato quanti denari volesse, Galeotto rispose fieramente a costui che stimava più la sua parola “che non tutto el tesoro delli Veneziani”. Eppure le seduzioni del denaro doveano ben metterlo ad una dolorsa prova; mandato innanzi, infatti, a forza di buone parole dal duca di Milano e dal re di Napoli, che non si risolvevano mai a sborsargli il suo avere, Galeotto si lamentava ripetutamente con Lorenzo dei Medici, e per non avere di che pagare il soldo agli uomini d’arma della sua compagnia, la vedeva assotigliarsi ogni di più, ed era costretto persino ad impegnare le proprie argenterie e le gioie della moglie. Finalmente, come Dio volle, potè con l’aiuto del Magnifico cavarsi alla meglio da tali angustie, mettersi in grado di cavalcare in guerra, secondo che il papa ordinavagli con un suo breve, ed esser di nuovo accolto nel grembo della Chiesa ed ufficialmente reinvestito dello stato, tra l’allegrezza dei sudditi. E così, dopo aver combattuto il proprio alto sovrano, Sisto IV, mettendosi dalla parte dè nemici di lui per prevenire ogni sgradevole sorpresa, or che i Veneziani eran divenuti essi il pericolo maggiore per i principi di Romagna, Galeotto si rappacificava co’l papa e si schierava contro il nuovo nemico, abilmente destreggiandosi tra le mutate vicende dello scacchiere politico d’Italia. Prendesse egli, o no, parte diretta alla battaglia d’Argenta, nella quale i Veneziani, che s’erano inoltrati nel Ferrarese, furono sconfitti, poco monta. Il Valmigli (XI, 263), su la testimonianza del Frizzi (Mem.stor. di Ferrara), crede che la rotta d’Argenta fosse data a’ Veneziani non dal duca di Calabria, sì da Sforza Visconte e da Giov.Pietro Bergamino, il 26 gennaio dell’83, quando ancora Galeotto non era entrato nella lega: ma è certo, ad ogni modo, che le milizie del Manfredi e del suo suocero Bentivoglio si recarono a soccorrere Ferrara.

1484

Dopo la pace di Bagnolo (7 agosto 1484),la quale precedette di pochi giorni la morte di papa Sisto IV, non restava in Italia accesa altra guerra se non quella tra Firenze e Genova, a causa dell’impresa che i Fiorentini fecero per il ricupero di Sarzana, già tolta loro da Agostino Fregoso. Ma prima di tutto i Fiorentini si volsero contro Pietrasanta, senza la quale riputavano di non potere aver Sarzana; e Galeotto fu, al solito, à loro stipendi, e cooperò in quella fazione con 200 provvisionati, e con 250 uomini d’arme, da lui inviati sotto il comando d’Antonio Boscoli, residente per la repubblica fiorentina in Faenza.
Intanto ai 29 d’agosto dell’84 era stato eletto il nuovo papa Innocenzo VIII (Cybo);e Galeotto Manfredi, subodorata subito in lui l’intenzione di spodestare Girolamo Riario d’Imola e di Forlì, mentre dava mandato per giurar fedeltà, secondo l’usanza, al nuovo pontefice, gli chiedeva abilmente di esser prosciolto dall’obbligazione di non recare offesa al Riario, obbligazione cui s’era sottoposto quando ebbe da papa sisto l’investitura di Faenza. Ed Innocenzo VIII gli concedeva tale proscioglimento, pur che ciò non apparisse, si direbbe oggi, ufficialmente. Donde nuova speranza sorgeva nell’animo del Manfredi, di cacciare una buona volta da Forlì il pericoloso vicino, e rimettervi il suo proprio nipote Anton Maria Ordelaffi.

1485

Che più? Pochi mesi dopo, il 20 gennaio 1485, nasceva in Faenza da Francesca Bentivoglio a Galeotto un figlio: Astorgio III, che fu tenuto pomposamente al battesimo, per mezzo d’ambasciatori, dal duca di Milano, dal duca di Ferrara e da un cardinale. Eppure, sotto l’apparenza della prospera fortuna e della felicità, maturava il tragico fato degli ultimi Manfredi.

1486

Fedele all’indirizzo politico seguito finora, Galeotto era rimasto agli stipendi di Firenze, e nel 1486 avea fatto parte della lega tra la repubblica fiorentina, il ducato di Milano e il re Ferdinando di Napoli, contro i baroni napoletani ribelli (ch’erano aiutati dal papa e dai Veneziani), ed aveva mandato tre squadre di cavalli a Poggibonsi, su ‘l principio d’aprile, in aiuto del duca di Calabria che si avanzava.

1487

Quand’ecco, correndo l’anno 1487, mentre i fiorentini volgevano l’animo alla ricuperazione di Sarzana, avvenne che gli accorti Genovesi, per prevenire il nemico, assalirono ed ebbero di sorpresa anche Sarzanello; del che la repubblica fiorentina, fortemente indignata, si accinse a fare aspra vendetta, preparando una grossa spedizione, ed invitando quanti condottieri erano al suo soldo (e perciò anche Galeotto) a mandare il maggior numero possibile di fanti e di cavalli. Galeotto non rispose, questa volta, all’appello. Che cosa era successo?
Qui il dramma intimo si mescola alle vicende politiche. Quasi giovinetta ancora, Francesca Bentivoglio aveva recato su’l piccolo trono di Faenza l’altera fierezza ereditata dal padre, e la tenace vendicativa astuzia onde le era vivente esempio la madre Ginevra Sforza, quell’istrice di donna cui non valsero gli elogi del cortigiano Sabatino degli Arienti (il quale scrisse apposta per lei la Ginevra delle clare donne) a nasconderne le iniquità dinanzi alla storia. È facile adunque pensare come, squarciandosi ben presto il velo che le nascondeva la triste realtà, e divenuta ella consapevole della relazione tra Galeotto e la bella Cassandra, concepisse Francesca un feroce odio contro il marito infedele e l’amante di lui, non solo, ma anche contro quel frate Silvestro da Forlì, dè minori osservanti, che abbiamo ricordato di sopra, e che di cotali amori del suo signore era divenuto mezzano. Era costui matematico ed astrologo, consigliere, amico, favorito del superstizioso Galeotto, che lo avea tolto dal suburbano convento di s.Girolamo, e nominato parroco di s.Lorenzo, e investito della ricca prepositura di s.Bernardo, ove viveva tra gli agi e le delizie mondane, procurategli dal Manfredi in compenso dei suoi servigi: frate vizioso e corrotto, secondo testimonianze di contemporanei, e che Dante avrebbe posto, in compagnia di Andrea dè Mozzi, vescovo di Firenze, nella schiera di quegli sciagurati
“…che tutti fur cherci,
e letterati grandi e di gran fama,
d’un medesimo peccato al mondo lerci”. (inf., XV).
Del marito e del frate, adunque, spiava Francesca destramente ogni passo ed ogni parola; onde la superba indole, resa più irritabile dalla puntura continua della gelosia, s’andò irrigidendo ognor più in modi aspri e sdegnosi, che non le avean punto fatto incontrare il favore dei suoi nuovi sudditi.
Cassandra Pavoni, invece, s’era indubbiamente cattivato l’animo del popolo faentino. Sebbene debbiasi ritenere capricciosa l’effige di lei, ritratta in un quadretto che uscì dal convento di s.Maglorio, e in cui la donna leggiadra, paffutella e bionda, veste alla maniera seicentesca, pure si ha per concorde testimonianza che era bellissima, buona e caritatevole. Un tempo essa aveva sfolgoreggiato nella sua piccola corte illegittima, dove forse aveva ricevuto in lieti conversari il fiore della città, e donde forse era uscito il tono della moda alle gentildonne; troneggiava ora in quella sua piccola corte monacale, fra le aristocratiche suore, ed il misterioso recinto del plaustro le dava la strana attrattiva della mondanità e della colpa ricoperte dal velo mistico della fede. Certamente essa offriva inspirazioni e motivi ad artisti; e può dirsi che nelle maioliche di quel tempo, assai più che la Bentivoglio, la vezzosa amante di Galeotto abbia lasciato traccie luminose, da che (come diremo nella seconda parte di questo libro) nell’epoca galeottiana l’ornamento pavonesco (penne di pavone) è insistentemente scelto dagli artisti come motivo di decorazione. E dopo tutto ciò, si comprende bene come s’invelenisse l’odio di Francesca contro la trionfante rivale, quando seppe che Cassandra aveva, alla sacra ombra del convento, dato alla luce un altro bambino: Giovanni Evangelista, il quale, se vogliam credere al Litta, sarebbe nato circa il 1482, ossia poco prima o poco dopo le nozze pompose di Galeotto con Francesca medesima!
A nulla valsero i lamenti che la Bentivoglio avea fatto pervenire a suo padre in Bologna; anulla le querele e le rimostranze di quest’ultimo al genero ed a Lorenzo dè Medici: e ben presto la tensione degli animi scoppiò in una scena violenta. Galeotto e frate Silvestro da Forlì erano un giorno in secreto colloquio; e narrava il frate al suo signore ed amico che non solo la sua scienza astrologica, sì anche non poche prove materiali lo avevano fatto persuaso che Giovanni II Bentivoglio ordiva un’infernale congiura contro il Manfredi, per togliergli lo stato: quand’ecco uscir di dietro una tenda od una portiera, ove s’era nascosta ad origliare, la sdegnata Francesca, e gridare del mentitore allo stupefatto frate, e svillaneggiarlo con le ingiurie più atroci.
Sembra che Galeotto Manfredi fosse, a differenza dè suoi maggiori, d’animo piuttosto buono e leale; ma cedeva egli facilmente a subitanei impeti d’ira, non appena una contrarietà attraversasse i suoi disegni, o rendesse vane le sue speranze: fulminava addirittura, con quelli che gli erano d’attorno, e diventava brutale e perfino manesco, quando concepiva il solo sospetto che si volesse tendergli insidia o fare violenza. Nessuna meraviglia, adunque, se colpito ed agitato dai ragionamenti e dalle insinuazioni del frate, e vivamente contrariato dall’improvvisa apparizione e dalle parole della moglie, osò alzare contro di lei la mano colpevole, e batterla con uno schiaffo. Con quello schiaffo sciagurato Galeotto non solo confermava ciò che il potestà Bartolommeo Redditi, fiorentino (successo nell’82 ad un Bartolomeo Cartari e che durò in carica fino all’84), aveva una volta scritto apertamente a Lorenzo dè Medici: “tandem cognomi che sua signoria amava più questo frate che el proprio honore”( arch. di stato di fir.-med. Av. Il princ., filza 54, lettera 10 giugno ’83); ma anche sottoscriveva la propria sentenza di morte.
Durante la notte, Francesca “ tutta avvelenata et indragonita” (scrive il cronista Azzurrini) uscì secretamente di palazzo, si rifugiò dapprima nella rocca, e poi, narra un anonimo su la testimonianza d’un contemporaneo, “scalò le mura e fuggì a Castelbolognese, dal qual luogo fu accompagnata da gran moltitudine di Bolognesi a Bologna, dove stette otto mesi”. Ma quel che i cronisti non dicono, e che invece chiaramente appare dal carteggio di Galeotto con Lorenzo dè Medici, esistente nell’archivio di stato di Firenze, si è che la signora portò via con sé, nella fuga, il piccolo Astorgio, il quale, essendo la disgustosa scena avvenuta nell’87, aveva appena due anni. il cronista forlivese Andrea Bernardi, detto il Novacula (cron.Forl. a cura di G.Mazzatinti, Bologna, r.dep. di st.patria, 1895, I, 280), vorrebbe che la fuga di Francesca fosse avvenuta il 13 marzo; ma poiché risulta quasi certo dai documenti che essa tornò presso il marito nell’agosto, così, se vogliam prestar fede al su detto anonimo (che, ciò è, ella stette otto mesi a Bologna), è necessario assegnar la partenza della Bentivoglio da Faenza al mese di gennaio: il che ci spegherebbe assai bene per qual ragione, ai 27 dello stesso mese, Galeotto togliesse il comando della rocca di Faenza a Gasparino di Cenne di Dirotto Calderoni, colpevole d’aver parteggiato per Francesca e di averle dato ricetto nella fortezza, per qualche ora.
Sbollita l’ira, Galeotto rimase profondamente turbato dalla fuga della moglie: e Giovanni II Bentivoglio, intanto, covava nell’animo un feroce disegno di vendetta. Né valse l’intromissione di Lorenzo dè Medici, il quale da abile moderatore delle controversie fra i tirannelli di quel tempo, cercava di comporre il dissidio; chè anzi dalla sete di vendetta era rampollata nel cuore del Bentivoglio, il quale ambiva al governo di tutta la Romagna, la cupidigia politica di togliere a Galeotto il dominio di Faenza.
Era il signor di Faenza assai benvoluto dal popolo, che lo amava per contrapposto all’odio che s’erano meritati Carlo II e Federico, e per la sua schietta democrazia di governo; ma a Francesca avevano fatto capo non pochi malcontenti tra i nobili, che avean formato attorno a lei un nucleo di fazione avversa al principe, della qual fazione era inspiratore ed anima il residente diplomatico del Bentivoglio a Faenza, un tal ser Bartolommeo da Russi. Que mal contenti, divenuti una specie di oligarchia turbolenta, ordirono, partita Francesca, una vera e propria cospirazione; e i documenti ci rivelano che i più cospicui nomi dell’aristocrazia faentina trovansi mescolati inn cotesta odiosa faccenda: ricordo, ad esempio, un ser. Giov. Francesco Milzetta, e la famiglia Ragnoli (della quale l’ex-tesoriere di corte, Niccolò era caduto in disgrazia), e un messer Bartolommeo Pasi (quello stesso che Galeotto avea nominato visconte in Val d’Amone, nel ’77), e il cavaliere di s.Giovanni, Pietro Paolo Casali, e Taddeo Varani, e messer Papiniano Albicelli (ch’era stato vicario del Manfredi dal ’79 all’84, ed al quale erano succeduti il faentino Pietro Spada, Melchiorre Tonduzzi, Vandino di Stefano Vandini), e Giacomo Azzurrini, novello tesoriere di corte, e perfino (già lo sappiamo) il castellano della rocca, Gasparino Calderoni. Tramarono, adunque, costoro un arditissimo colpo: togliere a Galeotto, con la forza, il governo, e fare reggente di Faenza madonna Francesca, mentre una comitiva di scherani, travestiti da frati, avrebbe sorpreso e fatto prigioniero fra Silvestro, conducendolo rapidamente nella rocca di Castelbolognese. Contemporaneamente, un esercito composto delle milizie del Bentivoglio e di Girolamo Riario, signore di Forlì, avrebbe dato l’assalto a Faenza; e intanto, per tener lontano da ogni sospetto il Manfredi, Giovanni II Bentivoglio fingeva di aderire alle pratiche d’accomodamento intavolate da Lorenzo dè Medici, e Francesca scriveva ipocritamente da Bologna lettere quasi affettuose al marito, e prometteva di ritornar presto co’l bambino.
Ma Galeotto, co’l fine intutito dell’uomo che vive in mezzo ai tradimenti, fiutò abilmente il pericolo. La cattura d’uno dei messi tra il Bentivoglio ed i congiurati di Faenza, e le confidenze d’un tal Giovanni Battista Tonduzzi (figlio di quel Melchiorre che avea capitanata la rivolta contro Carlo II, ed era stato il primo vicario di Galeotto), tosto arrestato ed inviato sotto buona scorta a Lorenzo dè Medici in Firenze, rivelarono, se non tutti i nomi dei cospiratori, almeno tutta la trama: e ne seguirono esilii, carcerazioni, fughe, tra cui quella dell’ex-castellano Gasparino, che riparò a Modigliana.
Pare che tutto ciò avvenisse sui primi d’aprile dell’87, da che con tre lettere a Lorenzo dè Medici, in data 7,8e 9 di quel mese (cfr.Messeri, pp. 115-119), rispondendo all’invito fattogli di mandar fanti e cavalli per l’impresa di Sarzanello (di cui abbiam detto di sopra; p. 188), Galeotto racconta all’amico la scoperta congiura, dice che i cospiratori attendevano che le genti preparate per Sarzanello partissero sotto la guida del Cremonino (cfr.p. 182), affinché egli Manfredi restasse senza difesa, e si dichiara dolente di non poter, questa volta, rispondere all’appello dell’alleata repubblica di Firenze, dovendo trattenere in Faenza quelle milizie, a guardia e difesa contro il possibile attacco del Bentivoglio e del Riario. Prega egli, inoltre, il Magnifico ad intromettersi diplomaticamente, ed a scriver subito sì a Milano che a Bologna ed a Venezia; e suggerisce anche a Lorenzo di rivolgersi direttamente al papa, il quale potrebbe minacciare il Bentivoglio di privare “el puto ( cio è Astorgio III)de questo stato”, e di ammettere, invece, alla successione del vicariato in Faenza “l’altro mio bastardo”.
Dopo di che divenne Galeotto anche più sospettoso e circospetto, come se avesse sempre il sicario alle spalle ed i nemici su le mura: tanto che , per esempio, una bella mattina fuggì di Faenza con i suoi più fidi, e giunto a s.Rufillo ordinò che le robe di corte fossero trasportate nella rocca, e che fosse suonata a stormo la campana del popolo, il quale, tra lo stupore generale, corse alle armi per difendere la città da un assalto…immaginario.
Lorenzo dè medici adoperò, anche in questa occasione, la sua rara accortezza diplomatica a favore dell’amico, tanto che non solo il Bentivoglio ed il Riario dovettero desistere dalla loro trama, sì anche furono iniziate nuove trattative per una durabile composizione della controversia, e per il ritorno di Francesca al tetto coniugale. Il Manfredi si raccomandava, però, e presso Lorenzo, e presso il duca di Milano, e presso il papa, che gli fosse prima di tutto, restituito il bambino, intendendo bene che quel suo tenero figlioletto nelle mani del suocero costituiva una terribile arma con la quale il Bentivoglio e Francesca avrebbero potuto imporre a lui Galeotto le loro condizioni; ma il signor di Bologna era troppo furbo per lasciarsi prendere ad un tale amo, ed insistette perché tornasse a Faenza la figlia, garantita nella sua persona niente di meno che dal papa, dal duca di Milano, dal duca di Ferrara e da Lorenzo dè Medici ed accompagnata da una cameriera bolognese; insistette anche perché nei patti dell’accordo fosse convenuto ch’ella potesse andare a Bologna; una volta o dua l’anno. Queste ultime condizioni non piacevano affatto al Manfredi, che ben a ragione, presentendo la tremenda insidia , voleva interrotto ogni rapporto tra la moglie e Bologna; ma quel che non poteva permettere la innata accortezza di lui, lo volle il suo cuore di padre. Sembra che in Faenza i nemici suoi s’agitassero alquanto, e ne seguissero “errori et movimenti”, com’egli stesso s’esprime in una nuova lettera al Medici, il 2 agosto 1487 (cfr. Messeri, 51-52). Allora per riavere la quiete e per riabbracciare e tener seco il piccolo Astorgio, Galeotto si arrende: torni pure Francesca, a qualunque condizione, pur chè torni il bambino. “ so contento-scrive egli a Lorenzo-di torre Madonna insieme con lo putto, et fare da lato mio quello che vorà vostra magnificentia; et ita prego quanto posso quella non ce perda tempo a notificare questa cosa al prefato ill.mo mio suocero, ad esser contento di questa concordia, pur che ce sia qualche poco del mio onore, et etiam che habia lo resto de la dota con quello modo et forma parerà a V.M.”. di lì a pochi giorni (il predetto cronista forlivese Bernardi dice il 7 agosto), Francesca ritornava a Faenza co’l figlio, garantita dal papa e da i principi detti di sopra, non solo, ma garantita dal papa e da i principi detti di sopra, non solo, ma accompagnata anche da una cameriera fidatissima, di nome Caterina, e da un servo bolognese astuto ed audace: Rigo, il sicario.
Ma la buna armonia non fu ristabilita; il Bentivoglio non pagò a Galeotto, come sembra fosse stabilito nei patti, il resto della dote, di fiorini 1600 d’oro, né si comportò verso il genero come la buona parentela avrebbe voluto: del che si lamentava il Manfredi con il Magnifico, in nuove lettere del 21 e 22 settembre. I lamenti, questa volta, furono inefficaci: con più raffinata scaltrezza il signore di bologna e sua figlia tessevano un’altra rete d’inganni, nella quale finalmente il povero Galeotto doveva cadere.
Che prima di partir da Bologna Francesca avesse ordito co’l padre suo il nuovo complotto, non è certo; forse ella ed il padre, intermediaria ed ispiratrice Ginevra Sforza, si intesero senza palesemente spiegarsi su quel tema scabroso. Certo si è, però, che delittuose intelligenze corsero tra loro dopo il ritorno di lei a Faenza. A Galeotto mancava, ora, il consigliere astuto, fra Silvestro, che era stato, secondo i patti dell’accordo, allontanato; Francesca, invece, trovò i suoi confidenti in Angelo del fu ser Andrea Ronchi, ed in Mengaccio del fu vecchio medico Andrea Vittori; e Mengaccio, anzi fu quegli che disegnò tutto il maleficio, recando nascostamente a Bologna le segrete lettere di lei. Alle quali rispondeva il Bentivoglio che dava il suo assenso, e che avrebbe recato il suo aiuto morale e materiale al seguente piano di esecuzione: per mezzo di gente fidata e pagata con i denari paterni, Francesca avrebbe fatto trucidare il marito, dando a credere al popolo di non essere complice del misfatto; il Bentivoglio sarebbe giunto a Faenza, con buon nerbo di armati, soltanto la mattina di poi, quasi a proteggere la vita del nipotino Astorgio, e per farne rispettare i diritti di successione; nel frattempo i partigiani di Francesca avrebbero corsa la città, gridando in favore di lei e del bambino; congregato il consiglio generale, soggiogato l’animo degli Anziani, egli Bentivoglio ed ella Francesca sarebbero stati, intanto nominati reggenti dello stato: al resto avrebbe pensato l’avvenire.
Galeotto, intanto, mentre vedea crescere intorno a sé i pericoli e le faccie sospette, si sentiva quasi disarmato dinanzi al fato incalzante. La barbara uccisione del conte Grolamo Riario, avvenuta in Forlì il 14 aprile 1488, mentre la vedova di lui, Caterina Sforza, si rifugiava destramente nella rocca, pronta a sostenere con animo virile i diritti di successione dè suoi figli, aggiunse nuova esca ai timori del Manfredi; e quando i truci avvenimenti di Forlì indussero il Bentivoglio a marciare alla volta di quella città, per impedirvi una restaurazione del diretto dominio della Chiesa e per sostenervi Caterina, e le milizie bolognesi passarono su’l faentino, Galeotto non mancò di avvertire il suocero che la campagna era assai larga, e si tenesse perciò ben lontano da Faenza. Ed era ovvio che dispiacesse al Manfredi tal mossa del Bentivoglio, giacchè ei sosteneva, come sappiamo, pe’l principato di Forlì, la candidatura del nipote Ordelaffi. A rinunziare alla quale non avrebbe potuto indurlo se non la deferenza per Lorenzo dè Medici, cui Galeotto fece saper epiù volte che, se Lorenzo avesse desiderata la signoria di Forlì per il proprio genero Francesco Cybo, avrebbe con ogni sforzo sostenuto quest’ultimo. Ma, intanto, tutti questi movimenti di milizie lo tenevano in gran sospensione d’animo; e quando da Firnze gli giunse l’ordine di cavalcare a Piancaldoli, in servigio della repubblica, Galeotto diè in ismanie perché non voleva lasciare indifesa Faenza; ed a stento s’indusse poi, per le preghiere di Stefano da Castrocaro, agente segreto del Medici, a mandare a quella impresa 40 uomini d’arme. Quando, dopo aver lasciato Forlì ben custodita da un presidio, le armi di Milano e del Bentivoglio tolsero il campo da quella città, e di nuovo passarono su’l territorio di Faenza, Galeotto inviò loro Antonio Boscoli, residente fiorentino a Faenza, a pregare gli fosse risparmiato il danno d’un alloggiamento su’l faentino; e il Bentivoglio allora mandò a dire al genero che, per suo e nostro bene, conservasse buone relazioni con Caterina Sforza, signora di Forlì: altezzoso ammonimento, che dovette sempre più amareggiare e rendere diffidente l’animo del Manfredi.
Eppure egli cadde vittima del terribile agguato, in cui il delitto domestico s’intreccia co’l delitto politico, ed in cui la gelosia della figlia serve allo scopo del padre alla vendetta della figlia oltraggiata.
Varii tentativi andarono a vuoto prima che si riuscisse a cogliere il Manfredi nel laccio. Narrò il sicario Rigo da Bologna, nel suo interrogatorio dinanzi al giudice (cfr. Messeri,50), che nel giorno e nel mese in cui il Bentivoglio passò per il territorio faentino, diretto alla recuperazione di Forlì contro gli uccisori del Riario, madonna Francesca si condusse in una certa chiesa di Faenza, e quivi ebbe un segreto colloquio con Angelo Ronchi e con Mengaccio Vittori, in presenza di un frate del monastero annesso; “in quo colloquio de multis et diversis rebus verba fecerunt”. Circa lo stesso tempo la guardia di Palazzo Bastiano Dalla Cura fu segretamente condotto nella camera di Francesca; e quivi costei glo domandò se avesse modo di avvelenare il signore, e quegli rispose bastargli l’animo di metter del veleno in qualche pietanza da servirsi a tavola; si offrì pure, cambiata idea, di fare attirare in casa della propria moglie, ad un convegno amoroso, il vizioso Galeotto, e di sorprenderlo quivi ed ucciderlo con l’aiuto di aktri sicari; ma né l’uno né l’altro disegno furono posti ad effetto, forse perché il Manfredi era scrupolosamente guardingo.
Narra inoltre il su detto interrogatorio che, otto giorni prima della catastrofe, la signora ebbe un altro lungo e segreto colloquio con Girolamo, fratello di Simone Zuccoli, ossia del nuovo castellano della rocca. Alle proposte di lei rispose Girolamo: “madonna, badate quello che fazzate, chè l’è caso pericoloso”; ed aggiunse: “el seria meglio torre di vostri bolognixi a fare questa cosa”; a cui Francesca: “lassa pur ch’el si farà bene”; e Girolamo: “mi non li voglio essere; ma fatelo voi , chè io vi salverò tucti voi”. Infine, il 29 maggio Angelo Ronchi condusse seco in palazzo un tal calzolaio suo compare, certo Tonno (Antonio?) Marotti, attendendo con lui, nella stanza di Francesca, il Manfredi, per ucciderlo; ma il colpo fallì, perché il signore di Faenza non si presentò come essi speravano.
Giunse così finalmente il 31 maggio. Erano circa le ore 19; e la Bentivoglio aveva nascosto in camera sua i tre sicarii che insieme co’l servo Rigo dovevano mandare ad effetto la strage: angelo Ronchi, Mengaccio Vittori, e Matteo di Ragnolo Ragnoli.
Era quest’ultimo della cospicua famiglia Ragnoli, un membro della quale, ser Niccolò, era stato cittadino potente, ossia cancelliere di Astorgio II, e tesoriere di Carlo II e di Galeotto. Ma nell’ottobre del ’78 ser Niccolò era caduto in disgrazia del Manfredi, ed era stato imprigionato co’l figlio Antonio, sì come colpevole lesae maiestatis; ed un rogito del 3 ottobre 1481 ci narra come Galeotto desse in premio a Napoleone Boni di Faenza, suo fedel cancelliere, una possessione con casa ed altri edifizi, confiscata già a ser Niccolò Ragnoli, come la causa di tale disgrazia del Ragnoli, non è chiaro: solo sappiamo che, avendo le milizie faentine saccheggiata la villa di Cortina, in quel di Russi, sotto pretesto ch’era di giurisdizione di Galeotto, ed essendosene il doge veneto Giov. Mocenigo (da cui Cortina dipendeva come parte del territorio di Ravenna) lamentato nel 1479 co’l Manfredi, quest’ultimo ne volle essere informato da Niccolò Ragnoli, che il Tonduzzi (p.518) chiama commissario e ministro sopra tal fatto; e non avendo ser Niccolò, con fievoli scuse, obbedito, Galeotto replicò l’ordine, minacciando di procedergli contro, come a suddito disubbediente e contumace. La famiglia Ragnoli, ad ogni modo, ne avea abbastanza per essere acerrima nemica dei Manfredi; il che spiega ora la partecipazione attiva d’uno dè suoi membri all’assassinio dell’infelice principe.
Nascosti, adunque, in camera sua i sicarii, ed avendo a lato la fedl cameriera Caterina, Francesca s’era distesa su’l letto, ed aveva fatto chiudere le finestre, perché l’oscurità favorisse l’esecuzione del delitto; poi avea mandato a chiamare il marito, facendogli dire che era ammalata. Galeotto si recò allora presso di lei, insieme con maestro Lazzaro, ebreo, medico di corte. Fuori della cameretta della signora, e precisamente in una Cappella, da cui si accedeva alle stanze di lei. Era ad attenderlo il servo Rigo;il quale, visto il medico (incomodo personaggio che i congiurati non si aspettavano), gli mosse subito incontro, lo fermò e gli disse: “lassate pur fare a madonna”. Intanto il Manfredi, fattosi su la soglia, e vedendo tutto buio, ebbe un momento di sospetto e di titubanza, e con sommessa voce pregò: “Madonna fate aprire le finestre”. Ma Rigo, che gli era alle spalle, approfittò di cotesto istante, e datagli un’improvvisa gagliarda spinta lo gittò nella stanza, chiudendo tosto la porta dietro di sé. Allora Angelo Ronchi e Matteo Ragnoli gli sono addosso, e gettandogli un pannicello attorno alla gola, e stringendo quella specie di laccio, tentano di soffocarne le grida: nel tempo istesso la feroce Francesca salta giù dal letto, e con un coltellaccio acuminato colpisce il marito al ventre ed in una gamba: dalle quali ferite tosto sgorga a flotti il sangue. Mengaccio, intanto, uscito anche lui dal suo nascondiglio, menava a Galeotto una pugnalata al di sotto del costato, presso l’umbilico; e presumibilmente lo stesso Rigo (sebbene, nel suo interrogatorio, egli taccia di sé stesso) colpiva a morte il signore. Non senza lotta terribile riuscirono, però, i manigoldi ad atterrare e finire l’infelice principe; chè questi, afferrato il pannicello con la sinistra, disperatamente difendevasi con la destra, tosto armatasi dello stocco. Narra lo Zuccoli (p.245) che con un gran calcio nel ventre Galeotto distese a terra uno degli assalitori: riferisce Rigo da Bologna, poi, che ferì in un braccio il Vittori, e diè un morso in una mano ad Angelo Ronchi, con il qual morso, secondo il citato cronista, gli staccò alcune dita. Ma Francesca ravvivò il coraggio degli assassini, gridando: “Giuratelo, giuratelo di ammazzarlo!”; e tutti insieme si strinsero addosso alla vittima, che cadde finalmente riversa, colpita da cinque ferite mortali.
Una tradizione, ripetuta fino ai nostri giorni, narrò poi che a lungo, presso il grande camino scolpito da Desiderio da Settignano, che allora trovavasi, dicono, nella camera di Francesca, e che oggi si conserva nella Pinacoteca comunale, una macchia rossastra nel muro fosse l’impronta d’una mano di Galeotto, ivi appoggiatosi ferito, mentre si divincolava contro il terror della morte. Fu quel camino, infatti, nel palazzo Manfredi, già del popolo, e precisamente in quella stanza che riceve la luce, a traverso la loggia superiore, per mezzo dell’unica elegantissima bifora che in tal palazzo rimane (vedila riprodotta a p. 117); e tale stanza sarebbe stata, adunque,quella in cui si svolse l’orribile tragedia. Ma poiché dall’interrogatorio di Rigo da Bologna risulta chiaramente che il delitto fu commesso nella camera di Francesca, ossia “ in camera posita iuxta capellam prefate Domine”, la qual camera, subito dopo, è detta parva (“in qua camera parva erat dicta domina Francisca”); e poiché, inoltre, della cappella del palazzo furon trovate reliquie non presso la stanza dalla finestra bifora, ma precisamente nel piano superiore ad essa; così ci sembra impossibile che alla tradizione si possa dar fede.
Spariva per tal modo dalla scena delle Corti e della politica italiana, barbaramente trucidato a 48 anni, quegli che certo ebbe le doti migliori della sua fiera stirpe, e delle peggiori fu scevro. Buon politico, soldato valoroso, parlatore facondo e piacevole, protettore e cultore egli stesso delle lettere e delle arti (sapeva di latino e d’astrologia, conosceva la musica, e dolcemente modulava la voce nel canto), Galeotto Manfredi, nonostante l’indole violenta ed i vizi non pochi, fu d’animo piuttosto gentile, né mai volle macchiarsi di quei delitti che erano così comuni nelle corti del suo tempo; onde per una di quelle rivincite che spesso la storia e la vita si prendono su l’uomo che sfugge a qualche loro inesorabile necessità, egli fu assassinato per non aver voluto essere assassino. Continuò gli abbellimenti della città, promossi dal fratello, proseguì alacremente la fabbrica della cattedrale, e zelante del culto come i suoi maggiori, diè nel ’78 il convento di s.Maria dell’Angelo ai monaci Portuensi di Ravenna, e quello di s.Giov.Evangelista ai frati Agostiniani, nell’81. La sua memoria fu confortata da letterati e poeti. Già, durante la vita di lui, il Poliziano gli avea dimostrata affettuosa amicizia, indirizzandogli il noto epigramma “ad Galeotum principem faventinum”:
Cur promissa tibi tuus poeta
nondum prestiterit rogas? poeta est
or dopo la sua morte il Manuzzi (p.119) lo disse “ homo magna sane virtute praeditus, et literarum scientia excultus, literatorumque studiosus, utpote quorum comodi gratia insignem bibliotecam instruxit”; e di lui altre lodi scrisse il Flaminio. Il fosco dramma che lo condusse alla morte lasciò di sé un’eco lunga e raccapricciante, non solo in Romagna, ma in tutta Italia; e di quella eco raccolse, su la fine del Settecento, la voce ormai prossima a spegnersi, e la rinvigorì nel verso sonante e squisitamente classico, un grande poeta romagnolo: Vincenzo Monti. Il quale, del resto, travisando la storia, cercò di adattare la sua tragedia “Galeotto Manfredi”, e le persone di essa, alla concezione accademia del tipo tragico francese.
Compiuto l’eccidio, Mengaccio Vittori uscì segretamente di palazzo per andare a Bologna a dar avviso al Bentivoglio che il colpo principale era fatto; e nel passare dalla porta Imolese, si fermò alla rocca della città, e chiamato Simone Zuccoli, il castellano, gli disse che mandasse a Corte, a prender madonna e il signorino, perché Galeotto era stato ucciso. Simone mandò allora al palazzo il proprio fratello Girolamo (altrimenti detto anche Giovanni), da noi ricordato di sopra, e il figlio Stefano; e Girolamo tolse sotto il mantello il piccolo Astorgio, e lo portò nella rocca, ove poco dopo si rifugiavano anche Francesca, la cameriera Caterina, Rigo, e alcuni partigiani della signora, come Antonio Beccarini, squadrerio del morto Manfredi, Galeotto di Ghisone, Cecco di Buonaguerra e Bacillotto Ravagli, forlivese. Il Ronchi ed il Ragnoli, poi, lasciato il cadavere di Galeotto nella stanza di Francesca, s’affrettarono a dar avviso dell’accaduto ai loro confidenti (Papiniano Albicelli, Vandino Vandini, ser Bartolommeo Pasi. Gasparino Calderoni, ex-castellano, Filippo di messer Gregorio Bazzolini, ser Giov. Francesco Milcetta, Matteo dell’oca, Giacomo Azzurrini, ex-tesoriere, Bartolommeo dal Buzella, don Battista e Benedetto dal Sustado, cameriere, e un tal Cavina, credenziere di madonna Francesca); e tutti insieme costoro corsero per la piazza e per le vie, tra il popolo sbigottito, gridando a favore di Astorgio III, e sperando con ciò di favorire anche Francesca. E per il resto di quella giornata essi ebbero il predominio, tanto era il generale sbalordimento. Gli otto signori Anziani, adunati, null’altro seppero fare se non dare ordine che il morto signore fosse seppellito in s.Francesco, durante la notte, per sottrarlo agli occhi del popolo, e per evitare una commozione che potea avere ben gravi effetti.
La mattina di poi , 1° di giugno, giunse con Mengaccio e con alcuni gentiluomini bolognesi (tra cui Niccolò Rangoni, suo genero) Giovanni II Bentivoglio, a capo di molti uomini d’arme: e lasciati questi ultimi fuor della porta Imolese, ed entrato dapprima nella rocca con Mengaccio, fu poco di poi a grande onore portato in piazza ed accompagnato in palazoda quei cotali arruffoni che avevano potuto, tra lo sgomento generale, farsi padroni della cosa pubblica. Per gittar della polvere negli occhi al popolo, fu istituito un così detto “consiglio di madonna” (Francesca), composto di dieci cittadini (“hanno fatto dieci huomini che intervegnino nel consiglio di madonna, che in effetto è un pascipopulo”, scrive l’abilissimo commissario che i Fiorentini aveano nella lor terra di Castrocaro in Romagna, G.B. Ridolfi, in una sua lettera del 3 giugno, cfr. Missiroli, Astorgio III Manfr.); ed a mezzo di tale consiglio ebbe ben presto il Bentivoglio piena autorità di fare e disfare. E poiché durante la notte era giunto con le sue milizie da Forlì, a circa due miglia da Faenza, presso s.Lazzaro, il condottiero del duca di Milano Gian Pietro Brambilla da Bergamo, detto il Bergamino, a prestar manforte al signore di Bologna, questi lo mandò tosto a chiamare: e allora il consiglio, gli Anziani, il Bentivoglio e il Bergamino, tutti insieme, si recarono alla rocca a prendere il piccolo Astorgio III e sua madre, e li condussero con grande solennità nella cattedrale, dove al bambino fu data la benedizione, e tutti lo riconobbero per signore, giurando fedeltà nelle mani del Bentivoglio. Poi madre e figlio furono per precauzione ricondotti nella rocca, il signor di Bologna si allogò in palazzo, il Bergamino tornò a Forlì.
Così il Bentivoglio parve d’aver messo ad effetto il suo prestabilito ed ambizioso disegno, giovandosi della cupidigia di potere delle famiglie nobili di Faenza; le quali nell’età puerile di Astorgio III videro un buon pretesto per afferrare quell’autorità che certo non avevano avuta mentre viveva l’energico Galeotto, e largheggiarono per ciò co’l Bentivoglio stesso, concedendogli di fatto, sotto la forma legalmente corretta della tutela esercitata da Francesca su’l figlio, la direzione politica della città. Per questo nessuno pensò allora ai diritti d’Ottaviano Manfredi, figlio di Carlo II, che, per essere d’età maggiore d’Astorgio, avrebbe dovuto succedere a Galeotto secondo l’ordine constitutivo della famiglia, stabilito da Astorgio II nel suo testamento.
Al raggiungimento del suo intento avea avuro il Bentivoglio favorevole e cooperante Ludovico Sforza (ch’era, in sostanza, arbitro del ducato di Milano), perché esso Sforza, per rivalità con Firenze, aspirava ad estendere la sua potenza fin su tutta la Romagna, dove già aveva à suoi stipendi e il Bentivoglio medesimo, e il duca di Ferrara, e in protezione lo stato di Forlì e d’Imola, e in possesso il castello di Cotignola; onde aveva Ludovico, come s’è visto, mandato in aiuto al signore di Bologna il Bergamino, da Forlì. Ma a Firenze premeva di rimanere essa protettrice di Faenza, sì come era stat al tempo di Galeotto; e senza perder tempo, per l’opera sapientemente accorta ed abile del suo predetto commissario Ridolfi (aveano i Fiorentini in Faenza il loro residente Antonio Boscoli, ma questi si lasciava guidare in tutto dal Ridolfi), riuscì a metter su contro il Bentivoglio il popolo minuto della città, e tutta la popolazione della Val d’Amone. Il 3 di giugno gli abitanti d’essa valle, irritati per la nessuna parte ad essi data nella nuova costituzione dello stato, ed instigati dal su detto Ridolfi, tennero nel contado un gran consiglio; e considerando che, se avessero prestato obbedienza ad Astorgio III ed a sua madre, Faenza sarebbe rimasta unicamente in potere di quei cittadini che avevano parteggiato per Francesca e per il Bentivoglio, deliberarono di ribellarsi, ed inviarono alcuni dei loro ad intendersi co’l castellano Zuccoli. Vuole il precitato Bernardi (I, 283) che què ribelli di Val d’Amone proclamassero, inoltre, signore il pretendente Ottaviano Manfredi; ma, ad ogni modo, non è vero quello che tutti gli storici regionali finora cedettero, che, cio è, i fatti del 4 giugno fosser cagionati da un movimento in favore di Ottaviano, sfruttato di poi dai Fiorentini stessi, i quali abilmente attizzarono il malcontento dei Valligiani, volgendolo in loro profitto. Solo il Muratori (Annali d’It., IX, 258-8) e Fileno delle Tuate, nella sua Cronica ms. di Bologna (in Biblioteca comun. di Bologna), videro la verità.
Fatto è che il Bentivoglio, avuto forse sentore della trama, mandò a richiamare il Bergamino, e questi giunse di nuovo a Faenza, entrandovi attraverso il borgo d’Urbecco e la porta del Ponte, con il solo seguito di alcuni balestrieri, la mattina del 4 giugno. Dicono che, lungo la via, certi suoi staffieri troppo zelanti gridassero, duca, duca!; e che alcuni famigli del signor di Bologna aggiungessero, sega, sega! (la sega era l’arme bentivogliolesca); onde gran sospetto si diffuse che il Bergamino volesse sottoporre la città al duca di Milano, con l’abbandonarla del tutto nelle mani del Bentivoglio. Sopravvenuta poi in città una gran moltitudine di gente di Val d’Amone e di contadini, e mescolatasi co’l popolino, che ardeva di vendicare la morte del suo benamato Galeotto, e che era composto in special modo di artigiani detti comunemente li grembiali, scoppiò finalmente il grave tumulto desiderato dal Ridolfi, al grido: “mora li forestieri e li traditori!”. La folla, minacciosa e cupa, invade la piazza, disselcia le vie, sbarra gli sbocchi delle strade, chiude e fortifica le porte della città perché le milizie bolognesi, accampate fuori porta Imolese, non possano entrarvi; lugubri rintocchi di campana a stormo diffondono nell’aria onde di terrore; un vocio, un fragore, un urlo di imprecazioni sale alle finestre della sala delle palme, in palazzo, dove il Bentivoglio e il Bergamino hanno interrotto il pranzo; e già molti popolani e contadini, salita la scala, con mannaie e mazze di ferro cercavano sforzare le porte, quando Gian Pietro Brambilla, da quell’animoso che era, si fece egli stesso sull’uscio ed apertolo disse: “che domandate, uomini miei?”. Sembra che in mezzo ai più arditi avessero saputo abilmente dè partigiani di Francesca, giacchè attorno al brambilla si trovarono tosto alcuni che cercarono salvarlo; tra essi, l’ex-castellano Gasparino Calderoni ed un Giovanni suo nipote, i quali, confidando forse nella loro autorità su’l popolo, si proffersero di condurre il malcapitato Bergamino a casa loro. Ma quando furono sulla scala, crescendo il furor della plebe, egli, che era circondato anche da alcuni uomini d’arme, gridò sprezzantemente: “largo, o meccanici, o che io vi farò appiccare!”. La folla allora lo sospinge, con un’ondata furiosa, nella piazza; quvi un Giovanni dei Cattoli, ex-mulattiere di Galeotto, è il primo a ferirlo; in pochi minuti quattro suoi fedeli balestrieri furono uccisi, ed egli cadde morto dinanzi al duomo, sotto i colpi furiosi della plebe.
Il Bentivoglio pensò allora ai casi suoi e, seguito dal genero Rangoni, fuggì furtivamente, a traverso il cortile del palazzo, detto la Molinella, verso la rocca, ove sperava di trovare un rifugio. Il castellano Zuccoli, frattanto, vista riuscita la sollevazione, aveva fatto imprigionare Mengaccio e Rigo da Bologna (Angelo Ronchi e Matteo Ragnoli, più furbi, non s’erano voluti rifugiare in rocca, ed erano fuggiti, il primo a Bologna, il secondo a Cotignola); sì che ora, quando il Bentivoglio fu giunto al rastrello della rocca, ed ebbe domandato ricetto, sentì rispondersi che se ne andasse con Dio, se non voleva esser tagliato a pezzi. E tanto più il signor di Bologna dovette stimarsi perduto, quando udì alle spalle il mugghiar della folla che sopraggiungeva inseguendolo! Per lui volle fortuna che tra i furibondi del popolo si trovassero di quei tali che, senza palesemente compromettersi, avevano cercato finora di accomodar le cose in modo che Francesca e suo padre ottenessero il loro intento; preso in mezzo da costoro, fu condotto, svenuto, in casa d’un tal Manzino, ex-milite di Galeotto, presso porta Imolese (il Valmigli, XII, 39, dice che il Bentivoglio fu fatto prigioniero da un Benedetto di Cocco e da un Iacopo da Guardatone); e poi, su’l cavallo d’un Guido dei Pasolini, squdrerio del defunto Manfredi, fu ricondotto in palazzo, sotto buona scorta di quelli che lo volevano salvare. Rinchiuso nella solita sala delle Palme, il Bentivoglio si raccomandava piangendo a quelli che lo circondavano, che non lo difesero a mano armata dal popolo tumultuante, che aveva assalito di nuovo il palazzo, per modo ch’egli per quel giorno fu salvo.
Il commissario Ridolfi, intanto, era giunto a Faenza il 4 giugno stesso, proprio nel momento del maggior tumulto, insieme con molti comandanti (specie di milizia da lui requisita nel territorio romagnolo sottoposto alla repubblica fiorentina), e con i condottieri Onorato da Forma e Gian Paolo della Sassetta, le cui squadre, però, li raggiunsero dopo qualche giorno. Né a lui fu difficile dominare gli eventi, assumendo copertamente la direzione del moto; ottenne, infatti, gli fosse consegnato il Bentivoglio, e lo mandò la mattina dipoi, sotto buona guardia, nella rocca di Modigliana, mentre tra mezzo a quel trambusto, si costituiva una specie di governo provvisorio. Questo fu composto dagli Anziani della città e dai 12 governatori della Valle(magistratura in cui erasi trasformata quella dei due priori dello Statuto di Gian Galeazzo I, cfr. p. 140), oltre che dal Consiglio generale, il quale, mutando le sue funzioni da amministrative in politiche, divenne una vasta assemblea di tutti gli uomini autorevoli della città e della valle. Ma in effetto restavano a disputarsi il potere, da un lato què principali cittadini che s’eran mostrati fautori di Francesca e del Bentivoglio, dall’altro i Valligiani: ed in mezzo a costoro, ormai arbitro onnipotente, il commissario Ridolfi. Il quale volle dar subito assetto alle cose della rocca, liberandosi di Francesca e facendo sottoporre, per soddisfare alle esigenze del popolo, gli assassini Rigo e Mengaccio, ed i loro complici diretti, a regolare processo.
Quando il castellano Zuccoli seppe ciò, temendo non fosse venuta per lui la volta di pagar cara la sua equivoca condotta, e sebbene avesse dati in ostaggio al commissario il figlio Stefano ed il nipote Carlo, rifiutò di rendere la fortezza. Alle ore 23 del 6 giugno, però, incominciò a cedere su qualche punto, e consegnò il signorino Astorgio, che fu solennemente condotto in palazzo; poi, avendo il ridolfi minacciato di fare appiccare i due ostaggi, tutti gli Zuccoli s’accordarono alfine d’uscir dalla rocca, a patto però che Girolamo, forte indiziato di complicità nell’assassinio di Galeotto, fosse rilasciato in libertà. La rocca fu ceduta l’8 giugno, e in quel medesimo giorno fu data licenza a madonna Francesca, che se ne andò liberamente, accompagnata fino a Castelbolognese (ma narra lo Zuccoli “ che se le porte della città non fossero state serrate, era opinione non se ne fosse andata con la vita, di maniera il popolo, che avea ripiene le mura, si commosse alla vista di lei”); ed il 13 giugno il commissario Ridolfi scriveva alla Signoria di Firenze: “Stamani sono stati decapitati et squartati Mengaccio et Rigo da Bologna, che admazarono il signor Galeotto.resta preso Bastiano dalla Cura, ciptadino di qui, che ancora non hanno fatto deliberatione, perché dicono non confesso”. Le teste dei due malfattori, infilate in due lancie, furono poste in cima alla torre del Comune, e vi rimasero parecchi mesi.
Frattanto, a poco per volta, erasi radunato né dintorni di Faenza un grosso esercito fiorentino, composto di 28 squadre di cavalli e di molta fanteria (ed accampatosi, secondo il predetto Bernardi, tra Faenza e Castelbolognese), evidentemente per salvaguardare la città da possibili attacchi di Bologna e di Milano, oltre che per rafforzare, con la sua presenza, l’autorità del Ridolfi. Questi, avendo ormai ottenuto il suo scopo, invece di favorire esclusivamente i Valligiani ed il popolo, sì come avrebbe potuto, venne ad una naturale transazione con i cittadini fautori del Bentivoglio (i quali accortamente capirono che per avere una qualche parte del governo bisognava andar d’accordo co’l Ridolfi); e l’accordo, conchiuso verso la fine del giugno, costituiva il definitivo governo in un consiglio di tutela del piccolo principe, composto di 96 persone, delle quali metà (48)eran cittadini, e metà valligiani. Il Valmigli (XII, 41-42) riferisce un rogito del 16 luglio ’88, in cui sono nominati “domini Antiani presidentes regiminis civitatis Faventie, ut tutores illustr. Nostri domini Astorgii”; e ciò induce a credere che i 48 tutori cittadini fossero precisamente i 48 Anziani, i quali, divisi in 6 mute di 8 membri ciascuna, continuavano a presiedere a turno al disbrigo dei pubblici affari, di bimestre in bimestre. Agli 8 Anziani in carica per un bimestre solevano ora aggiungersi otto cittadini nobili, eletti dal consiglio, e detti appunto aggiunti. Se, d’altro canto, i 12 governatori della Valle d’Amone fossero ricavati dal seno dei 48 tutori valligiani, non sappiamo.
Ed il 13 luglio, finalmente, dopo lunghe trattative, si firmarono i capitoli della condotta del signorino Astorgio ai servigi della repubblica fiorentina (per i quali fin dalla metà del giugno erano stati inviati due ambasciatori a Firenze), rimanendo essa repubblica ufficialmente esclusa dal consiglio di tutela di Astorgio, ma conservando la protezione e l’accomandigia di Faenza, e la condotta delle milizie faentine.
Quanto al Bentivoglio, lo smacco da lui subito a Faenza era naturalmente spiaciuto moltissimo a Ludovico Sforza, il quale preparò perfino delle milizie per romper guerra a Faenza ed a Firenze; ma Lorenzo dè Medici gli fè capire che, fin tanto non si fosser posate le cose faentine, il Bentivoglio sarebbe rimasto in luogo sicuro, nelle mani dei Fiorentini. Lo Sforza dovette adattarsi, ed il signore di Bologna fu liberato il 13 giugno, e tornossene salvo alla sua città. Ma lo Sforza e il Bentivoglio speravano ora servirsi del pretendente Ottaviano Manfredi, giovinetto sedicenne, per tener in rispetto e Firenze e Faenza, con la minaccia di rimetterlo su’l trono per mezzo delle armi; e per questo, mentre Ottaviano con poche milizie aggiratasi tra Lugo e Cotignola, lo Sforza tentò prenderlo ai suoi stipendi, affinché altri non lo avesse nelle mani. Se non che, Firenze seppe parare anche questo colpo. L’astuto commissario Ridolfi (riassumo rapidamente queste notizie dal Missiroli, Faenza e il pretend. Ottaviano Manfr.nel 1488) consigliò ai Fiorentini d’accogliere essi il povero giovine costretto dalla ragion politica a peregrinare senza denari per gli stati altrui; in tal modo, essendovi in Faenza molto malcontento nel popolo contro i cittadini di governo, accusati di complicità nell’assassinio di Galeotto a fine di dividersi co’l Bentivoglio il potere, Firenze potea tenersi pronta nel caso si dovesse fare un nuovo colpo di stato a Faenza, e sostituirvi Ottaviano nel principato, pur conservandovi la protezione fiorentina. Così avvenne che, dopo essere stato in Val d’Amone, dove avea dè fautori, Ottaviano se n’andò a Firenze co’l commissario Antonio Boscoli (inviato dal Ridolfi), raccomandato a quella Signoria dagli stessi Anziani faentini, i quali nella consegna del pretendente alla repubblica fiorentina vedevano tolto di mezzo il pericolo che altri se ne giovasse a’ suoi fini, e stimavano assicurato il principato d’Astorgio.
V’ha di più: chè il Ridolfi persuase al governo di Faenza di provveder esso stesso al sostentamento d’Ottaviano in Firenze, mediante una provvigione di 600 ducati, tolti dai 10000 che la Signoria fiorentina pagava annualmente ad Astorgio III per la condotta; al che gli anziani s’indussero a malincuore, essendo i 10000 ducati e le magre entrate insufficienti a sopperire alle molteplici spese del piccolo stato, specie in quei momenti di agitazione. Era stato necessario, infatti, per contentare il popolo della città ed i campagnoli, diminuire i balzelli agricoli e i dazi; e dallo scarso bilancio doveano anche trarsi pe’l mantenimento della corte le provvisioni per 300 bocche, e le paghe al piccolo esercito faentino (80 uomini d’arme, ossia 320 militi, 100 fanti provvisionati e una ventina di balestrieri a cavallo), e l’onorario (direbbesi oggi) al commissario fiorentino.
Gli Ottavianeschi di Val d’Amone ed i malcontenti del popolonon si rassegnarono; chè anzi vollero profittare del richiamo di gran parte delle milizie fiorentine, fatto dalla repubblica or che le cose di Faenza sembravano quiete, per tentare un gran colpo. Una lettera d’un Giovanni Zuccoli al dott. Gregorio Zuccoli, a Venezia, in data 11 decembre 1488, narra che la congiura fu scoperta (il nuovo commissario fiorentino Dionigi Pucci ne ebbe avviso dai governatori di Val d’Amone), e i principali dè conpiratori (Giov. Battista Cattoli, Gasparino dè Cimatti, Galeotto di messer Girolamo Glutoli, od Utili, Gian Pietro Cantore, Battista di Pasquino, Bartolomeo dello Schiavo, Francesco d’Ardelino, meser Giovanni da Milano, merciaio) furono catturati e carcerati nella rocca il 23 agosto. Sembra che la congiura fosse favorita dal Bentivoglio. sventato il complotto, i Fiorentini pensarono di metter Ottaviano in luogo tale che non potesse più dare sospetto alcuno, onde lo confinarono ad Arezzo, sotto sorveglianza rigorosa.
Ma il popolo volle in qualche modo sfogare le sue vendette contro le famiglie degli uccisori del povero Galeotto; levatosi, infatti, a rumore il 22 ottobre, con il consenso degli Anziani, assalì le case d’Angelo Ronchi presso s.Michele, le devastò e demolì; il 23 dello stesso mese atterrò e distrusse le case dei Vittori, e saccheggiò e bruciò quelle dei Ragnoli, presso s.Stefano. parve per un momento che la stessa sorte dovesse toccare agli Zuccoli; “ma noi con gl’amici fessimo in modo che non vennero-scrive il predetto Giovanni al dott. Gregorio Zuccoli-et altro di mal non ferono, e noi semo salvi”.
La tenera età del principe, del resto, e conseguentemente la mancanza d’un capo forte ed autorevole, da un lato; la varietà degli uomini di governo ed i loro contrastanti interessi e sentimenti, dall’altro lato; sono sufficiente spiegazione del fluttuare della cosa 1489 pubblica, specie inn quel primo e commosso periodo della reggenza.

1489

Così, ad esempio, nel 1489 avvenne che i Cotignolesi, dipendenti del ducato di Milano, profittarono dl momento per allargare i loro confini a detrimento del dominio faentino; e per gli ufficii del Magnifico le controversie si composro poi alfine, con un compromesso in Ercole, duca di Ferrara, sì come attesta un epigramma latino del giureconsulto Gian Battista di ser Niccolò di Cenne degl’Indovini, vicario di Astorgio III, inn lode del Medici: ma ben altre agitazioni e querele si ebbero, come oggi dicesi, nella politica interna.
Galeotto avea lasciato, oltre che il legittimo Astorgio III, tre figli naturali: un Francesco, che non sembra cosa certa fosse nato dalla Pavoni, e Scipione e Giov.Evangelista, avuti sicuramente da costei; e Scipione era stato avviato alla professione ecclesiastica, e il 9 agosto dell’88 si ebbe dal vescovo Battista dè Canonici la prima tonsura, nel chiostro delle monache di s. Maglorio, presente sua madre. Di Giov.Evangelista, di poco maggiore di Astorgio, non parlano gli atti pubblici; ma Francesco e Scipione ebbero senza dubbio parte attiva negli avvenimenti faentini di quel tempo. Narra adunque il Tonduzzi (p.537), il quale attinse ai verbali del Consiglio generale oggidì perduti, che gli otto Anziani e gli otto aggiunti del 1° bimestre dell’89 (dè quali riferisce i nomi) giurarono nelle mani del commissario fiorentino e di Francesco e Scipione Manfredi; parimente narra che il 15 febbraio fu concesso agli uomini di Val d’Amone di eleggersi da sé il capitano, purchè faentino, nella persona del giureconsulto Vincenzo Bazzolini,cui successe in quella carica, con deliberazione del 1° maggio, Francesco Manfredi, restandovi il Bazzolini come auditore di lui. Ma poi che il popolo s’agitava e, diffidando del governo, volea partecipare alla pubblica amministrazione, così riferisce ancora il citato storico (p.538) che nella seduta consiliare del 20 aprile fu deliberata l’aggiunta, al consiglio dei Cento, di 40 consiglieri dell’ordine popolare, eletti 10 per quartiere; dal qual numero di 40 dovesero essere estratti otto Anziani e con gli otto nobili aggiunti. Così sarebbe sorta la nuova magistratura degli otto di popolo, de quali il Valmigli (XII,52) riferisce i nomi per il bimestre maggio-giugno (Giovanni Gavelli, Francesco d’Ippolito, Valicano dè Vandi, Berto di Tonio Berti, Gismondo d’Abramo, Antonio Casanova, Andrea di Giovanni e Silvestro da Boesina).
Ai 24 di giugno, poi, a Francesco ed Scipione Manfredi, insieme co’l commissario fiorentino, veniva conferita autorità suprema sui malefici di qualunque specie ( sebbene Firenze si schermisse riguardo al suo ministro); se non che, non ostante cotale straordinario provvedimento, le divisioni di parte, le consorterie dei parentadi, le recriminazioni, le ire continuarono, e con esse i tumulti e i delitti, contro i quali ben poco potevanogli esecutori di giustizia, per esservi coinvolte le stesse persone di governo (e le famiglie più turbolente eran quelle dè Calderoni, dei Cavina, dei Pasi, essendo le due principali fazioni capitanate da Bastiano del Pescatore, capo degli Astoreschi, e da Rosso da Cavina, capo dei malcontenti): onde alla perfine il popolo, stanco di tanto subbuglio, si radunò il 28 agosto nella cattedrale. E deliberò che si avessero da ciascuno a fare le paci, pena l’esilio. E condottisi di poi a prendere dalla rocca il commissario Dionigi Pucci, che s’era rifugiato, e menatolo alla chiesa, esso popolo indusse tutti alla concordia, tra il giubbilo universale.
Dal complesso delle lettere del Pucci su detto, e del commissario suo successore, Pietro Nasi, agli Otto di pratica in Firenze (Arch. di St. fior.), parrebbe risultare che soltanto dopo le predette paci fossero instituiti gli Otto di popolo su nominati, e dapprima solo con l’ufficio di esecutori di giustizia, per applicare, ciò è, quelle sentenze che prima restavano inefficaci: ma di questo dissidio fra tali fonti e quelle del Tonduzzi e del Valmigli, non è forse possibile, allo stato presente degli studi, dare una soluzione, nè è consentito dall’indole e dà confini di questo libro addentrarsi in ricerche speciali su tale argomento. Fatto è che gli Otto di popolo furono parte essenziale del governo, insieme con gli Anziani e con gli Aggiunti.
Una più diretta partecipazione al governo desiderarono, d’altro canto, i Valligiani, i quali fecero istanza affinché ai quattro loro rappresentanti, che eran soliti tener in Faenza per il disbrigo degli affari alla città ed alla valle, si aggiungessero altri quattro Valdamonesi, per raggiungere anch’essi il numero di otto come gli Anziani, gli Aggiunti, gli Otto di popolo; e domandarono inoltre che cotali loro otto rappresentanti risiedessero in palazzo e facessero, insomma, parte del magistrato. Nella seduta del 14 novembre il consiglio rigettò tale proposta; e ciò esacerbò l’animo di costoro.
Forse per tale esacerbato animo avvenne che, essendosi il 29 novembre trovato presso la porta del palazzo pubblico il cadavere di un assassinato, e minacciando il popolo nuovi tumulti per ciò, Francesco Manfredi giunse d’un tratto con numerose soldatesche della valle; laonde, ad impedire sconvolgimenti, certo Coraggio di Bacco a nome dè Valdamonesi presentò una supplica agli Anziani, Consiglio ed Otto di popolo, per ottenere che fossero eletti sei, otto, o dieci Faentini, i quali, insieme con sei, otto o dieci Valdamonesi, e presieduti dal commissario fiorentino, provvedessero alla quiete ed alla giustizia dello stato. La supplica fu accolta, e i venti così deputati, raccoltisi co’l nuovo commissario Pietro Nasi,deliberarono raffermare a Farncesco e Scipione Manfredi l’autorità già prima concessa su i malefici,dando facoltà loro di aggregarsi quattro faentini dei tutori del principe, e parimente quattro dei tutori Valligiani (da durare in carica due mesi); inoltre raffermarono gli Otto di popolo nel loro ufficio, senza danno dell’autorità del consiglio di tutela.

1490

Non per questo cessarono le agitazioni. Entrato l’anno 1490, essendosi un Bertone di Bacco da Varnello (catturato e prigioniero nella rocca) confessato reo di attentato contro Francesco Manfredi, che era allora visconte e capitano di Val d’Amone (gli successe, nel settembre, GianBattista degl’Indovini), il consiglio di tutela deliberò, attesa la parentela di molti castellani delle rocche con esso Bertone, che Francesco e Scipione Manfredi affidassero a quattro tutori della città ed a quattro della valle il compito di rinnovare tutti i castellani; di più, quel Melchiorre Tonduzzi che per più volte ricordammo, e che nel terzo bimestre del’90 fu priore degli Anziani, era il 17 settembre dai fratelli Manfredi dannato all’esiglio co’figli Francesco e Vincenzo, “pro bono pacis et quietis status”. Ad attestare, inoltre, le dolorose condizioni del piccolo stato, ormai legato in tutto al carro della repubblica fiorentina, e lo scadimento di casa Manfredi, sta il fatto che la scelta dei potestà era nell’arbitrio di Firenze (e il Magnifico surroga, per esempio, il 12 novembre, al potestà Polidoro Tiberti da Cesena il giurista Benedetto Piconi da Colle), e che fu nominato il 25 gennaio tesoriere di corte un Evangelista Casella, senza paga, anzi sborsante egli stesso duecento ducati a fine di riscattare le argenterie di Astorgio III, impegnate al commissario fiorentino per 670 ducati; a conto dè quali ne aveva esso commissario ricevuti duecento quaranta, ritratti dalla vendita della biblioteca del povero Galeotto all’ambasciatore del re d’Ungheria. Triste sfacelo di avite glorie e sostanze!
E pure non mancarono feste e luminarie quando il 19 decembre giunse notizia della conferma della condotta d’Astorgio III al servigio dei Fiorentini.

1491

Al 1491 appartiene la fondazione del Monte di Pietà, dovuto allo zelo dei Francescani Iacopo della Marca e Bernardino da Feltre; ma nega il Valmigli (XI, 89) che, per le sollecitazioni di Bernardino, con i beni immobili di Astorgio III, dopo la sua caduta, si formasse una buona dotazione al pio instituto; Bernardino, con i beni immobili di Astorgio III, dopo la sua caduta, si formasse una buona dotazione al pio instituto; Bernardino morì, infatti, nel ’94, ossia 7 anni prima dello spodestamento e della morte di Astorgio; e solo i beni mobili di quest’ultimo furono nel 1504 destinati dalla repubblica veneta, allora signora di Faenza, a beneficio del Monte di Pietà. In memoria della cui erezione fu coniata una bellissima moneta o medaglia d’argento (che il Litta asserisce trovarsi nel museo di Bologna, ma che l’Argnani, op. cit., non potè rintracciare), recante nel diritto una corona d’alloro con il busto del principe dà capelli spioventi sulle spalle, e all’ intorno la leggenda Astorgius III Man.prin.fave. (Astorgius tercius Manfredus princeps Faventiae); e nel rovescio la pietà di Cristo, ossia Cristo sorgente con la metà della persona dal sepolcro, ed intorno la leggenda Tibi. Tantum. Suffragator. Di un dipinto su tela che commemora parimente la istituzione del Monte, raffigurando il b.Bernardino in atto di commettere al patrocinio di Astorgio la pia opera (dal qual dipinto si è tolto il ritratto del giovinetto principe, da noi riprodotto a pag. 153) diremo a suo luogo, ossia nella seconda parte di questo libro. Ma da che si è parlato della moneta argentea, non vogliamo pretermettere che del principato dell’ultimo legittimo Manfredi si conservano oggi due specie di quattrini, del peso di grammi 0,800 (cfr. Broccoli P., di un quattrino dei Manfredi da Faenza, Iesi, 1907): la prima ha nel diritto l’astore con attorno la leggenda Astorgius.T.M.F.(Astorgius Tercius Manfredus Faventinus), e nel rovescio s.Pietro (trovasi, per esempio, nella cimelioteca di Macerata, nel museo del senatore Papadopoli di Venezia, e in quello del dottor Carlo Piancastelli di Fusignano); la seconda ha nel diritto la lancetta chirurgica e nel rovescio parimente s.Pietro (trovasi, per esempio, nel museo civico di Faenza, in quello del predetto Piancastelli, nella grande raccolta del re d’Italia, nel museo di Vienna).

1494

Maturavano intanto nella penisola quelle dolorose vicende le quali condusseroalla spedizione di Carlo VIII, re di Francia, in Italia, instigato da Lodovico Sforza contro il re di Napoli. Un’avanguardia francese, agli ordini del d’Aubigny, si spinse nel 1494 in Romagna contro l’esercito del duca di Calabria, che su’l territorio faentino eseguì importanti mosse; e quando il duca, dopo il sacco dato dai Francesi al castello di Mordano, ebbe a ritirarsi in fretta verso Cesena, sembra che Faenza, insieme con Imola e Forlì, conchiudesse un trattato d’alleanza con il re di Francia, e si mettesse nominalmente al soldo di lui. Scendeva frattanto dalle Alpi Carlo in persona, il quale dal Piemonte e dalla Lombardia, valicato l’Appennino, si diresse in Toscana. Quivi l’inetto Piero dè Medici, succeduto nel ’92 al magnifico Lorenzo, suo padre, nella direzione della politica fiorentina, divenne d’un tratto vile, e cedette al re di Francia le città di Pisa e di Livorno, e le fortezze di Sarzana, Sarzanello e Pietrasanta: onde il partito antimediceo, profittando del malcontento, prese il sopravvento, e Piero e tutta la famiglia Medici furono cacciati.
Carlo VIII, venuto ad accordi co’l nuovo governo fiorentino, proseguì poi la sua marcia trionfale verso il Napoletano; ma le mutazioni interne di Firenze ebbero un contraccolpo nel piccolo stato di Faenza, che era stato finora (come sappiamo) fautore e protetto dei Medici. Non mancava, infatti, chi si desiderasse subentrare ai fiorentini nel patrocinio di Faenza; e ciò è dimostrato dalle trattative di matrimonio che subito i tutori di Astorgio impresero a fare, nell’incertezza dei casi della guerra napoletana, tra il decenne principino e la diciassettenne Bianca Riario, figlia di Caterina Sforza, signora di Forlì, e del conte Girolamo Riario; il che avrebbe procurata a Faenza la protezione di Ludovico Sforza, divenuto ormai duca di Milano per la morte del nipote Gian Galeazzo.

1495

Certo si è che il 1° febbraio del ’95, dall’auditore di Caterina furono pubblicati gli sponsali fra Astorgio e Bianca, differendosi le nozze a quando il fidanzato fosse uscito dall’adolescenza.
Si formò, poi, contro Carlo VIII quella lega che fu promossa dallo stesso Sforza, ed a cui non vollero aderire i Fiorentini; onde il re francese, per non farsi chiudere nel Napoletano, velocemente tornò indietro, sforzò a Fornivo il passo contrastatogli, e rivalicò le Alpi. Ma Pisa, rivendicatasi a libertà contro Firenze, non fu da questa ripresa se non dopo lunghissima guerra; e nella resistenza fu dessa fatta più audace dagli aiuti di Venezia, che pensava rimettere in Firenze lo sbandeggiato Piero dè Medici. Per seguire allora la tradizionale politica medicea, il consiglio di tutela, dopo avere a lungo esitato tra Firenze e Venezia, si diè in protezione a s.Marco e pose il 15 decembre ’95 le milizie d’Astorgio in condotta della repubblica veneta (per 8000 ducati annui); e la Serenissima mandò a Faenza un suo provveditore affinché vi dirigesse la politica, come un tempo avea fatto il commissario fiorentino.
Sdegnata Firenze per questo che essa chiamò tradimento di Astorgio, cercò di rimettere nel dominio di Faenza Ottaviano Manfredi, il quale da Arezzo, ov’era confinato, era stato condotto dà Fiorentini alla guerra di Pisa, e quivi caduto prigione, e liberato dopo sei mesi per mediazione di Carlo VIII. Sovvenne adunque la repubblica fiorentina di 300 fanti e d’altre milizie di giovine pretendente, il quale, con genti di Val d’Amone condotte da Dionigi e Vincenzo Naldi da Brisighella, la notte del 18 decembre si accostò alle mura di Faenza; ma quivi giunsero a tempo gli armati di Caterina Sforza, in soccorso di Astorgio, a ributtare gli assalitori. Venezia ingiunse poi ad Ottaviano di togliersi dal territorio faentino; e poiché non obbediva, essa mandò Andrea Zancani potestà di Ravenna, e Bernardo Contarini, provveditore veneto a Faenza, con milizie, a cacciarnelo: onde Ottaviano si ritirò in Toscana, e i due Naldi furon puniti con taglie.

1496-1497

Le quali, del resto, furono revocate di lì a poco (2 gennaio 1496) per attrarre costoro, che eran prodi soldati, à servigi della Serenissima; e intanto, mentre a Vincenzo Bazzolini succedeva, come vicario del principe, Gian Battista del fu Niccolò di Cenne degl’Indovini, al provveditore Contarini Venezia surrogava Domenico Trevisano, il quale, venuto in urto co’l governo faentino, si allontanò o fu richiamato il 4 gennaio 1497.

1498

La morte di Carlo VIII (7 aprile ’98) liberò gl’italiani dal timore dei Francesi; e il duca di Milano, temendo ora che Venezia accrescesse la sua già grande potenza con l’acquisto di Pisa, si riaccostò a Fiorentini. I quali, timorosi alla lor volta che i Veneziani, per l’alleanza con Astorgio III, incominciassero in aiuto di Pisa le ostilità contro Firenze, introducendosi nella facile via della Val d’Amone, condussero à loro stipendi Ottaviano Riario, signore di forlì ed Imola, favorito in ciò dalla madre Caterina Sforza, che apertamente parteggiava con il duca di Milano; e la repubblica veneta allora manda da Ravenna 500 cavalli contro Caterina, ed ingiunge a Vincenzo Naldi, suo capitano, di assoldare 1000 fanti in Val d’Amone; a traverso la qual valle, con l’aiuto di Astorgio raffermato nella condotta, sfilano dunque le milizie venete, e prendono Marradi, senza però riuscire ad averne la rocca. A guardia di questa era Dionigi Naldi (che, a differenza del fratello Vincenzo, militava per Firenze), il quale con la sua resistenza diè tempo a’Fiorentini di spedire buon nerbo d’altre milizie, sì che gli assalitori veneziani furono respinti quasi in fuga.

1499

L’anno di poi (1499) fu trattato un accordo, per mediazione del duca di Milano, il quale ormai presentiva il fiero temporale che contro di lui stava preparando Luigi XII, novello re di Francia: ed Ercole I di Ferrara, in cui era stato fatto compromesso, il 6 aprile decretò che i Fiorentini tornassero padroni di Pisa, ma compensassero i Veneziani con 180 mila scudi. I Pisani ricusarono con isdegno l’obbedienza, e la loro lotta con Firenze seguitò.
Frattanto Ottaviano Manfredi, fallitogli il tentativo suddetto, per il quale pendevagli su’l capo una taglia di 1500 ducati, era stato dai Fiorentini mandato a Forlì, su ‘l cadere del ’98, presso la contessa Caterina Sforza Riario, con il figlio della quale (anch’egli al soldo di Firenze) s’era il giovine esule stretto di calda amicizia durante la guerra di Pisa: e ciò i Fiorentini avevano fatto per tenere in soggezione Astorgio III, or ch’ei s’era dato tutto a Venezia, mandandogli il pretendente ai confini. In Forlì, adunque, a fianco del compagno, ben accolto e accarezzato dalla contessa (la quale, amica di Firenze e nemica di Venezia, disdisse ora ad Astorgio le promesse nozze con la figlia), passò il povero giovine gli ultimi mesi del ’98 e i primi del’ 99, che furono certo i migliori della sua breve e misera vita; poi, trovandosi a corto di denari, volle recarsi a Firenze per regolare i suoi conti con quella Signoria, che gli doveva le paghe dell’ultima condotta. Fattosi imprestare dieci ducati dal ricco forlivese Luffo Numai, ed ottenuta a stento licenza da Caterina, in compagnia d’un tale don Francesco Fortunati, pievano di cascina e famigliare di casa Medici, e con una scorta di soli sei uomini a cavallo, Ottaviano Manfredi si partì dunque da Forlì il 12 aprile, e per la via di Castrocaro si accinse a valicar l’Appennino ; ma giunto che fu ad uno stretto e tortuoso passo, in luogo detto la Scala, ecco farglisi addosso un branco di villani armati di lance, roncole e partigiane, i quali, mentre gli altri della sua scorta fuggivano a precipizio, lo assalirono barbaramente, uccidendolo con ben tredici ferite. Egli spirò mormorando preghiere, amorosamente assistito da quel Fortunati che gli era compagno di viaggio: il suo cadavere, deposto dapprima nella vicina badia di s.Benedetto, fu poi per ordine della contessa (che assai si dolse del tragico fatto) trasportato in Forlì, e con esequie magnifiche sepolto nella chiesa di s.Girolamo (oggidì di s.Biagio), precisamente sotto la tomba della zia Barbara Manfredi (cfr.p.156). Autore e mandatario del truce delitto fu un galeotto dè Bosi di Faenza, del partito Astoresco, il quale si servì di gente di Val d’Amone per guadagnarsi la taglia e insieme il favore del governo faentino.
Luigi XII, intanto, fatta lega con Venezia, invadeva la Lombardia, obbligando Ludovico Sforza, detto il Moro, a fuggire in Germania; e contraccolpo in Romagna si fu che la signoria veneta mandò da Ravenna milizie ad occupar Cotignola, che era sotto il ducato di Milano (settembre del’99); ma i Cotignolesi si difesero bravamente dai ripetuti assalti dell’esercito veneto, in cui erano anche gli armati d’Astorgio III, i quali dovettero ritrarsi a Granarolo.
Mentre il re di Francia s’accingeva ad una nuova impresa nel mezzogiornod’Italia, papa Alessandro VI (Borgia), succeduto ad Innocenzo VIII fino dal ’92, si serviva opportunatamente dell’aiuto straniero per ristabilire su lo stato pontificio il diretto dominio papale, abbattendovi i signorotti delle Romagne e della Marca. I rapporti di que signorotti, che da tempo non pagavano più regolarmente i canoni da loro dovuti come vicarii della s.Sede, con il loro alto sovrano, erano tali da offrire al papa buona occasione per molestarli; ed alla testa, dunque, di 14 mila uomini, tracci molti Francesi mandati da Luigi XII, il degno figlio del papa, Cesare Borgia, detto il duca Valentino, proclamato gonfaloniere della Chiesa, tolse da prima ad Ottaviano Riario Imola, la cui rocca, custodita da Dionigi Naldi, capitolò il 9 decembre ’99; poi assalì Forlì nuamente difesa da Caterina Sforza), di cui la fortezza si arrese il 12 gennaio 1500.

1500

Dopo una sosta nell’impresa, dovuta al ritiro delle milizie francese che doveano ora combattere contro una riscossa di Lodovico il Moro in Lombardia; e dopo che esso Moro, abbandonato dà suoi Svizzeri, fu condotto prigioniero in Francia; il duca Valentino riprese la guerra ed occupò, quasi senza trovar resistenza, Pesaro e Rimini, i cui signori, Giovanni sforza e Pandolfo Malatesti, trovarono scampo nella fuga.
Il pericolo che or sovrastava a Faenza era gravissimo. Vero è che Venezia, fin dalla caduta d’Imola, aveva mandato a Ravenna 3000 fanti e 2000 cavalli, ed inviati due provveditori, Francesco Cappello e Cristoforo Moro, l’uno a Rimini e l’altro a Faenza, per la protezione delle terre a lei devote; vero è parimente che Astorgio III cercò ora tornare in grazia al pontefice, affrettandosi a pagare nuovamente l’annuo canone per mezzo del giureconsulto Gabriele Calderoni, espressamente inviato per ciò a Roma: ma è pur vero che , dopo la caduta di forlì e dopo la rinnovata guerra in Lombardia, la Serenissima, richiamò tutte le sue milizie, per meglio assicurare e difendere i suoi dominii diretti, e d’altro canto il pontefice non volle riscuotere il censo faentino, né toglier l’interdetto, né riconfermare Astorgio nel vicariato (che dimostra aver egli fermato in cuor suo, inesorabilmente, la ruina di Faenza), onde il Calderoni depositò il danaro in un banco di Roma, redasse una protesta, e si partì.
Il destino della nostra città era pur troppo deciso:chè nelle trattative diplomatiche degli anni 1499 e 1500fra Alessandro VI, Luigi XII e Venezia, il papa comperò dal re di Francia la libertà d’agire contro Faenza, concedendo la legazione francese al cardinale di Rouen; ed i Veneziani stessi mercanteggiarono le sorti della loro protetta perché, disfatti a Modone dai Turchi, e bisognosi d’aiuti del papa, non poterono ottener da lui la proclamazione della crociata fin che non gli lasciarono le mani libere contro Faenza.
Scriveva il 21 ottobre del 1500 da Urbino un tal Silvestro Calandra al marchese di Mantova che “il duca Valentino ha gran praticha dentro de Faenza, e senza botte de artigliaria la haverà”; e il 24 dello stesso mese aggiungeva che “l’impresa li serà facile, perché ha gran parte de la val de Lamona a sua posta per mezzo de Dionisio Bresighello, et lui ge dà 500 vasconi dentro de Imola, a suo comando”.
Le tristi previsioni s’avverarono subito rispetto alla valle; chè avviandosi il Valentino da Rimini il 4 novembre alla volta di Faenza con l’intero suo esercito di 15000 uomini (condotto dal fiore dei capitani italiani, quali Paolo e Giulio Orsini, Vitellozzo Vitelli, Gian PaoloBaglioni, Onorio Savelli, Ferdinando Farnese, e da molti duci francesi e spagnoli), giunto che fu a Forlì mandò subito 500 cavalli con Vitellozzo in val d’Amone, dove ad una ad una cedettero le rocche, anche per l’aiuto di Dionigi Naldi, il quale, per essere stato fautore d’Ottaviano, avea in odio Astorgio III. Caduta anche Brisighella, rimase sola a resistere valorosamente la rocca di Monte Maggiore, il cui castellano Comparino di Ceruno con una vigorosa sortita respinse il Vitelli, uccidendogli e ferendogli parecchi militi. “questo fu quanto sangue-scrive lo Zuccoli-si sparse alla perdita di tante fortezze; ma Comparino fu poi sforzato, per mancanza di vetuvaglia, d’abbandonar la fortezza”. E intanto il 15 novembre il Valentino espugnava pur il castello d’Oriolo, fuori della valle, che fu trovato approviggionato di tanto grano da farne i soldati commercio.
Ma non così agevole fu la presa di Faenza, i cui cittadini non vollero smentire le gloriose tradizioni della loro virtù di braccio e d’animo, né piegarono, come altri avea fatto, il capo dinanzi al prepotente cenno del tristo figliuolo di papa Borgia. E per sei mesi resistettero essi, contro un ‘oste nemica così soverchiante, senza alcun aiuto straniero e con esigue forze militari, stringendosi tutto il popolo a suprema difesa, con amore e con fedeltà cavalleresca, intorno a quel piccolo sventurato principe che stava per espiare miseramente le colpe dei suoi maggiori.
Il 6 novembre si aduna il Consiglio generale, il quale delibera di difendere la città fino agli estremi: al comando delle milizie è eletto il conte Bernardino da Marzano; fra i cittadini, il popolo ed il clero si raccoglie una spontanea contribuzione di lire 1284 per sopperire alle spese più urgenti, della quale entrano fideiussori il dott.Taddeo Viarani, Niccolò Castagnino, castellano di Faenza, Cesare Ghisoni, il dott. Niccolò Casali, il dott. Tommaso Maglorii, Giovanni da Lozzano, Alessandro Severoli e Filippo Bazzolini; si costituisce un nuovo magistrato di 16 cittadini (4 per quartiere) per il disbrigo sopra tutto degli affari militari, detto dei sedici della guerra, con piena autorità conferita loro dal consiglio: e questi sedici provvedono subito a che nelle rocche siano posti dè castellani fidati e sicuri.
Ma un gravissimo pericolo corse subito la città per il tradimento iniquo del castellano della rocca faentina Niccolò Castagnino su detto (al Simone Zuccoli che cedette la fortezza nell’88 era stato surrogato nuovamente Gasparino Calderoni, già cospiratore contro Galeotto, ma ai 17 gennaio dell’89 era novello castellano il Castagnino); il quale “una mattina-narra lo Zuccoli-che il signor Astorre era andato per entrare in rocca, laddove era solito d’abbassare il ponte, abbassò la ponticella, et il signore sospettò, vedendo che costui lo voleva far passare per quelle strette, per le quali non può entrare se non uno alla volta, et non volle entrare, et ritornò a palazzo”: onde, raddoppiatasi la sorveglianza, fu alla perfine trovato nel fango presso la rocca un piego, inviatogli dal Valentino, che conteneva i capitoli della resa sottoscritti, con tutto il concordato. Scoperto per cotal guisa, l’audace Castagnino (sebbene avesse dato in pegno di sua fede un nipote, chiuso nel castello di solarolo) proruppe in aperta ribellione, voltando le artiglierie contro la città; e allora i Sedici, per non aver brighe mentre il nemico era loro sopra, pensarono di liberarsi di lui e dando il guasto alle cose sue. A nuovo castellano fu scelto Giovanni Evangelista, fratello naturale e quasi coetaneo di Astorgio III, ed insieme gli furono dati per aiuto e consiglio quattro dei Sedici della guerra, mentre d’altro canto si provvedeva alla gagliarda difesa, dando il guasto alle campagne circostanti perché non offrissero vettovaglie al nemico, abbattendo alberi e case ed adifizi sacri, rafforzando le mura e costruendo bastioni. Quanto alla persona del principe, il Bentivoglio, nessun’altra protezione potendo dare al nipotino per non attrarre su di sè l’ira del Borgia, inviò a Faenza come consigliere d’Astorgio il conte Guido Torelli, co’l quale la feroce Francesca era passata a seconde nozze nel 1494; ed il Torelli era d’avviso di far fuggire il piccolo Astorgio a Firenze od a Venezia: ma i Sedici reputarono meglio che egli rimanesse ad animare ed incoraggiare il popolo con la sua presenza.
Il 16 novembre il Valentino è sotto Faenza, si pone a campo presso al Borgo d’Urbecco, e piantate le artiglierie tra i fiumi Lamone e Marzeno, batte il giorno 19 con esse il torrione del borgo. Il dì seguente, alcuni suoi capitani, credendo di aver fatta breccia bastevole per dar l’assalto, appiccano con quei di dentro una micidiale zuffa, durata dalle ore 18 alle 21, ma sono ributtati con grande strage, restando morto di essi il condottiero Onorio Savelli; e narrano i cronisti che, essendosi gli aggressori avanzati tant’oltre da piantare due insegne su la muraglia, una fu rigettata nella fossa e l’altra fu tolta di mano all’alfiere dalla coraggiosa donna Diamante, figliuola di ser Bartolommeo Torelli, che virilmente combatteva su gli spalti. L’inattesa resistenza, la difficoltà dell’impresa e l’avanzarsi della rigida stagione consigliarono al Borgia di levare il campo e distribuirlo ai quartieri nei luoghi circonvicini, donde potesse tener sempre oppugnata ed insidiata la città; poi, rodendosi dentro per l’ira, egli mandò il 3 decembre ai faentini Vincenzo Naldi con molte astute profferte per piegarli ad accordi; al che essi risposero fieramente “che se non era venuto per altro, potea benissimo ritornarsi da questo offitio, poiché, oltre che non era costume loro di rompere ad alcuno la fede data con giuramento, avevano risoluto in un consiglio generale di diffendere il dominio dè Manfredi fino alla morte”(Zuccoli).
Ricorse allora il Valentino agl’inganni, cercando di attirare, per mezzo di Dionigi Naldi, il capitano supremo dè Faentini, conte Bernardino da Marzano, nella valle d’Amone, sotto colore d’una sommossa dè Valligiani in favore di Astorgio; ma gli artifici non valsero.

1501

Durante l’inverno non si cessò da una parte e dall’altra di molestarsi con continue fazioni e scorrerie: così i balestrieri d’Astorgio fecero una volta buona preda d’armenti in quel di Bagnacavallo, e ne derivò una zuffa con il cesenate Achille Tiberti, che acapo di due squadre era a guardia di tal borgo, e che rimase ferito in quel combattimento; ed un’altra grossa razzia di bestiame feceil conte Bernardino in persona, il 7 gennaio 1501, in quel di Forlì, per il valore di 4000 scudi. Dal canto suo il Borgia tentò più volte di nottetempo la scalata delle mura, ma sempre fu ributtato con suo grande scorno; onde si volse egli contro gli altri castelli del dominio faentino, che erano fuor della valle d’Amone (Russi, Granarolo e Solarolo), e tutti li ebbe quasi senza resistenza alcuna. Ma intanto i nostri si preparavano al prossimo urto, costruendo un nuovo e forte bastione a difesa della rocca, nella speranza che fossero per giungere in tempo gl’invocati aiuti dè Veneziani, i quali pur s’eranoassunta la tutela d’Astorgio; o gli aiuti dè Fiorentini, che della potenza del Borgia dovean molto temere; o quelli dell’Estense, che avea ben da ricordarsi dell’opera di Galeotto in suo soccorso, nella guerra dell’82: ma di tutti costoro, pensosi ora dell’interesse proprio (di non eccitare, cio è, le ire del re francese) piuttosto che mossi dalla pietà per il giovinetto infelice e per la città misera e sola, dettero buone parole e non altro.
Tornata al fine la primavera, ed avvicinandosi il cimento terribile, gran parte del popolo il 10 aprile, giorno del sabato santo, si raccolse nel duomo, e quivi tutti giurarono di metter da parte inimicizie, discordie e rancori, per istar invece uniti e saldi, mentre dall’alto del pergamo un frate predicatore attestava a gran voce dinanzi a dio questo consenso unanime nella difesa della patria e della libertà.
Cesare Borgia e il suo grosso esercito non si fecero attendere. Dopo aver obbligato una schiera di giovani forti ed animosi (che resistettero circa sei giorni) a sloggiare dal convento dei Minori Osservanti, ed a ritirarsi e concentrarsi a difesa entro le mura della città, in esso convento pose il Valentino, ai 18 d’aprile, il suo quartier generale; e volte le artiglierie contro la rocca, espugnò prima il recente bastione su detto, e poi con 1660 colpi spianò, il dì dopo, gran parte della cortina e ruppe il ponte per cui dalla città si entrava nella rocca, a fine d’impedire il soccorso. Ciò fatto, ordinò un generale assalto con tutte le sue forze, ma fu gagliardamente respinto, avendo i nostri, mentre ruinava il ponte sudetto, tosto provveduto a costruirne un altro nella fossa, meno esposto alle offese. Il giorno 20 ripetè il Valentino l’assalto, inviando successivamente alle offese, per stancare i difensori, prima i Francesi, poi gli Spagnuoli, e finalmente gl’Italiani, nel tempo stesso che a colpi di bombarda abbatteva dal mezzo in su il maggior maschio della rocca: ma fu nuovamente ributtato, cadendo molti degli assalitori, massime dè Francesi e Spagnoli, fino al numero di 400. volle finalmente il 21 aprile il Borgia tentare un terzo generale attacco, che durò dalle ore una alle cinque pomeridiane, e che parimente si risolse con la vittoria dè Faentini, da poi che perirono 600 degli assalitori, tra cui il condottiero Ferdinando Farnese. Ma anche i Faentini vi ebbero perdite gravi, specialmente per la rovina di una loggia della rocca, che travolse e schiacciò molti combattenti. E in tutti cotesti tumultuosi ed epici fatti d’arme fu meraviglioso il patrio amore delle donne, pronte ai soccorsi, alla cura dè feriti, a rincuorare gli spiriti, ed a cooperare né ristauri delle mura abbattute e diroccate.
Ma ecco d’un tratto il tradimento aiutare gli sforzi e le ire del Borgia. Un tal Bartolommeo (così il Toduzzi, pag. 559, ma lo Zuccoli dice Gabriele) Germinante, tintore, essendo una notte di sentinella, e pensando che mal si srebbe potuto resistere ai futuri assalti, volle iniquamente provvedere a se stesso, e calatosi giù dalle mura, entrò nel campo nemico. Condotto dinanzi al duca, gli rivelò trovarsi la città in pessimo stato, senza soldati forestieri, ed ormai con pochi anche dei proprii che fossero atti a combattere; narrò pure che il dì prima Astorgio III aveva fatta una colletta di danari a prestito fra i cittadini, per sostenere la guerra, e che non avea raccolto gran cosa; infine gl’indicò i punti più deboli delle mura, e più facili perciò all’impresa degli assalitori. Sembra che questo del Germinante non fosse il solo tradimento che incitasse il Valentino a raddoppiare gli sforzi; fatto è che il duca profittò subito degl’infami consigli, ponendo una grossa batteria contro la parte meno salda della rocca: onde i Faentini, che lo sparire del Germinante e la mossa del duca hanno messo inn sospetto, decimati di forze, stretti dalla mancanza di danaro, sconfortati e delusi nelle lor speranze di soccorsi da Firenze (sebbene il conte Bernardino, per inanimire il popolo, avesse sparsa voce essere già in cammino le milizie ausiliarie, inviate sotto gli ordini del conte Bernardino, per inanimire il popolo, avesse sparsa voce essere già in cammino le milizie ausiliarie, inviate sotto gli ordini del conte Ranuccio suo fratello, e ne mostrasse anche, per dar credito a tal voce, delle letter finte), deliberano di venire a patti, e partecipano tal deliberazione, per mezzo di un frate Osservante, al signorino Astorgio. Il quale risponde essere anche lui dello stesso parere, ma che li pregava bene salvassero sé stessi, e la persona sua, e le sue robe. Così il 25 aprile fu decisa la resa fatale, che dovea conchiudere e suggellare tragicamente la signoria manfrediana.
Tolti gl’interdetti ele censure; salvo Astorgio e i suoi fratelli e cugini, e liberi d’andare ove credano; salvi i loro beni immobili, ed i mobili affidati alla clemenza del papa; salvo e perdonato il popolo, e protetto da ogni offesa che potesse venirgli dai Valdamonesi e dai castelli di Russi, Granarolo, Solarolo ed Oriolo; salvi il conte Bernardino, tutti i conestabili, bombardieri, scoppiettieri, mastri d’artiglieria, mastri della zecca, e qualunque altro stipendiato d’Astorgio; reintegrati dei benefizi perduti gli ecclesiastici; restituiti i beni mobili ed immobili agli uomini di Faenza e del contado; conservati per l’avvenire gli statuti, le costituzioni, i decreti e le consuetudini del tempo d’Astorgio; annullate le condanne criminali; confermati i contratti fatti in passato per il detto signore e suoi predecessori;mantenute nel loro corso legale le monete per lui battute etc.: il popolo domandava grazia, e la città si rendeva al duca purchè “ l’esercito di Sua Eccellenza non possa, né abbia ad entrare nella città… ma sol possa mettere nella rocca quel numero di soldati che sia espediente per insignorirsene”.
Firmati i capitoli, il Valentino dal convento dell’Osservanza mandò lo spagnuolo Michele da Coreglia, suo condottiero, con 500 fanti, a pigliar possesso della rocca, mentre il resto dell’esercito moveva su Solarolo, e l’artiglieria era inviata ad espugnare Castel bolognese. Il dì seguente entrava in Faenza il legato pontificio card. Giovanni Vera, spagnolo ed arcivescovo di Salerno, a ricevere dai cittadini il giuramento di fedeltà; e su le ore 21 del giorno stesso, tra le molte lacrime dei suoi fedeli, il giovinetto Astorgio III, insieme con il fratello naturale Giovanni Evangelista (Scipione era già morto fin dal ’93, e Francesco s’era messo in salvo), uscì dalla città per recarsi a rendere omaggio al duca Valentino.
Credettero forse, con questo atto, coloro che erano stati i tutori d’Astorgio, di propiziare il feroce animo del Borgia verso i due miseri giovinetti: ma fu un errore fatale che mise gli agnelli nelle fauci del lupo. Il Valentino li accolse con dimostrazioni di benevolenza, ma li ritenne nel campo, e li condusse di poi seco come prigionieri.
Creato dal papa duca di Romagna, con diploma del 29 aprile, Cesare Borgia si partì da Faenza, lasciandovi suo luogotenente Pier Ludovico Saraceni da Fano (che già vi era stato potestà nel ’93), ed il dott. Giacomo Pasi come vicario, Cesare Varani come tesoriere (questi ultimi ambedue faentini); indi, saccheggiato Castel s.Pietro, e dato il guasto nel territorio di Bologna, fu impedito di muovere su quest’ultima dalla proibizione esplicita del re di Francia, onde dovette contentarsi di Castel s.Pietro e di Castelbolognese, concessigli dal Bentivoglio, con un certo numero d’armati, per comprare in qualche modo la pace. Poi per la via di Toscana fece condurre a Roma dal suo fido capitano Michele i due fratelli Astorgio e Giovanni Evangelista Manfredi, i quali il papa, mancando alla giurata fede, rinchiuse tosto in castel s.Angelo. è nota la loro orribile morte: all’entrar del giugno dell’anno di poi i due infelici giovinetti furono fatti strozzare e gettati nel Tevere (cfr. Burchardi, Diarium, III, 208); e il Guicciardini (Storia d’Italia, V, 259) esprime il sospetto e riferisce la voce corsa di un delitto ancor più infame che qualcuno avrebbe commesso su Astorgio. Così quest’ultimo raccoglieva nella sua fine il tragico fato e le sventure della sua famiglia, ormai distrutta o dispersa.

 

 

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